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Tailandia. la luna della felicità.
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Ebook247 pages1 hour

Tailandia. la luna della felicità.

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About this ebook

Tre amici in vacanza in Tailandia, a Pattaya.

Il denaro come valore … …. la lucida follia della vita.

Tre storie d’amore e di vita per lettori europei, inglesi, tedeschi, italiani.
LanguageItaliano
Release dateJun 10, 2013
ISBN9788868550486
Tailandia. la luna della felicità.

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    Tailandia. la luna della felicità. - Andrea Stefano Damin

    plus

    Un incontro a pranzo

    Mi parlava in italiano. Mi diceva che aveva vissuto quindici anni a Riva del Garda ed era andato a puttane con le nere di tutte le tangenziali, di Varese, di Como, di Bergamo e di Brescia. Soprattutto con quelle di Brescia. Per 30 euro. Era stato con un sacco di matte puttane, tutte nere, pelle liscia, naturalmente nera, senza età, come tutte le donne, ma alla fine, si era innamorato di una cinese.

    Di una cinese da 50 euro a notte.

    <>, mi raccontava: <>.

    Eravamo davanti alla Beach Road.

    Guardavamo i pick up attraversare la Beach Road.

    Più avanti, avevamo il mare e una schifosissima striscia di spiaggia, Pattaya beach.

    <>, mi diceva.

    Vestiva giovanile, una maglietta bianca con due righe orizzontali, una riga rossa e una riga blu. Portava un cappellino verde della Nike.

    Viveva ad Aarhus, nel nord, in Danimarca, e aveva una figlia. Aveva divorziato e aveva aperto un negozio di moto, di import – export con l’Italia.

    <>, mi raccontava.

    Gli avevo sorriso.

    Il business era business.

    L’economia faceva muovere il mondo e il Progresso continuava ad essere misurato in PIL.

    Davanti a me avevo uno sfilatino di carne.

    Mi raccontava che da giovane aveva fatto turismo culturale. Era stato a Roma, a Parigi, a il Cairo, ad Atene e a New York.

    Perfino a New York.

    Ora voleva spassarsela, fare turismo vero.

    Era arrivato ieri ed era andato a farsi fare un massaggio tradizionale tailandese.

    La ragazza, alla fine, l’aveva portata in camera.

    Lei si era portata lo spazzolino e il dentifricio.

    Nient’altro.

    <>, mi assicurava.

    Gli sorridevo.

    Mangiavo carne, peperoni e patatine fritte.

    Bevevo una big Heineken.

    Aveva avuto un’amante franco – marocchina, mi diceva, che si era rivelata una donna inaffidabile. Aveva avuto anche una spagnola che gli aveva fottuto tutto il denaro che possedeva.

    Tutto il denaro, riducendolo all’osso, alla canna del gas.

    Aveva avuto tutto, o quasi, e perso anche tutto, dalla vita.

    Ora, a cinquant’anni superati, cercava la Felicità, il Paradiso in Terra.

    Continuavo a bere la mia big Heineken.

    Guardavo i pick up attraversare la beach road, attraversarla da destra a sinistra.

    Avevo tutto lo smog dell’Asia, di Bangkok e di Pattaya in gola.

    Era uno schifo, ma era uno schifo caratteristico, particolare, uno schifo unico. Lo si poteva perfino amare, pagare, questo schifo.

    Lui mi guardava e mi sorrideva.

    <>, mi diceva.

    Ne aveva portate a letto due, contemporaneamente, a Natale.

    Si era vestito di rosso, di un rosso albero di Natale danese, con i boxer e i calzini leggeri di cotone rossi.

    <>, mi raccontava.

    Era rimasto 22 ore su 24 nel letto.

    <>, mi diceva.

    Non parlavano ancora inglese e per superare i silenzi avevano i sorrisi, i loro sguardi. Avevano i loro corpi.

    <>, ripeteva.

    Aveva preso uno stuzzicadenti.

    Mi parlava delle ragazze Tai esportate come tappeti o indumenti cinesi, nel suo paese, nel freddo del mondo danese, fra i turchi, gli islamici e i neri.

    <>.

    L’amore non si vede.

    In Europa, mi diceva, le ragazzine si rovinavano col gioco. Per pagare finiscono col prostituirsi. Il marito le lascia e Cenerentola Orientale dimentica subito la sua favola.

    Aveva davanti un American Breakfast.

    Aveva le uova, il prosciutto, i würstel, un toast, un succo d’arancia e un caffè.

    Iniziava a mangiare.

    Lo guardavo. Era una persona serena, un uomo che aveva capito che un giorno sarebbe morto.

    Tanto valeva, da allora, - doveva aver pensato -, godersi la vita che restava.

    Tanto valeva ammirare i corpi e i sorrisi che gli capitavano, guardarsi il mondo fra edonismo, perdizione e viaggi.

    Era qui, e da Occidentale, comprava ciò che vedeva, comprava la qualità della vita, comprava l’extra consumo, comprava l’inutile, comprava il Paradiso possibile in Terra, la Felicità.

    Avrebbe comprato anche la clonazione e la vita eterna.

    Aveva finito le uova.

    Osservavo la Beach road. Guardavo i pick up che circolavano sulla Beach road e salivano verso la Walking Street, International meeting Street.

    Mi diceva che Pattaya era il più gran bordello a cielo aperto del mondo.

    Era una bomba al cervello umano, ai neutrini, una bomba H, I, L, M,N,O….

    Era il Paradiso con dodicimila prostitute, era il sogno e l’utopia dell’uomo, la prigione dell’uomo col cazzo.

    Era il mondo per l’uomo col cazzo.

    Era il Paradiso da vivere, da toccare, da sensibilizzare, prima del grido, ultimo, dell’ultimo grido alla Edward Mùnch.

    Prima dell’ultimo grido rubato.

    Prima della perdita.

    Non aveva speranze. La vita era temporanea e mutevole.

    Aveva terminato il suo American Breakfast, il suo American Breakfast con le uova, il prosciutto, i würstel, un toast, un succo d’arancia e un caffè.

    La cameriera era stata veloce e aveva subito ritirato i piatti. Gli aveva lasciato il conto in un contenitore di plastica di colore giallo. Gli aveva sorriso.

    Per poco denaro, si sarebbe anche venduta.

    Il Paradiso si diluiva fino all’Inferno, fra piacere e dolore, dall’alba al tramonto della nuova alba, in un continuum, fra shock e strani ammiccamenti.

    Mi diceva che se la spassava sei mesi in Tailandia, in Cambogia e poi in Vietnam.

    Ragazze comunque, ovunque, puttane in tutta l’Indocina, mi raccontava.

    Per le nevrosi, il grigio del mondo europeo e il suo negozio di moto, si concedeva sei mesi.

    Era il ritorno di Ulisse.

    Gli piaceva tornare, tornare dopo sei mesi e riassaporare l’aria, il cielo, il gusto grigio, la vecchiezza e le strade monotone di casa sua.

    Si era alzato.

    Mi aveva salutato.

    Mi aveva stretto la mano.

    Non conoscevo il suo nome.

    Era un bianco, un europeo.

    Non importava chi fosse.

    <>, mi aveva detto in italiano.

    Max, my friend

    Max ora stava con Bee Bee.

    L’avevamo conosciuta insieme, a Bangkok, Bee Bee, la sera del nostro arrivo.

    Bee Bee era una ragazzina dolcissima.

    Si cercava stranieri, occidentali, maschi, giovani, prestanti, senza occhiali, nel primo Pub sulla Khao San Road.

    Aveva un fisico slanciato e uno sguardo da lady boy.

    Max le aveva offerto una birra.

    Poi un’altra birra.

    Poi un’altra ancora.

    L’aveva portata a letto, amata, violentata, legata, cializzata, scopata, sodomizzata, e alla fine, proprio alla fine, anche pagata.

    Nel totale assurdo dell’esperienza umana, l’aveva portata fin qui, in missione, per la Champion League, a Pattaya.

    Bee Bee era una ragazzina in aggiunta alle dodicimila presenti, una nuova stella, una stella in più nel firmamento del cielo nero e della Luna col sorriso.

    Max era immerso, fino al petto, nel mare di Pattaya.

    Mi aveva guardato e salutato.

    Bee Bee era distesa su uno sdraio, all’ombra. Era interamente coperta da un asciugamano blu.

    Teneva gli occhi chiusi.

    Era stanca.

    Era disfatta dal sesso, dalla notte e dal mattino, dalla vita del sesso.

    Le sue ossa e la sua mente le chiedevano riposo. Riposo assoluto.

    Max l’aveva legata e bendata.

    Le aveva infilato, come facevano quasi sempre gli inglesi ubriachi da dieci litri di birra, il collo di una bottiglia su e giù per la Luna.

    L’aveva quasi uccisa, aperta, forse rovinata.

    Lei aveva smesso di respirare.

    Poi aveva ripreso.

    Ora, dormiva.

    Dormiva per farlo e rifarlo, rifarlo come Max avrebbe voluto, terra, desiderio e cielo.

    Questa era la vita.

    <>, aveva urlato.

    <>, aveva aggiunto.

    Bee Bee si era svegliata, ancora viva, aveva aperto gli occhi. Aveva ordinato una Coca Cola.

    Mi aveva guardato, sorriso.

    Parlava in inglese e mi diceva che il suo sogno era quello di sposarsi con uno straniero, con uno steward o un pilota d’aereo. Sognava di diventare una Principessa.

    Mi chiedeva quanto guadagnava un pilota d’aereo e quanto guadagnava Max.

    Ne confrontava gli stipendi.

    Voleva star bene e far star bene tutta la sua famiglia.

    Bee Bee era una ragazza dalle ottime intenzioni.

    I desideri la portavano verso l’Inferno, l’incubo, la morte, ma il Paradiso le era vicino, prossimo, amico, e la illuminava della sua luce splendente fatta di denaro e di serenità.

    Mi leggeva negli occhi, dolcemente, nello sguardo.

    Mi diceva: <>.

    <>.

    <>.

    Max non l’avrebbe mai sposata.

    Se la consumava come una birra, come una Heineken.

    L’aveva guardata. Le aveva detto: <>. Ne aveva di più.

    Le aveva sorriso.

    Lei non aveva capito e gli aveva sorriso.

    L’uomo era l’uomo col denaro.

    Qualsiasi aspettativa, qualsiasi aspettativa, poteva realizzarsi solo e unicamente, grazie al denaro.

    Bee Bee poteva essere fortunata o sfortunata.

    Poteva succedere di tutto, nella vita, a tutti.

    Max ora le pagava pranzi da pochi euro. Le costava poco, davvero poco mantenerla.

    Poteva ucciderla e lei forse avrebbe accettato, alla fine, teoricamente taciuto, davanti alla sua morte, davanti alla sua esistenza.

    Si era coperta ancora il viso con l’asciugamano di colore blu. Il mondo era blu.

    Max si era disteso al sole. Parlava.

    Mi informava sui risultati delle partite di calcio.

    Avevo una gola da schifo e perfino lo skyline di Pattaya faceva schifo.

    Nel pozzo amato dello schifo, trovavo sempre un fondo di assoluta bellezza.

    Pam, my friend

    Pam non era ancora sceso dall’albergo, dall’albergo in cui alloggiavamo, l’Ice Inn Hotel.

    Un albergo a tre stelle.

    Stava scopando, o molto probabilmente, aveva appena smesso di scopare.

    Era stanco e si annoiava facilmente, se non scopava, delle cose e della vita.

    Non aveva altri

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