A tavola con Grazia
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Book preview
A tavola con Grazia - Neria De Giovanni
A tavola con Grazia
Leggere è un gusto!
percorsi tra cucina, letteratura e…
41
Neria De Giovanni
A tavola con Grazia
Cibo e cucina nell’opera
di Grazia Deledda
pubIn copertina: Simone Manca, A cena a casa del rettore, cioè il parroco del villaggio,
Biblioteca Reale, Torino.
Le ricette sono opera di Andrea Vargiu.
ISBN: 978-88-96720-94-3
© Copyright 2008
Edizioni Il leone verde
Via della Consolata 7, Torino
Tel/fax 011 52.11.790
e-mail: leoneverde@leoneverde.it
http://www.leoneverde.it
http://www.leggereungusto.it
Indice
INTRODUZIONE
IL SANGUINACCIO
L’ARROSTO DEL BANDITO
LE PROVVISTE DI UNA CASA PERBENE
IL PANE CASALINGO
BISCOTTI E CARNE PER ESSERE PIÙ BELLA
IL PRANZO DEGLI ORFANI
IL BANCHETTO DELLE FESTE
LA FRUTTA SEDUTTIVA
I MACCHERONI
LA PRIMA COLAZIONE
IL BANCHETTO CON GLI AMICI
L’OLIO DI OLIVA
PANE E DOLCI PER L’OSPITE
LA CENA FRUGALE IN CUCINA
IL PRANZO DELLA FESTA
LA CENA DELLA VEDOVA
IL PRANZO DEI POVERI
CAFFÈ, PASTICCINI E CARNE ARROSTO ALLA FESTA DI SAN FRANCESCO
IL PRANZO PER L’OSPITE
IL PANE NEL FORNO
I DOLCI
LA MINESTRA DI FORMAGGIO
LA CENA DI NATALE
LA POLENTA
LA PREPARAZIONE DEGLI GNOCCHI
PRANZI E BANCHETTI PER IL VIAGGIO DI NOZZE A CERVIA
COLAZIONE A ROMA PER GLI SPOSINI
CONCLUSIONE
LA CUCINA SARDA
POSTFAZIONE, di Andrea Vargiu
Introduzione
Da sempre la preparazione del cibo è strettamente connessa ai ruoli femminili e casalinghi. L’allattamento rende la donna, in quanto femmina, dispensatrice del nutrimento in maniera diretta. L’immagine di una donna che rimescola dentro un paiolo, sfumata nei vapori della cucina, appartiene all’immaginario collettivo dell’umanità. Si colora di un’aura positiva, quando la donna è madre e nutrice; si contorna di toni ombrosi quando la donna è chiamata strega. Così la cucina, luogo della preparazione dei cibi, è anche luogo deputato al potere
femminile che attraverso la tavola, e la soddisfazione di un prepotente bisogno primario, ha spesso inciso, anche indirettamente, sulle decisioni dell’uomo nutrito.
Per scivolare dal versante antropologico a quello più squisitamente letterario, Banana Yoshimoto in Kitchen ha attualizzato l’importanza e il potere del cibo in una società come quella nipponica, molto attenta ai rituali e ai ruoli tradizionali.
Di vero ritorno alla vita si può parlare per Isabel Allende che, dopo aver narrato nel bestseller internazionale Paula il doloroso soliloquio di una madre davanti alla figlia in coma, con Afrodita riscopre il potere erotico del cibo e la gioia di vivere a esso connessa. Un’intera comunità nella Norvegia puritana riacquista il piacere del sorriso e dello stare insieme grazie al pranzo di Babette nello splendido racconto omonimo di Karen Blixen. Così la convivialità come espressione primaria di gioia di vivere è espressa allo stesso modo in culture e paesi diversi, dal Giappone al Cile alla Danimarca. Alla Sardegna.
Se la preparazione e la cottura di pranzi e cene succulente privilegiano il rapporto con il femminile, oggi anche parecchi scrittori usano la metafora afrodisiaca connessa al cibo per impreziosire i propri protagonisti maschili, per dare loro un tocco in più di curiosità
narrativa. È il caso famosissimo del commissario Pepe Carvalho, protagonista di tanti romanzi di Montalban e, per ritornare in casa nostra, del quasi clone Montalbano di Camilleri. E perché non ricordare i gusti forti, da trattoria casalinga, del Maigret di Simenon?
La donna che scrive ha con la cucina, da sempre, un rapporto di doppia valenza. In quanto donna si scontra con le domestiche
faccende, quindi impara presto a cucinare per sé e per gli altri (prima per gli altri, poi per sé…). Ma in quanto donna che scrive deve conquistare un suo spazio anche all’interno del codice comportamentale che femminile non è, bensì squisitamente, all’origine, maschile. Il settore della comunicazione, e soprattutto della comunicazione pubblica, è stato appannaggio dell’uomo per tanto, troppo tempo. Così molte scrittrici hanno vissuto il loro lavoro intellettuale con vistosi sensi di colpa, come tempo rubato
alle attività riconosciute femminili. Alla cucina, appunto.
Tutti ricordiamo le sorelle Brontë, sottomesse a un padre severo, ministro di fede protestante, costrette a nascondere sotto le bucce di patate, appena pelate, le pagine scritte dei loro capolavori di narrativa. E Alba De Cespedes, nel 1952, dà alle stampe un libro, in questo campo, divenuto esemplare, Quaderno proibito, in cui la protagonista Valeria scrive di notte, in cucina, dopo aver riassettato i piatti e messo a letto marito e figli, nascondendo il quaderno proibito
perché convinta di aver trascurato la famiglia.
A differenza di Valeria che, alla fine del romanzo, brucia il quaderno e ritorna a fare la madre e la nonna a tempo pieno, Grazia Deledda riuscì a coniugare, nella sua vita di donna, la cura della famiglia con la sua grande, vera vocazione alla scrittura.
La Deledda resta l’unico premio Nobel delle lettere italiane conferito a una donna, nel 1927 per il 1926, e a una donna romanziera visto che, prima di lei, ci fu il vate poeta Carducci, nel 1906, e dopo Pirandello drammaturgo nel 1934, i poeti Quasimodo (1954) e Montale (1972) e ancora Dario Fo autore di teatro (1997). Quindi l’espressione letteraria più aperta al pubblico, mediana
tra i toni aulici della poesia e del teatro, è stata rappresentata da una creatività femminile. In fondo il racconto, così come la cucina, compete quasi biologicamente alle donne.
Dei dieci ragazzi che ogni giorno scelgono il tema delle novelle del Decameron, ben sette sono donne. Donna è Sherazade che grazie all’affascinante affabulazione salva se stessa e cuce
insieme la storia delle Mille e una notte. La donna culla il suo bambino con la nenia e lo incanta con le parole.
L’oralità del racconto è passata del tutto naturalmente nella competenza narrativa della scrittura della donna che, alle sue origini, non a caso è stata all’ombra della famiglia, protetta quasi dai parenti e amici, in una dimensione privata. Ecco perché la scrittura femminile è grande soprattutto negli epistolari e nei diari. Grazia Deledda ha lasciato un epistolario veramente impressionante. Ha scritto a tutti i più importanti letterati, giornalisti, editori, persino uomini politici e nobildonne della sua epoca. Era un modo per uscire dall’isolamento in cui la sua Nuoro, alla fine del sec. XIX, voleva forse costringerla.
Nata nel capoluogo della Barbagia, al centro della Sardegna, nel 1871 ad appena diciassette anni pubblica il suo primo racconto, Sangue sardo, storia forte di amore e morte, di passione e banditi, come tante altre della sua maturità di scrittrice.
Fin da ragazzina Grazia Deledda aveva una certezza, quella di vivere un destino segnato, come la maggioranza dei suoi personaggi. Il destino di Grazia, Grazietta per i familiari, era quello di scrivere, di descrivere la sua Sardegna, il suo popolo così poco conosciuto e troppo spesso giudicato dall’esterno, senza prova d’appello. In fondo anche il giudizio per cui prese il Premio Nobel, piuttosto che sottolineare caratteristiche stilistiche della sua opera, ne rimarca l’importante capacità divulgativa intorno agli usi e costumi di una regione certamente affascinante, ma in misura proporzionale alla sua impermeabilità, allo sguardo esterno. Insomma, narrare la Sardegna era, per Grazietta, uno scopo di vita cui si preparò giudiziosamente fin da ragazzina. Sono note molte lettere in cui esprime con chiarezza questo intento. Per esempio: Avrò tra poco vent’anni, a trenta voglio avere raggiunto il mio sogno radioso quale è quello di creare da me sola una letteratura completamente ed esclusivamente sarda
(da lettera a Maggiorino Ferraris, ora in Neria De Giovanni,