Il morso dell’anima
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Il morso dell’anima - Tiziana Bacco
stata!
PARTE PRIMA
Nacqui in un bel paesino della Toscana nell’anno 1582, ero un bimbetto vivace e crebbi sano e forte. Avevo faticato molto nella vita ed ora mi trovavo solo in una grande dimora adiacente alla strada. Ero stanco di aspettare, chi doveva arrivare era molto, ma molto in ritardo e non riuscivo a frenare l’impazienza.
Il fumo disegnava spirali attorno al viso ed intanto camminavo senza pace nella stanza adiacente alla canonica. Era un mese in cui mille casi e mille cose da risolvere mi si intrecciavano nella mente, erano tutti chiusi nel cassetto di una mensola ed io cedevo alla pigrizia di rimandarne la soluzione.
Un anno colmo di situazioni e di confusione ti sarà certo capitato caro lettore, ma non riuscivo veramente a venire a capo di un solo fatto.
Avevo in sospeso correlazioni di sapienti preti su faccende da risolvere; lettere di suore che mi chiedevano come fare a rafforzare la loro anima, condoni da corrispondere e tanto altro ancora.
Sorrisi, pensavo con sollievo a quanta fatica dovesse attendere chi era più in alto grado di me!
Ero un signore di nero abito, non sapevo certo che la famiglia di Dio era come un nido nel quale dovevo corrispondere amore e fiducia e non un carrozzone da cui dipartivano mille aggetti e mille cianfrusaglie.
Provavo conforto nel rileggere le pagine di un libro che un vecchio amico aveva scritto, pieno di note, di sinfonie che aveva composto davanti all’altare. Provavo invidia su chi ragionava sui fatti della gente con calore, con pazienza e non come me nella frenesia delle mansioni, come se fossi stato un sarto che cuciva sull’iperattivo tavolo da lavoro senza alzare lo sguardo per capire, per vedere gli occhi di chi mi cercava.
Non so chi stai pensando ch’io sia, so soltanto che trovo pace nel renderti partecipe di ciò che sto per narrare.
Fumo seguiva ad uscire dalla mia bocca: "Calma m’imposi
Devo stare calmo!".
Come sui trampoli di un giocoliere cedevo il corpo all’impaziente attesa. Non ero certo ciò che il Signore seguitava a chiedermi di essere, ma non era proprio il caso di pensarci ora. Ero solo un sacerdote pieno di casi da sollevare e di corrispondenza da sbrigare.
Finii di fumare, schiacciai il sigaretto nel posacenere di pietra e sedetti.
"Come si può fare… mio Dio che pena, non so come significare la mia causa, non trovo il modo. Forse posso provare a cercare conforto in chi può capire il grave dubbio! Dio sia lodato… eccolo che arriva"!
Andai alla finestra e vidi il castigato presidente della Comunità che sbuffando veniva dal viale principale e si apprestava alla porta. Con un cappello a falde larghe proteggeva il capo dal sole, mi salutò e disse:State fermo Monsignore per carità non uscite, c’è un caldo insopportabile fuori
.
Una volta entrato, con fare circospetto, calò la tenda ed abbassò la voce:"
C’è un Arcivescovo che può aiutarci a difendere i nostri interessi. L’inquisizione si è riunita per verificare il consolidamento di questa tenuta. Non temete, progetto di calarmi nel piano e di fare in fretta a decidere
.
Non risposi, il sangue pulsava forte nelle vene, era accaduto altre volte che la mia posizione potesse ricevere uno sconquasso da chi volentieri avrebbe approfittato del mio benessere, ma in questo caso non potevo espormi, dovevo lasciar fare. Ciò che aveva detto non aveva bisogno di procedere oltre, bastava. Lo congedai con un gesto della mano, astutamente, ostentando indifferenza.
Questi miserabili, si fingevano amici… fino a quando… ma mi avrebbero calpestato il capo volentieri se solo avessero intravisto un attimo di cedimento. L’uomo non capì la mia tensione, non intuì il timore, e così dicendo si alzò riprendendo il cappello che si era tolto entrando.. Dio lo sa chi era! Sorrise, e con gesto scempio mi calò una mano sulla spalla.
Suvvia Monsignore, state tranquillo, non c’è occhio ed orecchio che non sia caro al ministro di Dio!
, poi superò la porta e curvò in direzione dell’aia.
Ero contento, ora potevo partire sereno, Non ci sarebbero stati impedimenti alla mia volontà.
L’incontro
Nel mentre ritto sulla soglia seguivo l’allontanarsi del farabutto, venni attratto da un raggio di sole concentrato sulla casupola che confinava con la mia tenuta.
Strinsi gli occhi e misi a fuoco. Con notevole sforzo mi resi conto che davanti alla porta c’era un uomo a me sconosciuto. Chi era? Sospettoso decisi di indagare e facendo un passo avanti, convenni che seppur era un bel giovanottone, non riuscivo a decifrarne l’identità.
"Non so chi sia… dicevo tra me e me,
strano, conosco tutti i miei contadini! "
Un prete, come puoi immaginare caro lettore, comincia a scaldarsi se non sa chi deve correggere ed allora, con determinazione decisi, aprii la porta e mi convinsi che certo la posizione che ricoprivo avrebbe giustificato l’incedere verso la casa a chiedere spiegazioni in merito.
Era d’uso infatti a quel tempo che le genti venute da lontano avessero il privilegio di far parte della comunità solo dopo essere stati accolti dal Padre Spirituale. Dovevo andare, il fatto che nessuno mi avesse informato era sicuramente provocatorio. Salii sul montarozzo di fronte casa e decisi di avviarmi.
Era il finire dell’estate, un gatto nero attraversò la strada, ero diventato traballante, diventavo ogni giorno più stanco e non riuscivo neanche più a rammentare perché avessi avuto l’incarico di aprire le anime all’infinito amore di Cristo. Ora so che, se fossi stato più attento, avrei potuto aprire la porta di casa per andare nel mondo alla ricerca di me stesso e del mio amore.
Consideravo l’ignoranza come un cane in cui si sono annidati i vermi. Non mi ritenevo degno dei miseri che si aprivano al confessore santo che ero, e certo non era affar mio il perché si fosse così diversi e così simili nel mondo. Ritenevo di non dover considerare una colpa essere così pieno di me. Era uno stato naturale, c’era chi dava dominando e chi servendo!
Allineavo l’ansia con il dolore e cedevo i fardelli a chi non aveva forza neanche per trasportare i suoi.
Correva l’anno milleseicentoventidue, avevo quarant’anni, ero così solo da non poterlo ammettere neanche a me stesso, curavo l’anima di chi trovavo e mi occupavo dei miei affari, alternandoli alla preparazione dei sacerdoti.
Li educavo a diventare impermeabili ai desideri del mondo, dicevo loro:
Chiudete la porta alla sozzura, fate presto a conoscere l’anima vostra, sollevate gli occhi, il cielo compensa chi torna al Signore
.
Io però non l’avevo fatto e non conoscevo proprio chi tornava al Signore con la forza! Cercavo di castigare chi dava segni d’insofferenza e davo calci a chi non si mostrava prodigo di carità verso il suo padre putativo.
Capivo i segni che il destino mi aveva inviato e nulla poteva tanto rilassarmi da concedermi nel segreto di desiderare il mondo che avevo combattuto come se fosse stato il peggior nemico da distruggere.
Ero stato chiamato a Roma dal prete di casa e sinceramente non trovavo il coraggio di salire sul calesse che mi avrebbe portato là dove un giorno forse sarei stato preferito a molti altri.
Ero stato fortunato a credere, dicevo tra me e me, mentre l’asma mi conficcava una spina nel petto.
Potevo chiudere la porta al misero e fare il prete senza paura di dover risanare i fatti della vita.
Sia che il successo mi avesse premiato che la negazione del fare intrappolato, non porto rancore a chi tanto produce.
"Fin’ora sono stato fortunato, non penso all’inferno, ma non so neanche cosa sia il Paradiso!"
Così pensando giunsi all’uscio, battei la mano sullo stipite d’intorno e feci un passo verso l’interno.
Un uomo alto e muscoloso, dall’aspetto salubre di chi conosce la vita all’aria aperta, mi salutò con noncuranza e discostò la tenda che separava il resto della casa dall’introdotto. Mi punsi il mento e lo sollevai.
Buongiorno
dissi come mai non ti ho mai visto prima d’ora?
L’uomo distolse lo sguardo e cercò un coltello sul tavolo. Pensai… "era piuttosto insolito che il Monsignore non fosse ben accolto in casa", ma mi trovai a credere che forse non mi conosceva!
Puntai i tacchi sul pavimento e lo apostrofai con tale veemenza che quello