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La stella di Seshat
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La stella di Seshat

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La signorina Fitzroy è un’archeologa. Un’archeologa un po’ particolare. La chiamano quando deve districare particolari enigmi. Come il recupero dell’ultima goccia di Amrita, l’acqua della vita eterna, oppure la leggendaria Stella della tiara della dea Seshat, grazie alla quale svelare i segreti della Conoscenza. Appartiene alla casta dei Longevi. Coloro che desiderano l’immortalità non hanno la minima idea di quello che significhi. È una condanna venduta, da chi non l’ha mai subita, come il dolce più zuccherino. Appena la si assaggia, ecco che diventa fiele. Quel sapore rimane in eterno e diventa sempre più amaro, fino a corrompere l’anima.
LanguageItaliano
PublisherSem edizioni
Release dateApr 17, 2014
ISBN9788897093367
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    La stella di Seshat - Giorgia Penzo

    Epilogo

    La stella di Seshat

    Prologo

    Lahore, Punjab

    Agosto 1900

    Ultimo giorno di spedizione

    Le zanzare, il caldo asfissiante, il fetore, il sole che inaridisce gli occhi e la mente. Le vacche sacre, magre e circondate da un’aura di mosche, calpestano in processione la terra battuta delle strade. La polvere si alza e la gente s’inginocchia. Tossisce e prega, con una nenia ipnotica, fino al calare della notte.

    Non mi mancherà nulla di questo posto.

    Il mio baule da viaggio appena chiuso è stracolmo di stracci che una volta erano abiti. Al tramonto i facchini con il turbante lo caricheranno sulla Catalina. Posso già sentire il canto delle sue vele al vento, e lo scricchiolio delle tavole del ponte sotto i miei stivali. Mi estraneo solo per qualche istante. Il vociare dei bambini nel vicolo e lo squittire dei topi con i quali giocano mi ricordano che il sole è ancora alto.

    Scuoto la testa, riapro i lucchetti del baule e spalanco il coperchio con un tonfo. Il rumore spaventa la scimmietta bianca appollaiata sul trespolo, e la fa gridare come se le avessi infilato un ago nelle carni. «Taci, dannato animale» impreco.

    Svuoto il bagaglio senza alcuna cura. «Viaggerò leggera» sussurro. «Il capitano avrà posto per un’altra cassa di rhum e forse non mi taccerà di portare sfortuna. Di nuovo».

    Metto i vestiti meno logori da una parte, accatastandoli in un mucchio. Corsetti, gonne, cappellini, guanti, camicette di seta, foulard. Chiamo la domestica e le ordino di donare tutto a una casa della misericordia.

    «E il resto, madame?»

    Il sahari di Mahima è di un arancione brillante bordato d’oro. È il mio dono d’addio. Non vuole seguirmi in Inghilterra nonostante la mia insistenza, e io non riesco a comprendere l’ostinazione che mette in quei ripetuti e gentili: Non posso. La sua risolutezza a rimanere in questo lazzaretto ha prosciugato la mia determinazione ad averla al mio fianco.

    Mi tocco d’istinto la fronte, esattamente dove lei porta il terzo occhio. Per quanto io sia più istruita, e per quanto conosca realtà che lei ignorerà per tutta la vita, capisco che Mahima possiede qualcosa che io non avrò mai. Se partisse, sa che la perderebbe.

    Getto lo sguardo sulla pila più alta rimasta in disparte e mi asciugo il sudore con un fazzoletto ingiallito. «Bruciali».

    La ragazza china il capo, esce dalla stanza e obbedisce. Dal giardino di sassi cremisi s’innalza una colonna di fumo scuro. Sbircio dalla finestra e un sorriso fiacco mi taglia il volto. «Un anno intero in fiamme».

    Gli altri sono partiti ieri per Londra. Hanno insistito a

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