Un mondo senza: Dialoghi su un'utopia per il ventunesimo secolo
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Book preview
Un mondo senza - Massimiliano Claps
http://creoebook.blogspot.com
MASSIMILIANO CLAPS
UN MONDO SENZA
Dialoghi su un’utopia per il ventunesimo secolo
Questa è un’opera di analisi (romanzata) sull’attuale condizione economica e sociale, sviluppata dall’Autore in base alle proprie esperienze e alle proprie convizioni. Non può essere letta se non tenendo bene a mente questa premessa. Tutti i nomi, i personaggi, i luoghi e gli avvenimenti presenti nel libro sono usati in modo fittizio.
«A map of the world that does not include Utopia is not worth even glancing at, for it leaves out the one country at which Humanity is always landing. And when Humanity lands there, it looks out, and, seeing a better country, sets sail. Progress is the realisation of Utopias».
— Oscar Wilde, The Soul of Man under Socialism
«Nearly all creators of Utopia have resembled the man who has toothache, and therefore thinks happiness consists in not having toothache... Whoever tries to imagine perfection simply reveals his own emptiness».
— George Orwell, Why Socialists Don’t Believe in Fun
«Melancholy and Utopia are heads and tails of the same coin».
— Gunter Grass, From the Diary of the Snail
Prefazione
Economisti, politici, filosofi, sociologi, comici, magistrati, chi più ne ha più ne metta. Tutti si cimentano nell’analizzare l’attuale crisi economica. Molti si soffermano sui paragoni con i cicli fiscali, finanziari e produttivi di epoche precedenti, vicine e lontane, proponendo ricette trite e ritrite. C’è chi propone di incrementare la spesa pubblica per supportare la domanda e chi, sbagliando più degli altri, suggerisce austerità e applicazione di precetti neoliberisti, o meglio vetero-capitalistici e vetero-conservatori. Alcuni, con piena ragione, colgono che la crisi economica è solo il sintomo di una trasformazione ben più profonda che scuote anche le radici sociali, politiche, ambientali, scientifiche, tecnologiche e filosofiche della nostra civiltà. Una trasformazione quasi darwiniana per l’impatto dei suoi effetti epocali. Fra quelli che hanno intuito questa profonda trasformazione, alcuni propongono rimedi che sanno un po’ di globalizzazione acritica, alla Thomas Friedman, per intenderci, tipo aumentare i livelli di istruzione per far sì che una certa nazione o regione possa recuperare competitività e offrire opportunità migliori ai propri cittadini. Per fortuna ci sono anche studiosi come Zygmund Bauman, Joseph Stiglitz, Jacques Attali, Amartya Sen, Slavoj Sizek, Jeremy Rifkin, Richard Rorty e altri che, invece, oltre a intuire la portata della trasformazione che stiamo affrontando, capiscono che occorre partire dalle differenze profonde fra individui e culture. Differenze che sono la fonte più ricca di energie e idee per un processo di rivoluzione totale dei paradigmi sistematici della nostra civiltà, al fine di progredire verso un maggiore benessere universale. Differenze che possono impollinarsi vicendevolmente solo se tutta la popolazione mondiale ha l’opportunità di scegliere liberamente come contribuire al progresso e non è costretta, nella maggior parte dei casi, in condizioni di vita e lavoro disumane per sfamare i propri figli... Quando ci riesce. Molto immodestamente, le riflessioni che seguono si innestano su questo ultimo filone. Per colmare la lacuna di profondità di pensiero che mi distanzia anni luce dai sovracitati autori, ho intrecciato i miei pensieri con una storiella scaturita dalla mia mente traviata dopo centinaia di viaggi di lavoro.
La noia di un lay-over
Signore e signori, buongiorno, è il comandante che vi parla. Fra circa un’ora atterreremo all’aeroporto di Heathrow. Ora locale di Londra, otto e quarantacinque del mattino. Il tempo a terra è nuvoloso, con una temperatura di dieci gradi centigradi. Fra poco gli assistenti di volo passeranno a servire la colazione. Mi dispiace per le turbolenze, ma purtroppo abbiamo incontrato una perturbazione sull’Atlantico. Mi auguro che il volo sia stato comunque piacevole. E speriamo di ospitarvi presto di nuovo a bordo
. Con la palpebra intenta nel vano tentativo di arrampicarsi sulla viscida parete della pupilla, a Randy questo annuncio suona più come una presa in giro che come un buongiorno. Soprattutto a uno per cui, alto oltre un metro e ottanta, il significato della parola riposo, nella economy class di un Airbus 330, si declina nelle seguenti alternative: sfiga, incubo, capita una volta ogni dieci anni e…sogno.
Sfiga, quando non ti addormenteresti in aereo neppure se fossi steso su un letto di classe magnifica, con l’hostess che ti massaggia le tempie, il volo durasse dieci ore e avessi ingurgitato vino rosso, birra e bloody-mary fino a stordirti. Figuriamoci in un sedile di economy class.
Incubo, quando è da tre giorni che dormi meno di cinque ore per notte, arrivi da una sfilza di noiosissime riunioni con clienti in tre città diverse che hai collegato con un mix improbabile di voli, treni e auto e, per giunta, sei arrivato tardi in aeroporto, per cui non hai neppure avuto tempo di bere un tè per scrollarti di dosso un grammo di sonno. Allora, anche se sei un insonne cronico, pensi a quel seggiolino come una manna dal cielo, però ti capita il posto in mezzo a due pesi massimi che, poveretti, strabordano dai loro sedili, costringendoti a tenere le ginocchia in bocca, e russano come una batteria di minipimer, emettendo un tale range di ultrasuoni da impedire alle tue palpebre di chiudersi per le vibrazioni.
Capita una volta ogni dieci anni, quando sei stramazzato dalla stanchezza e, all’annuncio di imbarco terminato
, ti rendi conto di essere da solo in una fila di tre o quattro sedili, per cui ti togli le scarpe, fingendo che il fetore ammorbante dei piedi, sigillati da dodici ore in un paio di scarpe elegantissime, ma più ermetiche di un paio di scarponi da ghiaccio, provenga dalla fila davanti. Ti stendi, ma ben presto ti accorgi di non riuscire a dormire per più di mezzora nella stessa posizione, perché sei comunque raggomitolato come un lombrico e sai già che la schiena ti farà male per una settimana.
Sogno, quando sei seduto di fianco a Charlize Theron e hai letto, su uno di quei rotocalchi che ai tuoi amici non confesseresti neppure di conoscere, che ha appena divorziato dal secondo marito, quindi non te ne frega nulla di dormire e ci provi per tutto il viaggio, con l’unico risultato di farla incazzare a morte, perché si è fatta un’endovena di sonnifero per dormire.
L’opzione sfiga, per fortuna, non ha mai riguardato Randy. Si addormenterebbe anche in piedi, appoggiato a una fermata del tram, in pieno luglio, con quaranta gradi. L’opzione incubo gli è capitata solo a metà, con un supermassimo davanti, o solo da un lato, ma la teme come la peste. Il sogno non importa, tanto, anche nelle più ottimistiche fantasie, la timidezza gli inaridirebbe la lingua più che una maratona nel deserto e non riuscirebbe a proferire parola. Per questa volta si è dovuto accontentare di raggomitolarsi su tre sedili e di invidiare la bambina, nella fila centrale, che riesce a stendersi completamente su due sedili.
Un’ultima trazione e riesce a issare la palpebra fino alla posizione sveglio-ma-non-troppo. Giusto in tempo per accogliere la hostess che deposita sul tavolinetto uno scatolotto surgelato contenente succo d’arancia, che, a quest’ora, strapperebbe a morsi le mucose dello stomaco come una bottiglia di tequila, oltre a un barattolo di yogurt e un muffin talmente intriso di cannella da dare il voltastomaco. Randy chiede anche del tè, ma riceve una tazzina di acqua calda colorata, il cui unico sapore è quello della plastica della tazzina stessa. British Airways non sarà contenta per l’aereo vuoto, ma, oltre allo spazio per stendere le gambe, anche la rapidità dello sbarco ne guadagna. Il tempo di assaporare la gioia effimera del rapido ingresso al terminal cinque di Heathrow, che Randy realizza di dover attendere tre ore per il volo che lo condurrà a Copenhagen. E non c’è neanche la fila al controllo passaporti o al security check. Questa sì che è una sorpresa. Di solito neppure le corsie preferenziali per i frequent flyers forniscono un security check in tempi dignitosi a Heathrow. O, nei rari casi di scarso affollamento, capita invariabilmente la simpatica, numerosissima famiglia indiana o mediorientale, con mamme riccamente ingioiellate che vengono fatte tornare indietro dieci volte, prima di capire che è il cerchietto per i capelli della bambina che portano in braccio a mandare in tilt il metaldetector.
Randy lancia uno sguardo distratto verso i tabelloni installati di fronte al security check, nel vano tentativo di scorgere i dettagli del prossimo volo, ma i display sono occupati da inutili annunci sulla sicurezza o da ancor più inutili pubblicità, e, comunque, a tre ore dalla partenza non avranno ancora assegnato il gate. Dilemma. Svoltare a destra verso il cambia valute, le profumerie e le boutiques di chincaglieria varia, che potrebbero interessare qualche turista americana, ma non certo un annoiato viaggiatore, oppure svoltare a sinistra verso i pub, i ristoranti e il lounge di British Airways; oppure, ancora, rotolare al piano inferiore con la scala mobile, per un altro tour di chincaglieria, negozi di elettronica, altri pub, ristoranti e librerie? Il lounge di British Airways sembra l’unica opzione appetibile, per lo meno per scampare allo shopping ossessivo-compulsivo in libreria. Quello di BA resta uno dei pochi lounge a cui si possa ancora accedere con la carta argento, privilegio che altre compagnie aeree non concedono più, se non ai passeggeri con carta platino tempestata di diamanti.
Due giri a vuoto attorno agli scaffali dei giornali, ma niente International Herald Tribune. Il foglio più liberal che si trovi è The Independent. La scelta di vettovaglie non è migliorata rispetto all’ultima volta. Randy adocchia uova strapazzate e bacon, ma, considerando che il suo orologio biologico fa tic-tac sulle tre del mattino americane, teme di fare un torto al proprio stomaco. Opta per un set di biscotti cento per cento burro e un bicchiere di succo di pompelmo. Con lo spolverino infilato in una delle bretelle dello zaino, il bicchiere in una mano e il giornale e i pacchetti di biscotti appesi a tutte le dita disponibili dell’altra, si guarda attorno cercando un posto a sedere che non sia troppo vicino a qualche parruccone impinguinato. Impresa ardua, visto che la descrizione calza a pennello per il novanta percento dei presenti, Randy compreso. Anche se ormai, senza cravatta e con un lembo della camicia ribellatosi alla costrizione della cintura dei pantaloni, più che un parruccone, sembra un barbone. Che, pensandoci bene, ha spesso più dignità del parruccone.
Si va ad appollaiare su uno degli sgabelli di fronte alle finestre e, prima di