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Io Capobranco Nel Mirino Della Mafia
Io Capobranco Nel Mirino Della Mafia
Io Capobranco Nel Mirino Della Mafia
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Io Capobranco Nel Mirino Della Mafia

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About this ebook

Romanzo fra realtà irreali e fantasie reali. Il racconto si svolge nell’entroterra marchigiano nell’alta Valfoglia e Valmetauro, in provincia di Pesaro, ai confini con la Toscana. Si dice che spesso la realtà superi la fantasia. Quando invece si vive una vita semplice, fatta di piccole cose, dove le priorità sono famiglia, lavoro, casa, diciamo quel vivere terra-terra, non sempre è così. In questi casi può succedere di vivere la fantasia oltre la realtà delle cose semplici cui sei sottoposto. Trovo naturale il desiderio di vivere e di fare parte, noi animali con il mondo di tutte le creature viventi della nostra stessa natura. Io mi rapporto, nonostante tutto e con tutto ciò, solo nella prima parte del racconto. La seconda parte è incentrata alla ricerca ossessiva della verità dopo un delitto. Un delitto, maturato in menti sottili e distorte dove la vita degli altri non ha nessun valore, che si lascerà dietro una scia di sangue e morti nel mondo della mala e delle forze dell’ordine. Nell’alternarsi dei fatti, spunta una breve ma intensa storia d’amore fra due cuori emarginati e soli. La storia d’amore s’interromperà e riprenderà, mentre gli anni scivoleranno via chiudendo una parentesi di vita. Un anomalo rapimento richiederà l’aiuto di un branco di lupi, riportandolo alla ribalta, sull’altopiano della Sila nell’Aspromonte. Si aprirà una nuova visione della realtà, di gioia e di dolore. Il tutto sfocerà in…
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateAug 13, 2014
ISBN9788891153753
Io Capobranco Nel Mirino Della Mafia

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    Io Capobranco Nel Mirino Della Mafia - Virginio Giovagnoli

    Giovagnoli

    NUOVE CONOSCENZE

    Un posto tranquillo. Un paesino dell’entroterra marchigiano, nell’alta Valfoglia, in provincia di Pesaro, ai confini con la Toscana. Un palazzo edificato lungo la provinciale, a poco più di venti metri di distanza dalla strada, abitato da una decina di famiglie. Il fiume che scorre sul retro rompe la monotonia del paesaggio. Mi sembrava che un appartamento fosse ancora sfitto o non venduto. Infatti, i primi di agosto del 1986, si fermò un grosso camion con sopra la scritta: traslochi. La targa non me la ricordo, non sono riuscito a vederla bene.

    Chissà, forse avremo nuovi vicini, nuova compagnia, pensai, e questo mi faceva molto piacere.

    Dalla macchina che precedeva il mezzo scesero tre persone: una ragazza sui sedici, diciott’anni al massimo, un signore e una signora presumibilmente i genitori, che fu la prima e ultima volta che vidi, e solo di sfuggita.

    Bene, dissi a mia figlia, avrai la possibilità di fare una nuova amicizia, l’appartamento vuoto è stato occupato, non so se in affitto o venduto, comunque oggi ci è venuta ad abitare una famiglia. Presumo ne faccia parte anche la giovane che era con loro. Ho visto che scaricavano il mobilio, sembrava nuovo, dunque dovrebbero fermarsi per un po’ di tempo.

    Per qualche giorno la nostra conoscenza si limitò al buon giorno e buona sera, ed esclusivamente con la ragazza, perchè i genitori non uscivano mai di casa. Le voci del si dice o del si pensa chi mai fossero, nel paese e nel condominio erano all’ordine del giorno. Dopo circa un mese s’intensificarono visite di gente forestiera con i nuovi arrivati. Ricordo di aver visto la ragazza, una volta, parlottare fitto fitto, con un giovane. La conversazione sembrava concitata, forse era solo apparenza, da lontano non riuscivo a leggere bene la mimica dei loro volti. C’era qualche cosa di indefinto nel loro modo di gesticolare, non saprei dire cosa, ma c’era. Il giovane aveva un viso che mi ricordava qualcuno, ma chi fosse non riuscivo a riportarlo alla mente, forse, dico forse, era l’autista del mezzo dei traslochi. Si parlava e si diceva che fossero amici o parenti, chissà! Il continuo andirivieni certamente m’incuriosiva, ma non più di tanto. Macchine lussuose e di grossa cilindrata arrivavano e ripartivano ogni giorno. Nel paese si cominciava a mormorare sempre di più. Serpeggiavano i sospetti che fossero delle persone colluse con la mafia, con la ‘ndrangheta o quant’altro di più potevano le malelingue. Il mio pensiero era che fosse gente benestante, forse un po' strana, anche troppo riservata, e i curiosi questo non lo sopportano. La ragazza era davvero molto bella: bionda, occhi azzurri, sembrava, nel mio immaginario, una vichinga. Quando salutava o rispondeva al saluto sorrideva, sempre, non lasciando trasparire altro che gioia di vita. Un pomeriggio dell’ultima decade di settembre, il ventuno o ventidue, non ricordo il giorno preciso, mi trovavo vicino la mia fontana. Fili d’acqua scendevano piano piano, pareva una cascata di capelli. Assorto a osservare, in mille sfuggenti pensieri, mi rilassavo la mente. Lo strombazzare di un’auto mi risvegliò dall’assopimento, alzando gli occhi notai che era nera e con vetri oscurati. A dire la verità non seppi riconoscerne la marca, era una gran bella macchina, specialmente se la raffrontavo alla mia vecchia cinquecento, mi pareva fosse una mercedes nuova fiammante, però non potrei giurarlo. Da quell’auto scese un giovane sui trent’anni, moro, scuro di carnagione, abbastanza alto, ben piazzato. Fu fatto entrare in casa, e per un’ora circa non si sentì che il silenzio assoluto. Improvvisamente giunse un vociare concitato con toni sempre più alti, quasi esasperati. Il giovane entrato poco prima uscì sbattendo la porta e gridando in un dialetto che cercherò di riassumere e tradurre come a me sembrò di avere capito: Vedremo, non credere o non crediate che sia finita qui, io sono uno che non accetta dei no, dovresti o dovreste saperlo!.

    Non capivo bene se si stesse riferendo a tutti all’interno dell’abitazione o in particolare a una sola persona, a ogni modo, continuò sempre più alterato dicendo: Io ottengo sempre, tutto, quello che voglio, ricordatevelo o ricordalo!.

    Alla fine mi parve più probabile che si riferisse a un membro della famiglia. Salì in macchina e sgommò via. Ripensandoci non doveva essere solo perché non salì dalla parte da dove era sceso, cioè dalla parte della guida. Non riuscii a vedere quante persone c’erano dentro in quanto, come già detto, i vetri erano oscurati. Per una settimana circa, da quella casa, non uscì più nessuno, porte chiuse, serrande abbassate, dava l’impressione che fossero partiti tutti. Una domenica mattina incontrai, nuovamente, la giovane, incrociandola sul marciapiede della strada, mentre tornavo dal bar. Credo si stesse recando a messa. Non ne conoscevo il nome. La vidi distratta, assente e scura in volto. La salutai con un caloroso buon giorno. Non rispose, non si accorse nemmeno di me. Mi girai e la seguii con lo sguardo, solo per qualche attimo, mentre continuava a camminare con passo lento, stanco, sembrava inebetita.

    Forse, pensai, sono pene d’amore, a quell’età è facile prendersi delle brutte influenze del genere.

    A ogni modo qualche cosa era accaduta, e certamente riguardava anche e soprattutto lei, ma non saprei cosa dire.

    Quella sera avevo fatto più tardi di quanto mi aspettassi. Era il primo di ottobre, giorno di apertura per la ricerca del pregiato tubero, il tartufo bianco. Una giornata calda, ancora leggermente afosa. La camicia era impregnata di sudore. Delle radici intrecciate di una quercia mi avevano fatto perdere un sacco di tempo per estrarne uno. Una giornata lunga. Una bella scarpinata di sette ore, come primo giorno, non era poco. Il fresco e l’umidità cominciavano a farsi sentire. Mosca, la mia compagna a quattro zampe, nera come il carbone, mi precedeva incurante del buio. Io sbattevo la pila in continuazione, lungo il sentiero nel bosco che da Casarello, porta a Serra Mezzana, per scendere poi a Villa Agostino fino alla comunale per il rientro a casa. Spesso mi succedeva di dover scendere nuovamente giù nel fossato perché grossi cani pastori maremmani sembrava mi aspettassero al varco, poco lontani dalla casa, anche se mi conoscevano bene. La mia prudenza era dovuta alla loro diffidenza. Così anche quella sera allungai la strada scendendo nel fossato. La luce si accendeva e si spegneva a ogni piccolo movimento, cosicché, spesso dovevo fermarmi per vedere dove mettevo i piedi, e ripararmi gli occhi dai rami e dai rovi, in quella discesa ripida. La linguetta della pila non faceva più contatto con la batteria, ma con il buio mi era impossibile sistemarla. La macchina era ancora lontana, parcheggiata giù, in una rientranza della strada, sulla comunale. Finalmente la vedo, qualche decina di metri e via verso casa. Non vedevo l’ora di sedermi, ero stanco. Una gomma a terra. Già! Quando si dice la ‘fortuna’. Nonostante tutto ero contento. Cambiai la gomma non senza imprecare né mandare accidenti, ben convinto come ero che non si trattasse di un semplice incidente, ma di una cosa voluta. Mi tolsi il giacchetto, la camicia e la canottiera madide di sudore, e mi misi il mio bel piumino felpato, asciutto e caldo. Le tasche traboccavano di tartufi gialli come pannocchie mature, non mi capitava spesso. Prima di arrivare a casa mi fermai per la vendita come facevo sempre negli anni precedenti. Una giornata fruttuosa. Non vedevo l’ora di far vedere a mia moglie, tutto quel denaro, cinquecento e rotte mila lire, quasi un mezzo stipendio, una bella comodità con tre figli di cui una, il prossimo anno, avrebbe fatto la maturità e poi via all’università. Come potrei dimenticare quella sera che rivivo, negli anni, come un incubo, ogni santo giorno. Fermai la macchina sulla piazzola vicino a casa, e scesi per recarmi ad aprire il garage. Fra una cosa e l’altra avevo fatto le otto di sera, non mi era mai accaduto. Si fece tutt’intorno a me gente concitata. Si trovavano sul posto anche due pattuglie di carabinieri e mezzi di servizio con lampeggianti. Il primo pensiero andò ai miei famigliari. Sta a vedere che è accaduto qualche cosa di grave a qualcuno di loro, bisbigliai con apprensione.

    Improvvisamente una voce gridò: È lui! È lui!.

    Mi girai per guardare, dietro non c’era nessuno, solo piante di acacia. Feci un segno istintivo con la mano come per dire: ma che diamine succede, con chi ce l'ha, non ce l’avrà con me.

    È lui! È lui!. Continuava a gridare un giovanottone, sui trenta trentacinque anni, che avvicinandosi sempre di più e trovandosi ormai a pochi metri da me, m’indicava con l’indice, sebbene non l’avessi mai visto prima di quel momento. Un carabiniere mi venne incontro, mi sembrava di averlo visto altre volte, e che fosse un brigadiere in servizio nella vicina caserma. Mi si avvicinò, estrasse la pistola è mi intimò di alzare le mani, così, come se fosse stata la cosa più naturale del mondo…per lui.

    Metta giù quell’arma!.

    Arma! Quale arma, scusi? Guardi, guardi pure, vede, non ho nessuna arma, questo è il vanghino per cavare i tartufi, piuttosto, mi vuole spiegare cosa sta succedendo, io torno adesso dalle undici di questa mattina, sono molto stanco, avrei bisogno di fare una doccia, subito. Alzi le mani e stia fermo, le spiegazioni di quello che deve e vuole fare le darà in caserma.

    Ma, cos’è diventato matto?, risposi piuttosto scocciato. Prima di tutto dovrà spiegarmi perché devo venire in caserma altrimenti di qui non mi muovo!.

    Non le dobbiamo nessuna spiegazione, per quello che ha combinato. Si vergogni!.

    Senta, io non ho combinato proprio un bel niente e non mi devo vergognare assolutamente di nulla, e se lei non mi da delle spiegazioni io di qui, come le ho già detto, non mi muovo.

    Il mio cane ringhiò, verso di lui, a più riprese. Non lo avesse mai fatto. Il brigadiere puntò l’arma contro la povera bestia, poi alzò il tiro e sparò un colpo in aria che echeggiò nella notte, come un tuono, rintronandomi nelle orecchie fino al cervello. Il cane fece una strategica ritirata rintanandosi nella cuccia che si trovava a una ventina di metri.

    Accidenti! Chissà dov’è andato a finire tutto il suo coraggio, dissi fra me e me.

    Giacché il carabiniere non desisteva dal suo arrogante e malo modo, cercai di non reagire frenando i miei bollenti spiriti. Al momento, mi parve che la cosa migliore fosse non perdere la calma, anche se, francamente, mi rimaneva un po’ difficile.

    Dissi a me stesso: Rilassati, cerca di contare fino a dieci, altrimenti qui finisce male, questo è fuori di testa.

    Il brigadiere continuava ad apostrofarmi con parole e frasi sempre più ingiuriose. Io cominciavo a sentirmi ribollire il sangue, nonostante i miei buoni propositi.

    Senta, sono stanco, non ho voglia di discutere, mi dica, cosa cavolo vuole da me? Accidentaccio!.

    Le ho già detto che deve alzare le mani e stare fermo.

    Le ripeto, sono molto stanco e non ho nessuna voglia di alzare le mani, è tutta la giornata che le alzo e le abbasso. Veda di spiegarmi cosa succede, o mi lasci in pace, per piacere.

    M’incamminai per entrare in casa. Puntò di nuovo l’arma e questa volta contro di me.

    Questo è davvero matto, pensai.

    Mi prese il panico. Il mio ego andò in confusione. Non sapevo più discernere la realtà dalla fantasia. Si formò, attorno, un groviglio di gente che mi stava fissando giudicandomi non so per cosa, ma certamente qualche cosa di poco bello era successa, e secondo loro il responsabile avrei dovuto essere io. Ancora quella voce che gridava: Assassino! Assassino! Macellaio!.

    Assassino a me che sono andato a finire in un fossetto per evitare di travolgere un gattino, è il colmo!.

    La paura non mi fece ragionare. Cominciai ad agitarmi. Avevo ancora le chiavi in mano, salii in macchina e scappai ritornando da dove ero venuto. Penso che il brigadiere non sparò, perché non poteva, essendoci un sacco di curiosi tutt’intorno, ma per come aveva reagito al ringhio del cane me lo sarei aspettato. Comunque avesse fatto, io non sentivo più nulla, e non mi sarei fermato per tutto l’oro del mondo.

    LA FUGA

    Durante il percorso rischiai più volte di finire nella scarpata, dentro un fossetto di scolo delle acque. Credo che un paracarro abbia lasciato il segno sulla carrozzeria della cinquecento. Un alberello, a un centinaio di metri più avanti del campo sportivo di Monterone, era pronto che mi aspettava, pietoso, fermando la mia corsa. Non ci feci caso più di tanto. Scesi, passai il fossato a sinistra della strada, e m’inoltrai nel campo arato, correndo come un pazzo nel buio, senza guardare devo mettevo i piedi. Le zolle erano dure come sassi, e a ogni passo mi segnavano le gambe nonostante i pantaloni. Caddi e mi rialzai più volte, fortunatamente avevo le mani protette da un paio di grossi guanti di pelle o qualche cosa del genere. Arrivai tutto trafelato ai margini del bosco. Mi fermai un attimo per riprendere fiato. Mi girai indietro per vedere se m’inseguivano. Vagai, nascondendomi al chiarore della luna, lungo il fosso sotto Villa Agostino. A ogni rumore o piccolo fruscio sobbalzavo spostandomi istintivamente. Non sapevo se, ancora, mi stavano seguendo. Ogni tanto mi fermavo e ascoltavo, silenzio assoluto. L’agitazione mi divorava dentro. Sogno, realtà, non capivo cosa mi stesse accadendo. Rovi mi marchiavano il viso. Il dolore mi riportava alla dura realtà. Il verso di un animale notturno mi depresse completamente. Non credevo ai presagi lugubri della civetta, ma…accidenti peggio di così non poteva andare di certo. Non sapevo più neanche a cosa stessi pensando. Dovevo nascondermi. Dovevo riposare, già riposare. Dormire, almeno un’oretta. Quando si dice la combinazione, proprio quella notte avevo dormito pochissimo con l’ansia della partenza. Dopo tanti mesi iniziavo, nuovamente, la cerca del prezioso tubero. Nonostante sapessi, già, che sarei partito nella mattinata inoltrata, non riuscii a chiudere occhio. Come avrei potuto dormire ora, me lo stavo chiedendo. Quelle parole risuonavano nella mente martellandomi il cervello: Assassino, assassino, macellaio. Parole, nella semplicità della mia vita, inconcepibili. Come e quando avrei potuto uccidere? Ero partito verso le undici. Una bella giornata per il mese di ottobre. Mia moglie mi aveva preparato un panino con insalata, pomodoro e maionese, uno con prosciutto e formaggio, un quadretto di cioccolato fondente, due mandarini, una mela, una borraccia di acqua con succo di limone dentro, e via. Era tanta roba, ma considerando che mi doveva servire come pranzo e a volte anche come cena, non era poi tanta. Spesso ritornavo così stanco che sdraiandomi sul letto mi addormentavo per risvegliarmi, poi, a notte fonda. Fermarmi a mangiare lungo un ruscello, seduto su qualche tronco di albero caduto o su di un masso, era il massimo della serenità. Ogni giorno, quando il tempo lo permetteva, verso le tredici, mi riposavo per una mezz’ora divorandomi i due panini. Il cane mi si sdraiava vicino aspettando che gli dessi qualche cosa, come, del resto, facevo sempre. Dopo, una sigaretta e di nuovo alla cerca. Tutto ciò che mi rimaneva lo gustavo piano piano, camminando. Solo ora che lo sto raccontando, posso dire che da quella brutta sera non fumo più, ma quanto avrei preferito continuare a fumare.’

    Forse sto sognando, pensai.

    Mi stropicciai gli occhi. Non ricordavo di essere ritornato a casa prima di sera ed essere quindi ripartito.

    Ma no, ma no, non sono mica sonnambulo, e poi i sonnambuli girano di notte, possibilmente da una stanza all’altra, non vagano per boschi. Chi sarà stato ucciso? Perchè? Come? Quando? Di pomeriggio o di sera? Se quel testimone mi aveva visto, doveva essere di giorno per riconoscermi con tanta sicurezza, a meno di non avere gli occhi di un gatto, o come probabilmente credo, si sia sbagliato con un’altra persona. Ma certo, mi ha confuso con qualche altro. Cosa sto dicendo? Cosa sto pensando? Sono forse impazzito?.

    Domande, domande e ancora domande senza risposta. Chi, mai, avrebbe potuto darmi delle risposte. Chi? Chi?

    Se non stavo impazzendo, poco ci mancava. Cercai di rialzarmi per riprendere il cammino. Mi sentivo addosso un peso, come se trasportassi uno zaino pieno di pietre. I piedi sembravano aver messo radici. Dovevo a ogni costo farmi forza e ripartire.

    Dove posso andare, mi ripetevo in continuazione. Se mi nascondo lì, nell’intrico, di quel boschetto… ora sembra inaccessibile perché è buio, ma appena si fa giorno è tutta un’altra cosa, mi vedono, se poi portano dei cani è finita. Se vado sul quel vecchio casolare a Serra Mezzana, rischio di rimanere in mezzo alle macerie, infatti, ogni tanto, cade un pezzetto di muro, e nella restante parte buona con ogni probabilità potrebbero esserci le pecore con i cani. Potrei andare dall’altra parte della vallata, fino a ca’ La Gaggia, ma per arrivarci è davvero una bella sfacchinata e le mie condizioni, al momento, non sono delle migliori. Le mie gambe risentono ancora dello sforzo fatto nella giornata, meglio cercare un buon nascondiglio, anche se disagiato, in questa vallata, magari nascosto in qualche casa disabitata di Campo. Passando nel bosco e lungo il fosso dovrei arrivarci in poco tempo.

    Mentre stavo facendo tutte queste congetture, la nebbia stava scendendo lentamente. Quando arrivai alla Piana di Campo, la cosiddetta sala da ballo, scesi nel fossato che porta alle Ville, almeno così credevo, ma c’era qualcosa che mi sfuggiva. Io conoscevo ogni piccolo anfratto, fosso, stradino come le mie tasche, così sparii in un attimo passando per i tratti più oscuri e nascosti anche se ormai la nebbia aveva divorato tutto. Dopo la stanchezza della cerca un’altra fatica immane. Ormai non sentivo più nessun rumore, nessuna voce. Mi sedetti, avvilito e depresso, sotto delle piante per ripararmi un poco dall’umidità della guazza che nella notte, senza accorgermene, mi sarebbe penetrata nelle ossa. Descrivere, oggi, lo stato d’animo di quel momento è impossibile: non riesco a trovare le parole adatte. Spossato, mi lasciai andare appoggiando la schiena a un albero. Quanta voglia di piangere, ma pensai che non fosse il momento. Per un po’ non riuscii a capire dove fossi finito. Per dispetto anche la luna se l’era svignata. Con tutta quell’oscurità, la nebbia e l’agitazione, avevo preso a sinistra, ero finito nel fosso che porta su a Piand’Olivo, ed ero arrivato, addirittura, oltre il Colcello dei Mochi.

    Accidenti a me, dissi, ora cosa faccio è buio pesto, oltretutto questa maledetta nebbia mi sta facendo la doccia. Accesi la pila, ma la visibilità era poco più di un metro, sembrava che sui miei occhi fossero scese le cataratte, vedevo tutto appannato. Dovevo tornare a casa, volevo sapere cosa veramente fosse accaduto. La stanchezza ebbe il sopravvento. Mi risvegliai verso le tre, le tre e qualche minuto, ancora notte fonda. Mi stiracchiai un po’. Le ossa scricchiolarono come se avessero perduta e ricercassero la loro forma naturale. Tutte le congetture fatte, qualche ora prima, andarono a farsi friggere. Dovevo allontanarmi dalle zone che frequentavo di solito, era lì che sarebbero venuti a cercarmi appena si fosse fatto giorno. Camminai, ancora, per quasi due ore, fino a ritrovarmi lontano da quel bosco che amavo così tanto, e che in quel momento di così grande difficoltà, forse, era l’unico a capire e cercava di proteggermi. Mi rifugiai, ancora per un’oretta, in un vecchio casolare abbandonato, dall’aspetto abbastanza rassicurante, situato vicino a dei piccoli laghi, sotto il comune di Sant’Angelo in Vado. Mi guardai intorno e ripresi a camminare salendo fino ad arrivare nuovamente alla strada che mi riportava a San Martino. Il cervello non riusciva più a dare comandi: ero come inebetito, uno zombi. Guardai le lancette fosforescenti dell’orologio, mancavano pochi minuti alle sei, buio pesto. Il sole sembrava essersi presa una vacanza. Pareva fosse passata un’eternità dall’ora della mia fuga. Mi misi la testa fra le mani e cercai di riflettere.

    Perché mi aveva chiamato assassino? Dunque, qualcuno o qualcuna, secondo quella persona, era stato ucciso da me. Accidenti! Ma chi? Che significato aveva la parola macellaio? Doveva trattarsi certamente di un omicidio orrendo.

    Riuscivo nuovamente a connettere qualche pensiero.

    Ma no, non potevo essere io, vedrai che domattina mi cercheranno e tutto si chiarirà, anzi, spero, mi chiedano scusa, mi ripetevo dopo ogni riflessione.

    No! No! Devo andare ancora più lontano. E via a scendere lungo scoscesi pendii senza nessun timore. A un tratto scivolai giù, dentro un anfratto nascosto da rovi difficile da individuare nell’oscurità. Ancora segni di spine, ma non me ne preoccupavo minimamente più, ero diventato insensibile al dolore. Il cervello continuava lo sciopero, non aveva ancora ripreso a mandare ordini alle membra. Le gambe andavano per conto loro, automaticamente. I pantaloni, bagnati, erano a brandelli, e del sangue colava giù dalle gambe per le diverse ferite che mi ero procurato. Una decina di metri più lontano risalendo il pendio, scorreva un ruscello, ne sentivo il rumore ma difficile da vedere data la folta vegetazione. Mi ricordai di quel posto. Tempo addietro ero venuto a cercarci dei funghi con un amico, e poco distante mi pareva di ricordare ci fossero delle carbonaie. Era la strada che mi riportava a San Martino.

    Forse, mi dissi, non sono andato così lontano come credevo o perlomeno come speravo.

    Camminare di notte con tutta quell’agitazione addosso non mi aveva aiutato. Sicuramente avevo fatto un’inversione a u ed ero tornato sulla strada che mi riportava nella vallata da cui ero partito o abbastanza

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