I Malavoglia a tavola
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Book preview
I Malavoglia a tavola - Maria Ivana Tanga
Verga e la Sicilia contadina
Giovanni Verga nasce a Catania nel 1840. La sua è una famiglia di origini nobiliari, però non conservatrice, non gretta come tante altre casate siciliane di quell’epoca. Verga appartiene a quell’aristocrazia latifondista tipica del nostro sud contadino. Un’aristocrazia che si è nutrita dello stesso pane dei suoi contadini e che ha sofferto le stesse pene, le stesse angosce. Pensiamo ai nobilotti, ai baroni e baronetti falliti o semi decaduti o totalmente rovinati, che popolano le pagine del Mastro Don Gesualdo: non sembrano i rappresentanti di una vera classe sociale, ma semplicemente gli epigoni di un ceto decadente, senza un ruolo, senza ideali e senza potere, i quali conducono una vita quasi peggiore dei loro massari e salariati. Nelle opere di Verga non esiste la contrapposizione tra classi sociali, tipica del romanzo sociale francese. Non esiste la lotta di classe, il pathos, la tensione ideologica che pervade i romanzi russi dell’800. Quella verghiana ci appare come una realtà quasi a-politica, con due soli ceti che, dinanzi ai bisogni e alle ristrettezze, hanno rinunciato a combattersi: i signori e i cafoni. Ciascuno, dal più umile al più elevato, ha avuto la sua parte nella lotta per l’esistenza, per il benessere, per l’ambizione, dall’umile pescatore al nuovo arricchito
, scrive Verga nell’introduzione ai Malavoglia.
Va notato come, nell’universo verghiano, i padroni e i loro sottoposti sembrano uniti, accomunati da uno stesso destino dominato unicamente dal fato e dalla Provvidenza
. Per questo, nelle opere di Verga non si avverte nessuna tensione classista, nessuna vis polemica, nessun odio di classe. Sono tutti su una stessa barca, proprietari e braccianti, galantuomini e contadini, nullatenenti e possidenti. Speriamo che ci sia una buona annata per il padrone e per noi
dice Nanni l’Orbo, nel Mastro Don Gesualdo. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini
osserva serenamente l’io narrante nella novella intitolata Libertà. L’unica differenza è che i signori si nutrivano di pane bianco, mentre i cafoni di pane nero. Nelle società contadine, la sola, vera contrapposizione sociale passa per la tavola. Sebbene, per la verità, il menù dell’arricchito Don Gesualdo, a base di insalata di cipolle, non differisce troppo dalla dieta di un povero cristo come Alfio Mosca. In tutte le opere verghiane, dalle rusticane al borghese
Mastro Don Gesualdo, si sente odor di fave e di cipolle. In questo senso, si potrebbe parlare di un trasversalismo socialculinario verghiano. In tutte le società contadine era soltanto il codice festivo a modificare il menù quotidiano, introducendo nella dieta pietanze diverse, più ricche e sostanziose.
La vita dei contadini, le loro abitudini, la loro cucina, le loro diatribe, i loro dolori, le loro poche gioie, Verga le apprenderà sin dall’infanzia, in quelle calde estati trascorse nella tenuta di Vizzini insieme alla famiglia. Il profumo delle ginestre, il canto dei grilli nelle notti di luna piena, l’odore delle fave appena sgusciate si imprimeranno come un marchio indelebile nella sua memoria di fanciullo. Le visioni della campagna siciliana accompagneranno Verga per tutta la vita, soprattutto nei soggiorni di Firenze e di Milano. Visioni dilatate dalla distanza e dalla nostalgia di quel mondo arcaico, attardato su ritmi lenti, lontano mille miglia dalla realtà frenetica del nord d’Italia. È in questo passaggio che si inserisce la polemica anti-progressista, contro la città improduttiva
e parassita
, in favore di quell’alternativa agraria
di cui parla anche Sonnino.² Il mondo contadino è, per Verga, portatore dei veri valori della vita, immutabili e imperituri. Il contadino siciliano, forgiato dalla fatica e dalle avversità, è latore di un messaggio positivo, figura costruttiva, fattiva, esempio di sobria laboriosità. Un pensiero particolare va alle donne di Verga, amorevoli custodi della roba e dei valori familiari, del focolare domestico. Fedeli vestali della tradizione e della cultura materiale contadina. Eroine positive che ci rimandano all’immagine della formichina che lavora tutta l’estate per mettere da parte il cibo per il resto dell’anno.
L’etica del lavoro è un altro valore positivo incarnato dagli eroi verghiani. Un valore che non ritroviamo nelle città caratterizzate da una attività parassitaria
, come quella Palermo che si trova dinanzi un Don Gesualdo morente. Lo sperpero, lo sfarzo vuoto, il cerimoniale inutile del palazzo del Duca di Leyra, suo genero, fanno da sfondo tragico alla fine di un uomo che ha sacrificato la vita per accumulare un patrimonio, per fare la sua
roba. Quella roba che vede andare in fumo sotto i suoi occhi oramai annebbiati dal velo della morte. La morte di Don Gesualdo rappresenta, allegoricamente, il fallimento degli ideali della sua vita, l’arrampicata sociale, l’arricchimento. L’ambizione, l’avidità, la smania di ricchezza alla fine si rivelano un vero e proprio boomerang per l’ex muratore, la cui scalata sociale lo aveva portato a imparentarsi prima con la casata decaduta dei Trao, poi con il fallito duca di Leyra, marito di sua figlia. Sarà quest’ultimo a dare il colpo di grazia al vecchio mondo di Don Gesualdo e ai suoi valori, in un epilogo da tragedia greca.
Lontano dalla terra natìa lo scrittore produrrà alcune delle sue migliori novelle, da Storia di una capinera a Nedda, da Tigre reale a Eva. È nella prefazione a quest’ultima novella che Verga prenderà apertamente di mira il capitalismo del Nord, quello delle banche e delle imprese industriali
.
La Sicilia di Verga, sotto i