“C’era una volta tanto tempo fa…”, ma in questo racconto c’ero già anch’io. Vecchie storie di vita contadina in Val Padana. Racconto autobiografico
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Maria Guizzardi Serra è nata a Castelfranco Emilia, (MO), e vive a Crevalcore, (BO). Oltre a questo libro ha pubblicato Quattro Stagioni (MEF, Firenze, 2005) e alcuni libri di racconti per bambini.
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“C’era una volta tanto tempo fa…”, ma in questo racconto c’ero già anch’io. Vecchie storie di vita contadina in Val Padana. Racconto autobiografico - Maria Guizzardi Serra
dote
Un giorno
C’era una volta, tanto, tanto tempo fa...
…una regina!
, direte voi... Così cominciavano tante favole che ho letto da bambina. Anche questa storia comincia circa così:
C'era una volta tanto, tanto tempo fa...
, ma in questo racconto c'ero già anch'io.
Ho tanti anni, è vero, ma non ne ho mille. Eppure, dalla fine dell'ultima guerra il mondo ha subito tante e tali trasformazioni, che mi pare di essere piombata qui da un al-tro pianeta. Fino a che sono nata io, il modo di vivere, la mentalità, erano rimaste circa le stesse per secoli, anche se c'erano già state importanti invenzioni, grosse rivoluzioni... ma adesso è tutto così cambiato che, quando ripenso a certe situazioni che vivevo da bambina, mi pare di inventarmele.
Intanto, Crevalcore, aveva un paesaggio molto diverso da quello che ha adesso. Un'area molto vasta, verso sud, era ancora invasa dalle acque basse, cioè era una valle. Mio padre, che è nato alla Crocetta, raccontava che da piccolo andava in barca a pescare le anguille, le carpe, i pesci gatto e che, in mezzo ai canneti, poteva pigliarli anche con le mani.
A cambiare il profilo paesaggistico della zona fu lo scavo della bonifica, che inca-nalò le acque stagne, sì che molti ettari di terra poterono essere coltivati, e la zona assun-se l'aspetto attuale.
Quell'avvenimento, molto importante per Crevalcore, avvenne nel 1929. Io ero molto piccola, ma vagamente lo ricordo, perché nella mia camera da letto lo vidi come fosse un film. L'area paludosa cominciava poco lontano da dove abitavo, ma io non ricor-do di averla mai vista. Allora non c'erano scavatrici, trivelle, perforatrici per incidere e to-gliere la terra, si faceva tutto a mano, impegnando centinaia di operai. La strada che por-tava al luogo dei lavori passava davanti a casa mia. La mattina presto mi svegliava il ru-more delle ruote di ferro delle carriole, che sfregavano sul fondo sassoso e polveroso del manto stradale. Gli "scariolanti" le trainavano con le biciclette, fissando le stanghe alla sella del velocipede. Sulla parete della mia camera, di fronte alla finestra, si formavano le immagini degli operai che procedevano in interminabili file indiane. Io m’incantavo a vede-re quelle nere effigi che fluivano sul muro bianco. Non capivo come si formassero, perché fossero capovolte e perché scorressero in direzione opposta a quella reale. Forse, proprio lo stupore per un fenomeno che non riuscivo a spiegarmi ha fissato l'avvenimento nella mia mente. A quei tempi, i più poveri non possedevano nemmeno la bicicletta. Questi di-sgraziati si recavano al lavoro a piedi, naturalmente in coda a quelli con le biciclette, trai-nando a mano il pesante arnese per due chilometri. Chissà quanta energia possedevano ancora, quando raggiungevano la meta! Il mio film era completo di sonoro, infatti al mio orecchio arrivava anche l'eco di un fiacco canticchiare o di un sommesso parlottare dei viandanti, ancora assonnati.
La terra scavata veniva tolta con barrocci, trainati dai cavalli. Anche loro erano personaggi del mio film. Sulla parete bianca sfilavano le lunghe file di carriaggi, natural-mente sempre capovolti. I cavalli che li trainavano procedevano con passo uguale; l'anda-tura era sciolta la mattina, quando era fresco; quando poi il sole era alto e lanciava i suoi strali brucianti, gli animali avanzavano lenti, con la testa piegata fin quasi a toccare la strada. Il barrocciaio, seduto sul carro, sonnecchiava: il capo, ciondolante sul petto, subi-va improvvise oscillazioni causa del fondo stradale accidentato.
Crevalcore, situato nella più grande pianura italiana e dotato di un terreno fertile; a quei tempi viveva di un’economia quasi esclusivamente agricola. Tutto il territorio era suddiviso in poderi di superfici variabili e ogni podere aveva una conduzione famigliare. Tutte le case coloniche avevano la stalla, il porcile, il pollaio, il forno, il pozzo; molti ave-vano i telai per tessere; inoltre, tutti i componenti dell'azienda compivano anche lavori ar-tigianali: le donne filavano, tessevano, confezionavano rudimentali capi di abbigliamento; gli uomini eseguivano opere di falegnameria, di muratura ecc.
La mia famiglia era composta di tre membri; due attivi: mio padre e mia madre, più un parassita: io. Naturalmente questo era il nucleo lavorativo più piccolo possibile e la ter-ra che poteva lavorare era veramente poca.
Le tante invenzioni fatte hanno alleviato le fatiche dei campi e ridotto il numero de-gli operatori necessari, ma con loro si sono persi tanti avvenimenti e tante emozioni che ci arricchivano e di cui ora non si ha più nemmeno la memoria.
Quanti lieti eventi nei miei ricordi! Vitellini, maialini, pulcini... Con tanta ansia li at-tendevano, non solo perché erano la promessa di un guadagno futuro.
I pulcini
Adesso i pulcini li fanno con le macchine, quando ero piccola io occorreva la chioccia. In primavera io spiavo le galline: quando ne vedevo una che si accovacciava ed emetteva il tipico chiocciare, tutta contenta, informavo mia madre. La mamma, con più senso pratico, non accettava la prima aspirante che si presentava. L'eletta, come le miss, doveva avere determinati attributi: doveva essere robusta e contemporaneamente docile. La gallina veniva soppesata: la mamma soffiava fra le penne per vedere come era la pel-le, fattore importante per indicare buona salute, e le faceva la visita ginecologica, infilan-dole l'indice nell'ano per verificare che non facesse le uova. Allevare dei figli non è