Ritorno dall'aldiquà
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Ritorno dall'aldiquà - Antonino Santangelo
Conclusioni
Capitolo I
I fatti
In un particolare periodo della mia vita si sono succeduti alcuni eventi che non credo di esagerare nel definirli al limite
, perché hanno riguardato diverse, seppur temporanee, interruzioni dell’attività del mio cuore e, di conseguenza, della vita cosciente.
Ho realmente subito tre arresti cardiaci, il primo il 13 ottobre 1995, quando avevo 53 anni, il secondo il 14 febbraio 1996 e l’ultimo il 3 marzo 1996.
La vicenda, però, comincia molto tempo prima quando, alle 22 circa del 23 novembre 1982, dopo la fine di una riunione di lavoro, mentre ero nella hall di un grande albergo sulla costa nord di Catania, avvertii un intenso dolore sotto lo sterno, accompagnato da un fastidioso formicolio alle mani e da una abbondante sudorazione. Cosa mi stava succedendo? Entrai in auto e mi diressi verso il centro della città dove abitavo. Riuscii a raggiungere il garage e mi incamminai verso casa, distante un centinaio di metri. Il dolore al petto si era fatto lancinante e mi sembrava di avere un fuoco che mi bruciava i polmoni.
Appena giunto a casa chiamai un medico che conoscevo e, dopo l’elettrocardiogramma, lui mi disse che c’era un problema con il cuore.
Di che genere?
chiesi.
Forse si tratta di un infarto
rispose … devo ricoverarla subito
.
Per qualche secondo rimasi come inebetito. Ma come? A soli 40 anni, a me che facevo sei ore settimanali di tennis e che d’estate nuotavo per chilometri, a me un infarto? Non poteva essere vero.
Ma, a pensarci bene, la mia vita era stata piuttosto disordinata, fumavo molto, non mi limitavo con le avventure galanti e con i piaceri della tavola. E poi, i grandi dolori e i lutti nella mia famiglia non erano certi stati dei toccasana per la mia psiche. Avrei quindi dovuto aspettarmi qualche serio disturbo, magari una gastrite, ma non avevo mai pensato ad un infarto!
La realtà era però quella, non potevo che prenderne atto, mentre recriminare e disperarmi era del tutto inutile, anzi, dovevo razionalizzare l’evento e cercare di superare la crisi soprattutto sforzandomi di calmare la mia ansia.
In autoambulanza fui portato in ospedale e sottoposto alle cure del caso (molto relative, perché non si erano ancora sviluppate le tecniche di disostruzione delle arterie con farmaci e, men che meno, con interventi di angioplastica).
Trascorsi la notte con l’angoscia della fine imminente. Solo all’alba il dolore sparì e mi sentii meglio, tant’è che alla visita del mattino i medici mi rassicurarono sulle mie condizioni.
Qualche settimana dopo fui dimesso e, dopo un periodo di convalescenza, ritornai al mio lavoro (ero il capo dell’ufficio crediti di un’industria farmaceutica).
Come alcuni di coloro che sono scampati ad una morte probabile, appena ripresi la mia vita normale m’impegnai esageratamente sul lavoro, forse per dimostrare a me stesso d’essere quello di sempre. Questo errore si paga caro e dopo qualche anno di vita stressante ci ricascai, altro infarto, esattamente il 30 aprile 1989. Anche stavolta riuscii a superarlo, ma il mio ritmo di vita si ridusse; in azienda venni trasferito ad un incarico meno impegnativo ed i giorni cominciarono a trascorrere monotoni.
Col tempo, la mia efficienza fisica diminuì, cominciai a far fatica a dormire disteso e dovetti mettermi seduto sul letto per respirare (avrò anche bisogno della classica bombola d’ossigeno, che mi terrà compagnia per qualche tempo). Riuscii anche a guarire da un edema polmonare acuto che, in ogni caso, aggravò ancor di più la mia situazione generale.
Dato il peggioramento delle mie condizioni venni sottoposto ad una coronarografia che evidenziò alcune ostruzioni in un paio di arterie, per cui mi sottoposi ad intervento chirurgico per l’impianto di quattro di by-pass (8 agosto 1989) che venne eseguito nell’ospedale italiano di Londra.
L’operazione riuscì bene e dopo una decina di giorni mi sentii in grado di fare un giretto per la capitale inglese. Da tempo avevo desiderato di visitare il British Museum, dove sono conservati molti tesori archeologici, come la stele di Rosetta, il masso inciso con segni in più lingue antiche che ha consentito a Champollion di decifrare i geroglifici (impresa non troppo difficile se la si confronta al lavoro di interpretazione dei segni tracciati da molti medici sulle loro ricette).
Dopo aver gironzolato al piano terreno in mezzo, se ben ricordo, a sculture e bassorilievi assiro-babilonesi, sono salito al piano superiore dove erano conservate in apposite teche di vetro parecchie mummie.
Dimagrito, pallido e molto stanco per l’impegno fisico, camminavo con lentezza e quasi ansimavo, per cui non appena vidi una panca tra due teche con cadaveri imbalsamati mi sedetti per riposarmi. Poco dopo sfilò lungo il corridoio un gruppo di giapponesi con in mano le immancabili macchine fotografiche. Fu un attimo, venni circondato e bersagliato dai flash. Fui frettolosamente scambiato per un antico egizio mummificato e, anche se non capivo una parola della loro lingua, dalle espressioni dei loro volti coglievo l’ammirazione per il mio ottimo stato di conservazione. Ovviamente ci fu un coro di meraviglia quando mi alzai per riprendere il mio cammino. Notai con soddisfazione che rimasero loro come mummie.
Ricominciai a condurre una vita pressoché normale però, sei anni dopo, nell’agosto 1995 cominciò una fastidiosa fibrillazione atriale; nel mio cuore gli atri non si contraevano e rilassavano in maniera coordinata con i ventricoli, diminuendo la forza di spinta cardiaca che viene misurata con l’indice F.E. (frazione d’eiezione). Questo stato di cose ha come conseguenza un senso diffuso di spossatezza e, soprattutto, l’esposizione a seri rischi per la vita per la possibile formazione di trombi. Venni quindi ricoverato presso l’unità coronarica dell’ospedale Cannizzaro di Catania. Passo alla cronaca. È quasi mezzogiorno del 13 ottobre 1995 e, disteso sul letto, aspetto che mi portino il pranzo. Arriva invece un’infermiera con in mano una siringa e mi chiede di scoprire un braccio perché deve effettuare un prelievo di sangue. Eseguo, anche se mi dichiaro stupito in quanto non è certo l’ora adatta per questa operazione. Lei sostiene che ha ricevuto una telefonata dal laboratorio perché bisogna rifare alcune analisi. Mentre ho l’ago inserito in una vena del braccio destro, entra nella camera un giovane infermiere con in mano lo sfigmomanometro ed il fonendoscopio per la misurazione della pressione arteriosa. Mi mette la fascia al braccio sinistro e comincia a pompare l’aria; dopo alcuni secondi lo vedo perplesso e lo sento sussurrare con stupore 90 con 70
. La differenza tra la pressione arteriosa durante la contrazione ed il rilassamento del muscolo cardiaco è molto ridotta. Capisco al volo che qualcosa non va, ma ho appena il tempo di esclamare: Cosa?
, poi più nulla, perdo immediatamente coscienza.
Non ci sono più, cancellato, fine.
Poi, d’improvviso, sono di nuovo presente, ma il panorama è cambiato, non vedo