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Yevu
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Yevu

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About this ebook

Fin da ragazzino avevo avuto una attrattiva per i mondi lontani; personaggi come Albert Schweitzer, padre Damiano, il santo dei lebbrosi, Daniele Comboni, il Beato Capella erano figure che avevano fi ssato delle tracce nel mio profondo.
Non avendo in questa vita antenati Africani (ma forse li ho avuti nelle precedenti vite) il mio DNA è sicuramente un mutante ed ha preso connotazioni equatoriali, perfino fisicamente, nella resistenza al caldo e alla sete.
Il libro è una sintesi corale di storie vere; il racconto che nasce da situazioni vere e diverse, si sostanzia in situazioni verosimili e possibili, pur non reali sic et simpliciter; i nomi delle persone, dei luoghi e le date sono necessariamente cambiati. Il protagonista James riassume vicende capitate nella realtà a più soggetti.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateAug 11, 2012
ISBN9788867513406
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    Book preview

    Yevu - Pietro Giacomo Menolfi

    INDICE

    YEVU

    IL DOTTORE BIANCO

    CON ANIMA AFRICANA

    Pietro Giacomo Menolfi

    Nato con pelle bianca ma con DNA africano

    Copyright © 2012

    Youcanprint Self-Publishing

    Via roma 73 - 73039 Tricase (LE)

    Tel. 0832. 1836509

    Fax. 0832.1836533

    info@youcanprint.it

    www.youcanprint.it

    Titolo : Yevu - Il dottore bianco con anima africana

    Autore : Pietro Giacomo Menolfi

    Illustrazione di copertina a cura dell’autore.

    ISBN: 9788867513406

    Prima edizione digitale 2012

    Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941

    DEDICA

    Dedico questo lavoro ai miei figli e nipoti, a tutti i miei amici africani che sono i veri protagonisti delle vicende narrate.

    RINGRAZIAMENTI

    Ringrazio coloro che mi hanno incoraggiato a scrivere queste righe.

    Un ringraziamento particolare va ai vari amici che hanno contribuito alle varie fasi di revisione per migliorare la parte stilistica, testuale e grafica.

    Ringrazio tutti coloro che leggeranno il libro.

    Un grande ringraziamento agli Autori di ClipArt e di Immagini messe a disposizione sul web royalty free; grazie per la condivisione del vostro talento.

    PRESENTAZIONE

    YEVU

    Un nonno (Dr James)

    Tre figli,

    Tre nipoti,

    Tre nazioni:

    Pedro papà di Leonardo dal Mozanga

    Kwabla papà di Suzanne dal Burwli

    Denis figura di Denis dallo Zariland

    PREFAZIONE

    Caro James,

    ho letto e riletto con interesse il tuo scritto. Mi sono identificato nello scorrere dei ricordi e delle vicende, avendo anch’io un passato in comune. La sintesi delle vicende riportate, alcune delle quali mi vedono protagonista, mi ha avvinto; dapprima ero rimasto un tantino sconcertato poiché mi ero chiesto:

    «James e amici, pensate che eravamo solo noi le persone giuste, nei posti dove ci eravamo cacciati?»

    «Come ce li siamo andati a cercare quei figuri, quegli elementi, a dir poco strani, che hanno coronato la nostra esperienza africana?»

    «Nella tua sintesi, non sei troppo parziale nelle tue valutazioni? È possibile che fossero tutti grami gli altri?»

    Ma poi ho appunto riletto con calma e sono riuscito a cogliere l’anima del libro che credo rispecchi i nostri propositi nel suggerirti di farne una sintesi: il racconto si stempera come uno strato di bontà su cui si imprimono alcuni fatti negativi; naturalmente questi sono i fatti più appariscenti, i più neri, ma vanno letti sullo scorrere di un nastro totalmente bianco e buono.

    Non penso sia stato facile per te scrivere e quindi rivivere alcuni di quei momenti; ma lo dici bene nella tua spiegazione: sono fatti nostri; nessuno, né tu né nessun altro li potrà cambiare.

    Siamo sicuri che sarebbe importante capire sempre di più per poter conoscere e separare quanto è fatto bene da quanto è fatto male.

    Grazie James per il coraggio.

    Il tuo sincero amico e sostenitore

    CAPITOLO 1

    YEVU: IL DOTTORE BIANCO CON ANIMA AFRICANA

    Ama la verità ma perdona gli errori. Voltaire

    Mi ricordo bene di un carissimo e veramente dotto professore del liceo, il quale diceva che, se la gente leggesse i libri già scritti ottimamente da altri, si pubblicherebbero molti ma molti meno libri. Quindi se gli scrittori fossero veramente dotti, dovrebbero prima attingere alla sapienza altrui.

    Per non incorrere in quell’errore, mi avrebbe fatto piacere avere il parere preventivo di questo mio professore prima di procedere alla stampa di questo lavoro; ma credo che non avrei potuto comunque esimermene, poiché queste righe sono frutto di vite vissute prima che della mia mente. E la nostra vita l’abbiamo vissuta solo noi. Nello scrivere queste memorie, ho rivissuto con passione, trepidazione e gioia le nostre vicende. L’ho fatto per rendere testimonianza ai fatti e alla passione che mi hanno legato e mi legano al continente nero, dal quale sono tuttora avvinto. Sicuramente non era stato un caso che io fossi andato a lavorare laggiù e che probabilmente un giorno ci tornerò, con i figli o senza, per fare ancora qualcosa e poi morirvi.

    Non avendo in questa vita antenati Africani (ma forse li ho avuti nelle precedenti vite) il mio DNA è sicuramente un mutante ed ha preso connotazioni equatoriali, perfino fisicamente, nella resistenza al caldo e alla sete. Io, quando ci ho messo piede, ho provato la sensazione di esserci sempre stato. Mi sono subito confrontato, incontrato, immerso in quei posti e con quella gente senza timori e senza presunzioni; mi sentivo uno di loro. Mi ero subito stufato dei circoli bianchi, dei loro discorsi monotoni e ripetitivi che riguardavano le stranezze dei locali; a me sembravano più evidenti le stranezze dei miei simili di colore. Non mi è costato nulla imparare a rispettare le persone e le regole. Mi sono sempre infuriato quando venivo a sapere di torti subiti dalla gente locale; ho fatto delle battaglie anche a rischio della carriera, che guarda caso non è stata brillantissima in termini di visibilità, per difendere la mia gente e quanto era giusto per loro.

    Ho adottato i miei figli e con loro ho sfidato i venti velatamente razzisti dell’Europa, con passione ma senza nessun timore. Ogni torto che venisse fatto ai miei figli è come se venisse fatto a me; va a conficcarsi nella mia carne, perché io li ho generati come miei, con me sono rinati ed hanno la loro attuale vita.

    Per questo, seppur partorito con pelle bianca, sono sicuramente nato con un’anima africana.

    CAPITOLO 2

    L’ILLUMINAZIONE

    Chi ha paura di sognare rischia di morire. Bob Marley

    Un misto di irresponsabilità totale e voglia di nuovo; un forte richiamo innato che veniva fin dall’adolescenza ed un senso di aver già vissuto abbastanza in un certo modo; sentire esaurita una esperienza e desiderarne una di altrettanta intensità; messo il tutto nel frullatore del mio cervello, alla fine produsse la decisione, per nulla facile, di partire per realizzare un sogno nel cassetto. A dire il vero la cosa non era nuovissima nella mia testa e nel mio cuore; fin da ragazzino avevo avuto una attrattiva per i mondi lontani; personaggi come Albert Schweitzer, padre Damiano, il santo dei lebbrosi, Daniele Comboni, il Beato Capella erano figure che avevano fissato delle tracce nel mio profondo.

    Ci avevo già provato da neo laureato a contattare una organizzazione dal nome suggestivo, Mercy; ne avevo pure ricevuto risposta, ma non ne avevo fatto nulla poiché non mi sentivo pronto professionalmente.

    Certi tarli però non te li levi più di dosso. Fu così che una decina di anni dopo, sollecitato da un articoletto sul Corriere Medico che titolava: L’Africa ha bisogno di medici, scrissi alla direzione di quell’Ente che cercava dottori.

    Era probabilmente il momento giusto: colloquio preliminare, prime valutazioni: «Okay, vieni al corso di selezione».

    La selezione, durata tre settimane senza continuità, non fu nulla di esaltante in sé, se non per la motivazione che aveva portato lì i vari candidati. Eravamo tutti un po’ perplessi per quei dirigenti della organizzazione che parlavano poco o nulla, scrutavano i candidati, ci facevano fare delle cose il cui scopo pareva incomprensibile; ma era così.

    Ad ogni settimana successiva eravamo dimezzati fin che, dei trenta della prima settimana, ci trovammo in otto o dieci all’ultima. Sembrava fatta; cercavano quattro medici e là eravamo in quattro più altri professionisti. I sogni cominciarono a stemperarsi senza argini; già mi vedevo in Lesoland! Ma alla fine non fui mandato, perché ne furono mandati solo due dei quattro previsti.

    Come?! Dopo tutta quella carica, quella preparazione mentale, quell’attesa? Fu così.

    Ripresomi dalla delusione cocente, mi ricordai allora di quel Mercy; frugai in tutti i cassetti fin che trovai quella lettera: dieci anni erano passati. Via alla carica; contattai quel Presidente che si ricordava ancora di quella vecchia lettera, da non credere, e, per di più quelli di Mercy stavano cercando una figura sanitaria da mandare in Burwli.

    Sono io l’eletto questa volta, sospirai, avendo già dimenticato quei figuri emblematici incontrati nell’altra organizzazione che alla fine mi avevano dato buca.

    Presi i contatti con questa nuova organizzazione, scoprii presto che la direzione era formata da un triumvirato; vi erano infatti anche due dottoresse, definite esperte che non furono così entusiaste e così dirette nell’accettare la mia candidatura. Espressero la loro titubanza motivandola col fatto che il progetto aveva bisogno di una ostetrica più che di un medico; che io poi ero inesperto (di fronte alla loro grande esperienza!) e quindi si riservarono di ponderare e valutare altre persone per il loro progetto di clinica mobile.

    A me sorsero immediati alcuni dubbi:

    E che ci fa un’ostetrica su una clinica mobile? Dovrà far partorire le donne sul cassonetto di un’auto?

    Comunque umilmente mi riconobbi inesperto e quindi mi misi in lista di attesa.

    Per inciso, le dottoresse esperte, dopo qualche tempo dimostrarono quanto fosse fasulla la loro esperienza nel campo della cooperazione, quando rifiutarono di assumere la gestione di un ospedale nuovissimo che veniva offerto a Mercy, chiavi in mano, giusto per la gestione. Quando si dice l’esperienza! E per di più, le signore continuarono a rivendicare la paternità (maternità) di quel primo progetto, dopo che lo avevano affossato nel bel mentre della sua crescita.

    Trovarono pure l’ostetrica, ma la ragazza, nonostante amasse tanto l’Africa, aveva un sacrosanto terrore degli insetti e rinunciò.

    Alla fine la spuntai nonostante le dottoresse e fui mandato dapprima a un corso di preparazione in medicina tropicale e poi, per una ritoccata alla lingua inglese, in Irlanda. Quindi, via! Partii sulle orme di Schweitzer.

    Sembrava destino perché, dapprima avevo conosciuto il grande medico svizzero dai libri e poi, di lì a pochi anni, venni insignito del premio intitolato al grande medico, purtroppo oggi quasi dimenticato.

    Non andò allo stesso modo con il Santo Giulio Capella, fondatore dei Capellani, esempio per i miei sogni giovanili. Se mai qualche premio mi fosse stato proposto con quel nome, glielo avrei probabilmente fatto ingoiare ai proponenti, e non per colpa del Santo, ma dei suoi seguaci che, dello spirito e del motto del fondatore, l’Africa è la mia famiglia se ne erano proprio scordati o, magari, lo interpretavano ora in un altro modo.

    Così cominciai la mia avventura africana. Non avevo mai messo piede nel Continente nero.

    Arrivai ad Aburah, la capitale della ex Costa dei Diamanti, alla sera. Entrai in un aeroporto che sapeva di militare con un’atmosfera cupa; i muri erano scuri, umidi e tetri. Fui confortato dalla presenza di una dottoressa, seppur poco simpatica.

    Venne a prenderci padre Drago che ci salutò con aria da vecchia volpe del luogo e, di fatto, dicendo frasi sconclusionate, ci condusse fuori da quell’aeroporto che pareva una bolgia. Quando uscimmo, fui impressionato dalla calca di gente che stava là fuori: non avevo mai visto tante facce nere in un sol colpo. Ci immergemmo in quella tipica atmosfera caldo umida dei tropici che ti avvolge e gradevolmente ti opprime.

    Imboccammo varie strade e la città, con le sue poche luci, scomparse presto. Incontrammo presto un’oscurità che forse non ricordavo di aver mai visto. Questa oscurità totale era interrotta di quando in quando da brevi filari di lumini di candela, quando attraversavamo i villaggi lungo la strada. Feci il viaggio in silenzio, con mille pensieri che si incrociavano: ciò che avevo lasciato, ciò che stavo cominciando senza la minima conoscenza; un conto è quando si fanno i colloqui e si mostra di sapere tutto; un altro conto è quando solo con te stesso non puoi mentire. Sarei stato in grado di capire ed interpretare la nuova realtà? Come mi sarei trovato al risveglio del mattino seguente quando avrei visto il mondo in nero?

    Intanto fummo accolti dal gruppo delle colf di padre Drago in alcune strutture prefabbricate dove, sulle pareti, campeggiavano messaggi di benvenuto in inglese. Era la prima prova di lingua pratica. Oh Dio! E poi queste colf parlavano davvero inglese; il padre Drago pure, come era bravo, parlava inglese con queste persone. Anch’io sarei dovuto poi diventare così? Ci sarei riuscito? La squisita e inaspettata cena, poiché in Africa avevamo pensato si dovesse mangiare in maniera parca e povera, soffocò temporaneamente le preoccupazioni.

    Finalmente potemmo andare a distenderci su un letto, dopo ore negli aeroporti, sull’aereo, su quei sedili pretenziosi con poggiapiedi, poggiatesta, poggia tutto ma stretti e scomodi che praticamente ti costringono sempre in posizione verticale. Le scarpe quasi non ci calzavano più. Mamma che buio! Non c’era elettricità di rete. Avevamo la elettricità da un generatore che parsimoniosamente veniva acceso poche ore al giorno e che naturalmente di notte non funzionava.

    Altro che riposo ristoratore: fu un dormiveglia fra incubi, un rullio di tamburi lontani ma non troppo, il pensiero del risveglio nel mondo nero, il mio mondo dal quale mi ero congedato troppo in fretta e nel quale avevo dimenticato mille e mille cose e convenevoli.

    Venne l’alba molto presto; poi sarebbe diventato abituale questo albeggiare tropicale alle sei del mattino; ma quella era la prima volta.

    Per quasi un mese intero durante la notte udii il rullare dei tamburi. La mia mente andava a quei pochi film visti, in cui tale rullio accompagnava i sacrifici umani.

    Passarono molti giorni, prima che potessi comunicare con qualcuno e sapere che si stava svolgendo il festival dei morti al di là dal fiume e quelli erano i suoni e le danze in loro onore.

    Prima di partire ti sogni, se non proprio gli animali feroci, che sai confinati nei parchi, almeno di avere una scimmietta o dei pappagalli; perché pensi che l’ambiente esotico te lo dovresti creare, come se fossi a Milano o a Londra. Non sai ancora che andrai a vivere in un ambiente caldo, colorato, vivo, popolato, aperto e che più esotico di così si muore, senza orpelli. Quando ti prepari a partire sei in uno stato di rapimento e smarrimento totali; hai davanti il sogno della tua vita; cominci a preoccuparti seriamente per quello che dovresti fare, che magari temi di non aver capito bene. Devi mettere a punto la lingua se sei agli inizi, devi impararti un sacco di regole di igiene e di profilassi. Non bere… non mangiare… non… che alla fine devi sperare di ricordarti tutto. Naturalmente se vuoi fare di testa tua, devi essere pronto a pagarne le conseguenze. Se tu hai deciso di essere ligio alle regole, una volta che arrivi in quell’ambiente tropicale, ti ci vuole pochissimo per cominciare ad avere alcune perplessità sulle tue regole di igiene, insieme a moltissime su tutto il resto, specie quando arrivi in cucina e trovi l’house-boy in cucina che con accuratezza lava il pavimento e poi risciacqua lo straccio nel lavandino dove si lavano i piatti. Ti hanno raccomandato di non alzare mai la voce e di spiegare le cose: va bene. Non alzo la voce e spiego. Neanche due giorni dopo cosa ti trovi? Che lo straccio usato a lavare il pavimento, viene usato a pulire il tavolo. Diamine, non avevo alzato la voce ed ho spiegato. Allora, spieghi di nuovo. Il tuo ubbidientissimo e rispettosissimo house-boy non fa una piega, ascolta ed esegue. Ha solo una espressione della faccia che ti pare un po’ strana e par che dica: «Questi bianchi sono un po’ strani, ma accontentiamoli». Nel frattempo, quando ti lavi i denti e non sai quale acqua usare, ti viene il dubbio che le tue regole non dipendano più solo da te, se risciacquare solo con acqua di… non bere se è… mah! Cominci a scoprire che probabilmente c’è qualche incongruità fra quanto ti hanno insegnato e quanto stai vivendo.

    Lavare le mani sempre… e ti porti i gel e i fazzolettini disinfettanti e lasci asciugare le mani al sole per non usare asciugamani che non sai… Ma poi devi sempre fare il conto con la tua casa, col tuo house-boy, che ti ha preparato una macedonia di ananas, banane, mango e papaya; te la mangi con avidità, fin che non ti scappa l’occhio e lo vedi di là in cucina sfaccendato che quasi con ostentazione si sta dando una pulitina al naso. Ti viene allora qualche sospetto, riesci a fare qualche collegamento logico e riesci a spiegare perché, nonostante tutte le tue preoccupazioni, hai ugualmente preso la diarrea. Basta osservare; quando preparano il fufu, misto di plantain e yam pestati insieme in un mortaio con un palo, in quel recipiente lasciato lì all’aperto, usando quel palo appoggiato per terra, di igiene proprio non se ne parla. La tua curiosità ti ha portato a vedere dal vivo come fanno a prepararlo? Eccoti soddisfatto; ingredienti e strumenti: la poltiglia viene pestata nel mortaio; quando è troppo densa, si aggiunge dell’acqua – di nuovo quell’acqua! Ma quale acqua? La prima che si trova, basta che sia acqua. E allora poi ti lavi i denti e ti sciacqui la bocca come ti pare e vada come Dio vuole.

    Come si fa a spiegare ai tuoi boys che l’acqua del rubinetto è inquinata? «È pulita, perdio!» Loro, quando non ce n’è altra, raccolgono quella delle pozzanghere, che è meglio di niente.

    Io, pur non essendo schizzinoso, ad alcune regole non volevo rinunciare e di fatto raramente sono stato vittima della diarrea. Vissi i miei anni in Africa usando le più elementari precauzioni, rifiutando gentilmente offerte di bevande e di cibo propinatemi nei villaggi; i locali si erano abituati allo Yevu (uomo bianco) che ringraziava per il pensiero ma non prendeva nulla. Nelle visite ai villaggi, mi portavo dietro il classico panino; di frutta ce n’era sempre; perché complicarsi la vita con cose non conosciute?

    Se poi ti eri dimenticato di avere un corpo, una volta arrivato in Africa, te ne rammenti presto. Quando vieni sbranato da nugoli di zanzare con tanti di quei morsi e pomfi conseguenti che non riesci più a dormire per il male, allora l’unico pensiero positivo che puoi utilizzare è la certezza di avere un corpo con funzioni sensoriali integre! Le zanzare sono un test perfetto per la sensibilità. È una vera e propria guerra strategica, chimica, di posizione e resistenza che difficilmente vinci, anche se osservi scrupolosamente i consigli di cui trovi tanti esperti; alla fine ti ritrovi con i tuoi pomfi dolenti, che quasi ti fanno lacrimare gli occhi e speri di non essere febbricitante di malaria di lì a qualche giorno.

    Fino a che eri ancora estraneo all’Africa, la tua mente non poteva fare a meno di pensare a leoni, elefanti e altri spettacolari animali. Quando ne sei diventato cittadino, cominci a conoscere la fauna per così dire quotidiana, per relegare quell’altra alla domenica, in occasione della visita ai parchi. La fauna quotidiana è più banale ma più presente, più parte della tua vita. Le formiche vengono loro a trovarti; e non una sola naturalmente, no, ti ritrovi le processioni con stazione di arrivo e partenza nella tua scatola dello zucchero. Non dimenticarti una goccia di caffè o latte zuccherati nel lavandino, poiché avrai il lavandino con un raduno oceanico di elementi neri o rossicci. Di notte poi devi fare l’abitudine allo scricchiolio causato dagli scarafaggi, che, con tutto il ben di dio di vegetazione che c’è la fuori devono venire a mangiare qualche tuo rifiuto nella pattumiera. In casa ti abitui presto anche alla onnipresenza dei gechi, che, a parte qualche innocua deiezione, fanno da guardiani contro zanzare e ragni; di ragni ne vedi pochi in Africa. Fuori in giardino, dopo i primi soprassalti nel vedere le foglie delle siepi muoversi, impari presto che i serpenti non sono ospiti del giorno ma della notte; quei rumori sono causati da lenti e sfaccendati lucertoloni che, impavidi, ti passeggiano accanto mostrandoti le loro creste e sfoderando i loro colori verdi, blu e gialli. E a proposito di lucertoloni, in Burwli, ve ne è un tipo, decisamente grosso, lungo quasi un metro, chiamato lizard, puntato e ucciso dai locali non per timore ma perché pare essere squisito nel piatto. Sempre là fuori, protetti da qualche blocco di cemento o da qualche fogliame vecchio e umido, vi sono gli scorpioni; non sono tanto orripilanti né grossi, quelli Africani; anzi, sono perfino spelacchiati; te li ritrovi anche in casa a volte. Impari a convivere e a mirarli con la ciabatta, dopo aver accuratamente evitato il loro pungiglione sul terminale della coda.

    Quando mordono non sono mortali, ma causano un bel dolore. Poiché la medicina classica non ha escogitato grandi rimedi contro il bacetto dello scorpione, in una delle mie ricerche di soluzioni, trovai una cosa chiamata pietra nera da applicare sui morsi velenosi. Veniva venduta da una congregazione di missionari belgi. Ne appresi la tecnica per prepararla e cominciai ad usarla con un certo successo. Non era una cosa di magia, ma semplicemente era un pezzo di osso di grosso animale, carbonizzato con una certa tecnica, che veniva applicato e, con la sua porosità, riusciva a succhiare il veleno.

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