Balhara’
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Balhara’ - Patrizia Argento
Balhara’
romanzo
Patrizia Argento
Published by Meligrana Editore
Copyright Meligrana Editore, 2015
Copyright Patrizia Argento, 2015
Tutti i diritti riservati
ISBN: 9788868151263
Meligrana Editore
Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV)
Tel. (+ 39) 0963 600007 – (+ 39) 338 6157041
www.meligranaeditore.com
info@meligranaeditore.com
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INDICE
Frontespizio
Colophon
Licenza d’uso
Patrizia Argento
Copertina
Dedica
Balhara’
Nota dell’autore
Note
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Licenza d’uso
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Grazie per il rispetto al duro lavoro di quest’autore.
Patrizia Argento
Nata a Palermo il 17 aprile del 59, ha sempre vissuto nel capoluogo siciliano. Lavora in un’associazione che si occupa di assistenza e tutela del movimento cooperativo e da parecchi anni scrive racconti e novelle rosa. Ha iniziato a pubblicare nel 2000 con la Casa editrice Mimosa e Quadratum. Nel maggio del 2008 ha pubblicato un romanzo rosa – storico, sotto pseudonimo, con la Curcio, a luglio il suo primo romanzo Vicolo San Michele Arcangelo per il Filo.
Contattala:
patrarg@tin.it
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www.patriziaargento.it
https://www.facebook.com/patrizia.argento.5
A Cesare e Amadou
che mi hanno insegnato ad amare in modo diverso.
Questa è una storia di fantasia. Ogni riferimento a fatti cose o persone è puramente casuale
Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi;
siate dunque prudenti come i serpenti e
semplici come le colombe.
(Dal Vangelo secondo Matteo 10,16 – 23)
1
Il silenzio della notte fu improvvisamente lacerato dall’urlo delle sirene, l’oscurità inghiottita dalla luce dei lampeggianti.
La borgata si svegliò di soprassalto, avvertendo un imminente pericolo. Nel giro di pochi attimi la gente si precipitò in strada, ancora insonnolita e in pigiama.
Polizia e vigili del fuoco mettevano transenne, suonavano i campanelli, aprivano i portoni.
Gli abitanti della borgata si guardavano intorno senza capire cosa stesse succedendo. Un terremoto non poteva essere, la terra non aveva tremato, ma di sicuro qualcosa di catastrofico si stava verificando.
Il fuoco, il fuoco
gridò una voce tra la folla. La gente scappò oltre le transenne e lì si fermò, credendosi al sicuro e non volendo allontanarsi troppo dalle proprie case.
I pompieri avevano fatto sgombrare tutti gli edifici e, con difficoltà, si erano introdotti tra i vicoli per spegnere un incendio divampato tra le bancarelle del Ballarò.
Nel grande caseggiato in fondo al mercato non tutti erano usciti. Nella stanza in alto, che dava sui tetti, qualcuno dormiva ignaro di quello che stava succedendo. Un bruciore al naso, provocato da un odore acre, lo aveva svegliato all’improvviso. Si alzò e, senza accendere la luce, scese silenziosamente le scale di legno che lo conducevano al piano di sotto. Chiamò a bassa voce gli altri abitanti della casa, ma non rispose nessuno. Ritornò su, acchiappò la giacca e scese di nuovo al piano di sotto. Fece il giro delle stanze, erano vuote, nessuno dormiva nel proprio letto. Che era successo, lo avevano lasciato lì da solo, ma perché?
Il respiro si fece affannoso, la paura si insinuava lentamente, infida e strisciante come un serpente. Si prese di coraggio e uscì.
Anche per strada non c’era nessuno, si guardò intorno sempre più spaventato. Poi in lontananza vide una luce intermittente illuminare un muro.
"La police", pensò spaventato. Fece una corsa e andò a nascondersi dietro un bancone. Aspettò qualche secondo, poi si alzò e si guardò di nuovo intorno.
Non vide nessuno, fece uno scatto e andò a nascondersi dietro un’altra bancarella.
Aspettò di nuovo e fece un altro scatto.
"Je t’en prie, mon Dieu, aide moi", mormorava spaventato. Scatto dopo scatto e bancarella dopo bancarella, percorse tutto il mercato, si fermò un attimo a riprendere fiato e a pensare in quale direzione andare. Più si avvicinava, più la luce dei lampeggianti diventava visibile. A un tratto udì delle voci e un gran scalpitio di passi. Erano i pompieri che andavano e venivano, tirando un tubo lungo lungo.
Si acquattò sotto un bancone per non farsi vedere. Il lampeggiante illuminava a intermittenza un muro diroccato. Sopra c’era una scritta colorata e a ogni giro della luce riusciva a leggere una lettera. Si concentrò sulla frase, per non sentire la paura che lo attanagliava. F o r z a P a l e r m o
, sillabò, poi formulò la frase tutta d’un fiato forza Palermo
. Era facile, pensò. Ma dal bancone veniva un forte odore di pesce.
"Puah! che odore dégueulasse", pensò disgustato. Non poteva resistere un istante di più. Strisciò lentamente fuori di lì e riprese la sua corsa.
Come un’ombra della notte nessuno fece caso a lui, né i pompieri, intenti a spegnere l’incendio, né la polizia che cercava di tranquillizzare la folla spaventata. La giacca chiusa, il berretto calcato sulla testa, quasi carponi e strisciando contro i muri arrivò in una via. Lì non c’era nessuno e la strada terminava con un grande muro. Si infilò nel vicolo, lo percorse velocemente fino a quando arrivò ansante davanti al portone di una palazzina. Lo spinse piano piano, per non fare rumore. Era aperto. La fortuna lo assisteva.
Sgattaiolò dentro, richiuse il portone lentamente, per non farlo sbattere, e si mise alla ricerca di un posto dove nascondersi. Imboccò le scale, ma dopo i primi gradini si accorse che dietro l’ascensore c’era una piccola nicchia. Lì nessuno avrebbe potuto scoprirlo, almeno fino all’indomani mattina. Andò ad accucciarsi per terra, un braccio sotto la testa e le gambe rannicchiate. Chiuse gli occhi e riprese fiato. "Mamma, j’ai peur, – pensò disperato, – ma non piango. Faccio il bravo, j’ai promis. Dove sei mamma, je veux rentrer à la maison", urlava silenziosamente nella sua testa.
Sentì un groppo serrargli la gola e, sebbene lottasse con tutto sé stesso, cominciò a piangere sommessamente. Aveva paura che qualcuno lo scoprisse, perché sarebbe stato perduto.
***
Palermo Centrale
, annunciò l’altoparlante con voce metallica.
In un attimo la metro si fermò con un grande stridio di freni. Pina aspettò impaziente che le porte si aprissero, prese la valigia e scese quasi al volo.
Dodici ore di viaggio, roba da non crederci!
sbuffò tra sé, spazientita.
Uscì dalla stazione e andò alla fermata degli autobus. Aspettò sempre più nervosa una decina di minuti, poi si incamminò verso casa, tirandosi dietro la valigia.
Di autobus neanche l’ombra. Non ce ne erano nei giorni normali, figuriamoci nei giorni di festa.
Attraversò la strada e si avviò verso la Via Roma
C’era poco da fare, doveva essere il suo destino o il suo karma per essere più fini, avere qualcosa da tirarsi dietro. Se non era la valigia era il trasportino della spesa, per non parlare del fatto che tutta la vita aveva tirato la carretta
.
Svoltò per Via Torino, la percorse tutta e sbucò in via Maqueda. L’attraversò e si fermò un attimo per riprendere fiato sotto l’Arco di Cutò. A dire il vero non era un vero e proprio arco, ma il portale centrale del Palazzo Filangeri di Cutò, che introduceva in Via Chiappara al Carmine, una strada pubblica. L’attraversò e si fermò di nuovo.
"C’è picca da fare, Berlino sarà bella, ma Palermo è sempre una meraviglia" pensò rincuorata. Una certa differenza con Berlino, a malincuore, doveva constatare che c’era.
Qui, più che profumo di casa, si sentiva puzza di spazzatura mista a odore di frutta e verdura andate a male. Le cassette vuote delle mercanzie erano abbandonate agli angoli delle strade, insieme a immondizia di vario genere. E dire che il centro storico di Palermo non solo è uno dei più vasti d’Europa, con i suoi duecentoquaranta ettari di estensione, ma anche uno dei più ricchi e articolati. Purtroppo, però anche uno dei più degradati
, pensò Pina sconsolata. In Germania, invece, era tutto pulito e ordinato, magari troppo per i suoi gusti. Comunque fosse, già respirava l’atmosfera di casa e del suo mercato, il Ballarò, e si sentiva rincuorata.
Erano quasi due mesi che mancava e non vedeva l’ora di ritornare a casa.
Percorse tutta la Via Chiappara, girò e continuò fino a Piazza del Carmine.
***
Per una volta non voleva entrare nel suo vicolo da Casa Professa, non volendo passare davanti a Palazzo Torreforte. Solo a evocare il nome sentì una fitta al cuore.
Chissà dov’era Stefano, che cosa stava facendo. Da quando l’estate precedente si erano conosciuti, la vita di Pina era completamente cambiata.
A cinquanta anni aveva riscoperto l’amore e un po’ se ne vergognava. Scosse la testa per scacciare i pensieri e allungò il passo; la strada era deserta, il mercato, svuotato di tutte le sue mercanzie e sotto la luce fioca dei lampioni, sembrava avere perso tutto il fascino che aveva durante la giornata.
Finalmente giunse in Vicolo San Michele Arcangelo e lo percorse tutto, la sua palazzina quasi fatiscente si trovava proprio in fondo al vicolo. Aprì il portone e si diresse verso l’ascensore. Pigiò il pulsante, ma non successe nulla. Figuriamoci se funzionava
, mormorò sempre più nervosa. Si avviò verso le scale e iniziò a salire, facendo sobbalzare il trolley.
Quando arrivò al terzo piano, infilò la chiave nella toppa della sua porta e tirò un sospiro di sollievo. Il viaggio di ritorno le era sembrato interminabile. Appoggiò la valigia alla porta dello sgabuzzino, aprì la borsa, tirò fuori una foto e la posò sulla consolle della sala. A casa siamo, Salvatore
, disse rivolta alla foto che ritraeva il marito, un giovane d’altri tempi.
Girò per casa, aprì le finestre per fare arieggiare un po’, si diresse in sala, tirò fuori dalla borsa gli occhiali e la posta che aveva preso dalla cassetta, rientrando.
Di certo non erano arrivate lettere importanti, tutt’al più qualche bolletta da pagare. Chi mai le doveva scrivere? Comunque le piaceva lo stesso aprire le buste, le sembrava come un regalo, anche se si trattava solo di pubblicità. Aveva l’impressione che qualcuno, chiunque esso fosse, si ricordava che esisteva anche Pina Barone, maestra di scuole elementari ormai in pensione.
Bolletta dopo bolletta e pubblicità dopo pubblicità la Signora Pina, con ordine, apriva le buste e metteva da parte tutto quello che doveva essere gettato. Ma tra il mazzo di posta questa volta c’era una cosa insolita: una cartolina.
***
Si interrogò un attimo su chi aveva potuto spedirla, ma appena la girò ebbe un tuffo al cuore. "Je t’aime S.T", c’era scritto. Riconobbe subito la calligrafia, rigirò la cartolina, ritraeva la Tour Effeil. Stefano era a Parigi.
Appena poche ore prima anche lei si trovava lì, all’aeroporto Charles De Gaulle, in attesa del volo che la riportasse in Italia. Sospirò e strinse la cartolina al cuore. Anch’io ti amo
pensò, ma era tutto troppo complicato. Mise la cartolina nel mazzo di carte che non andavano buttate e proseguì il suo lavoro. Appena ebbe finito, accartocciò la maggior parte della sua corrispondenza e la infilò nella spazzatura. Solo allora si accorse che il vicolo era silenzioso e la sua casa sembrava più vuota che mai.
Certo Salvatore, saranno ancora tutti fuori, a festeggiare la pasquetta. La Signora Carmela e la Signora Rosa in campagna dai figli e il Cavaliere Boccafusca di sicuro da suo figlio Pietro. Che vuoi dopo tanto tempo in compagnia, il silenzio sembra sempre più silenzioso
, pensò rivolgendosi mentalmente a suo marito.
Non ebbe nemmeno il tempo di formulare il pensiero che lo squillo del telefono la fece sobbalzare. E chi è?
si chiese correndo a rispondere. I suoi figli no, li aveva chiamati appena scesa dall’aereo, visto che ormai possedeva anche il cellulare. Glielo aveva regalato Stefano, un giorno che non era riuscito a trovarla.
Si fermò davanti all’apparecchio e tirò un sospiro. Il solo pensiero che poteva essere lui le faceva battere il cuore.
- Pronto? – disse con voce tremante.
- Signora Pina! Meno male che è in casa. È stato il Signore che la fece tornare. – rispose una voce di donna dall’altro capo del telefono.
- Con chi parlo?
- Sono io, Angela Termini, la signora del piano di sotto!
- Ma che ha, si sente male? – chiese la Signora Pina notando un certo affanno nella voce.
- Signora, mi pare che mi vennero le doglie e mio marito è fuori.
- Madonna Benedetta! Non si preoccupi, scendo subito. Apra la porta.
Pina si precipitò in sala, afferrò le chiavi di casa e corse giù per le scale fino all’appartamento del secondo piano.
- Permesso, Angela, dove sei? – chiese entrando.
- Venga, venga, sono qui.
Pina seguì la voce ed entrò nella stanza da letto della donna. Era sdraiata su un fianco e respirava affannosamente.
- Che ti senti, figlia mia, che hai?
- Ho le doglie, sento la pancia che mi diventa dura dura.
- Ma il tempo lo hai fatto?
- Sì, proprio oggi sono nove mesi, ma mi avevano detto che siccome sono primipara, di sicuro portavo ritardo.
- Te lo disse il medico?
- Sì, l’ostetrico.
- Mah, mia cara ‘ste cose solo la natura le può sapere. Tuo marito dov’è?
- Al villino, con i suoi.
- E ti lasciò a casa da sola? – chiese la Signora Pina stupita.
- Sì, ma sono stata io a dirgli di andare. – disse Angela per giustificare il marito. – Ci sono pure i miei suoceri. Arrivarono da Ragusa per passare la Pasqua con noi e restare per il parto, ma io oggi non me la sono sentita di muovermi. Così loro sono andati di mattina con mio cognato e Cosimo andò a prenderli verso le sei. Dovrebbe essere qui a momenti, ma io non ce la faccio più a resistere.
- Su, non ti scoraggiare, adesso ci sono io. Tuo marito lo hai chiamato?
- Sì, proprio prima di chiamare lei. Poi ho sentito dei rumori provenire dalle scale e ho pensato che fosse tornata. Tutte le mie preghiere furono a farla tornare.
- Certo figlia mia, però adesso mettiti a pancia all’aria e vediamo ogni quanto hai le doglie.
La ragazza ubbidì e lentamente si girò. Ogni