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Il cielo e il fango
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Il cielo e il fango

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Il cielo e il fango è il tracciato di una via di fuga, non “da”, ma “verso” qualcosa o Qualcuno. Una fuga non priva di sofferenze, ma la posta in gioco è alta, è la comprensione del mistero non della vita, ma della propria vita.
Umberto, il protagonista di questo “quasi romanzo”, che segue e completa il precedente Andrai e tornerai, a quarant’anni lascia il saio di frate francescano perché si accorge di vivere impastoiato dai dettami evangelici. Penitenza, ascesi, mortificazione, purezza non hanno valore, se non se ne conosce il libero uso.
Lasciare il mondo protetto del convento, significa dover imparare a vivere e, molto prosaicamente, anche imparare a guadagnarsi da vivere, magari facendo il venditore porta a porta di enciclopedie o il rappresentante di occhiali, ma tutto questo, benché difficile e sovente frustrante, è sempre meglio che continuare a camuffarsi con una tonaca marrone che non ci si sente più di portare.
Seguire i binari tracciati da altri, lasciarsi andare, è il modo migliore per perdersi; per Umberto, rimanere francescano e sacerdote avrebbe significato semplicemente consegnarsi al disprezzo di se stesso. Meglio, dunque, avere il coraggio di dubitare, di mettersi in una posizione di ricerca, guardarsi impietosi, mettersi a nudo attraverso l’analisi o anche attraverso la scrittura. Allora, il dubbio diventa risorsa.
Il messaggio che ci lascia Umberto è che, a volte, il fatto che Dio si nasconda ai nostri occhi è una grazia. Ci costringe a non cercare Lui, ma noi stessi. Ritrovandoci, Lo troveremo.
O, comunque, possiamo coltivare questa speranza.
LanguageItaliano
Release dateMar 23, 2013
ISBN9788866901310
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    Il cielo e il fango - Umberto Castagna

    pagine.

    C’È POCO DA NASCONDERE

    Sono rimasto senza soldi le dissi.

    Quella volta non ero sul lettino dell’analisi. Del resto, parlandole delle mie tasche vuote, non le offrivo un’associazione liberamente scaturita dal profondo della coscienza – come lei mi aveva insegnato con le sue preziose domande (preziose perché rare) e più con le sue attese e i suoi silenzi – ma un dato di fatto squallido e concreto. Cosa c’è di più squallido e concreto del: sono rimasto senza soldi?

    Era, quello, il pomeriggio di un giorno qualunque della primavera 1970, ai Parioli, il quartiere elegante della Roma dei ricchi, e io ero nello studio della donna alla quale da un anno avevo affidato gli intricati viluppi di quella contorta faccenda che si era rivelata la mia vita. Per una volta, entrato nello studio soffuso di luce discreta, non mi ero coricato sul lettino, ma mi ero seduto subito di fronte a lei, davanti alla sua elegante scrivania di mogano, perché – le avevo detto – mi sembrava corretto anticiparle una comunicazione.

    Ma la signora – capii subito – si aspettava una confidenza del genere. Di me del resto conosceva tutto, le ore di sonno e i sogni che le popolavano, le mie inquietudini e i miei progetti e le mie fantasie (anche quelle tali fantasie, sì), il mio passato e quindi, forse, immagino, perché no?, anche il mio futuro. Sapeva perfino, date le note angosce e l’incipiente ulcera gastrica, se digerivo bene. E sapeva dell’abbandono.

    Il 1970 si presentava infatti come l’anno degli abbandoni.

    Io abbandonavo la vita religiosa, il convento, la cella, forse anche Dio (ancora non mi era chiaro), e assumevo l’abito mentale di colui che abbandona qualcuno o qualcosa. Invece ero io ad essere abbandonato, anzitutto da una società tutelare e protettiva, che intanto, fino ad allora, mi aveva pagato l’analisi. D’ora in poi, caro ex, niente soldi, neppure per il pane quotidiano, figurarsi per l’analisi! Stavo inghiottendo questo primo fondamentale abbandono, ma non ero a sufficienza pronto per l’altro che legittimamente ne conseguiva.

    L’impenetrabile signora mi guarda, di là dalla sua bella scrivania, col sorriso sulle labbra, dalle quali scorrono facili e poco consolanti parole come queste: lei sapeva. Del resto questa era una condizione irrinunciabile. Il costo dell’analisi è parte integrante dell’analisi stessa. Se non mi attenessi a questa precisa regola. Non devo essere io ad insegnarle che. E così via.

    Mi sembrava quasi che sottintendesse: ma perché ha lasciato adesso il convento? L’analisi non è finita. Lei è ancora in piena evoluzione psicologica. Nel mio disorientamento leggevo queste parole sulle sue labbra. Cosicché pensavo: cavolo, signora. Mi scusi, signora. Ma non era lei a dirmi io la considero un uomo normale che sta cercando se stesso e che ha diritto di fare delle esperienze per trovarsi e trovare la sua via? Sì, Umberto, (mi rispondeva nel mio pensiero, e com’era dolce il mio nome sulla sua bocca che immaginavo profumata), è così, lei deve trovarsi, deve trovare la sua via, forse l’ha già trovata, ora deve trovare i soldi per continuare l’analisi. Il senso è questo, sempre nel mio angosciato cogitare, ma la conosco così bene ormai che perfino nella mia immaginazione come sono attente le sue parole a non colpirmi brutalmente!

    Dunque, abbandono numero tre. 1°) io abbandono la vita religiosa, 2°) la Chiesa abbandona me, 3°) la dottoressa abbandona il paziente.

    No. In realtà non era così. Lei stava dicendo infatti, con quel suo tono di voce tranquillizzante e con quel sorriso che non era un sorriso stereotipato, era un sorriso per me, era il sorriso della mia amica di quest’anno di accidentati percorsi nella mia anima, lei mi stava dicendo: troveremo un modo, glielo assicuro, lo troveremo (sembrava pensare lì per lì a un escamotage, ma ci aveva pensato da tempo), vediamo, potrebbe sostituire l’analisi individuale, vediamo, per esempio, con l’analisi di gruppo. Lei è già molto avanti nel dominio di sé… Sarà un’altra esperienza importante… E costerà meno, stia tranquillo. E io mica la abbandono.

    Il cielo era ancora grigioazzurro, quando un po’ frastornato arrivai al Bar delle Muse e mi affacciai al parapetto sull’Acqua Acetosa. Un anno – pensavo guardando i prati degli impianti sportivi che lentamente stemperavano il loro verde brillante nel grigio della sera – era passato un anno dal pomeriggio in cui mi ero affacciato, pieno di nodi da sciogliere, a quel parapetto. Ma il mio cuore adesso era pacificato… quasi pacificato insomma, molti garbugli dissolti… molti, non tutti però, e a quei tempi (lontani! come mi appaiono lontani adesso!) un altro abbandono simile, con quello che di irrisolto mi portavo dentro, mi avrebbe distrutto. Lontano era il giorno in cui solo un cagnolino senza padrone, mettendosi tra la mia Cinquecento e il possente pino contro cui mi ero lanciato, mi aveva salvato dal farla finita. A pensarci bene, la signora sapeva che ero pronto. Quasi pronto.

    Sono una persona ragionevole, e già da alcuni mesi, infatti, nella saletta di lettura del pensionato francescano di Trastevere dove consumavo gli ultimi giorni della mia vita di frate, scorrevo con finto disinteresse le Offerte di lavoro del Tempo e del Messaggero, (sottolinea qui, un asterisco là, aspetta questa non è da buttar via) nascondendo abilmente le pagine, il cuore in tumulto, appena l’ombra di un qualsiasi curioso si proiettava nei miei paraggi.

    Cos’è? – mi veniva di chiedere con fastidio – vi stupite? un uomo non può cercare lavoro?

    Un uomo sì, ma un frate no. Basta, riconoscilo, è imbarazzante che un frate cerchi lavoro, un frate il lavoro ce l’ha già, che è salvare le anime.

    Ma quando cerca di salvare se stesso?

    E intanto, scorrendo i quotidiani, scoprivo colonne di Offerte di lavoro. Come poteva non esserci il lavoro, un lavoro anche per me, in tanta abbondanza di offerta. Io mi guardavo bene dal far inserire tra le altre colonne, quelle delle Domande di lavoro, qualcosa che avrebbe dovuto suonare più o meno così: Quarantenne bella presenza, colto… Ma sei pazzo, quarantenne, chi te lo dà il lavoro? Ti pare che aspettino te? Approfitta della tua faccia pulita di trentenne, elimina il colto, metti al più buona cultura, e poi cosa chiederesti, per cosa ti proporresti, per insegnare il catechismo? Dunque ti va bene quest’offerta: Società Assicuratrice nazionale cerca ambosessi disinvolti, di parola facile, per inserirli nel loro staff di procuratori di affari, ottime prospettive di carriera, compensi adeguati. Ci provo ci provo ci provo. Ci provo! Ce l’ho la parola facile, anche la bella presenza, non so come si faccia a procurare affari, me lo diranno, imparo presto, io.

    Ma quante ce ne sono di società assicuratrici nazionali che cercano elementi? Le contavo, una, due, tre, Madonna quante sono, ma tutti assicurano tutto? E io con quale ci provo? L’occhio scorreva sulle colonne di piombo che offrivano oro, non mancavano neppure Case Editrici che cercavano ambosessi (sempre disinvolti, parola facile, prospettive di carriera, eccetera) per presentare assoluta novità nel campo editoriale, ma le assolute novità per ambosessi sono tante in tanti campi (nulla sfuggiva all’occhio allenato a leggere i versetti della Bibbia e delle Concordanze… ma è passato un secolo o era ieri?) e bisognava assolutamente che andassi a vedere di che si trattava, non si sa mai, qui si parlava di tutelare imprevidenti famiglie dalle fughe di gas, là di insegnare nuove tecniche di apprendimento ad aspiranti poliglotti… Dovevo anche appurare se rientravo tra gli ambosessi, a quel punto non ero più sicuro di niente.

    Fermo lì. Case editrici. Questo era il mio campo. Enciclopedie. Meglio.

    Per cosa mi sarei proposto? Lettore di manoscritti, bibliotecario, correttore di bozze, addetto allo spolvero degli scaffali, avrei fatto qualsiasi cosa pur di respirare l’odore dei libri, Signore dammi una mano, sì, sii buono, io non sono stato proprio cattivo cattivo, ho perso la bussola, non ci capivo più niente. Taci, buffone – mi redarguiva il demonietto raziocinante che ha preso dimora in me da qualche tempo – l’iniziativa è tua, sii uomo, devi cavartela da te, faber est suae quisque fortunae, chi lo diceva? il passo stai per farlo tu, e mica mi sembra che per levarti la tonaca abbia chiesto consigli a Lui, mica sai se Lui è d’accordo. Niente occhi al cielo. Gli occhi a terra, anzi nel fango. E tira dritto, cavolo.

    Proverò con le case editrici – mi dicevo – ostenterò tutta la mia esperienza pregressa, i miei anni di insegnamento, i libri che ho scritto! Certamente, insegnare sarebbe meglio, ci so fare, è tanta parte della mia vita. Ma a quale titolo? Fu un istituto pontificio a laurearmi, sai che gliene frega allo stato italiano. E a quarant’anni ti presenteresti nudo e crudo a un concorso, senza punti di merito? Non è previsto, io non lo prevedevo, ma non lo ha previsto nessuno, neppure coloro che tutto dovevano prevedere, perché un frate, un prete, non è legittimato ad altro che ad essere frate o prete. Per la vita e oltre. Va’, profugo, anzi va, extracomunitario. Assicurati piuttosto di possedere ancora la cittadinanza italiana.

    Ed eccomi: ero in uno studio della presidenza della Grande Enciclopedia, mica mi butto sul poco, io! Mi guardai intorno. Più che uno studio era un salotto, il legno di cui erano rivestite le pareti e i tappeti sui quali camminavano attutivano le voci e i passi, la scrivania d’angolo e gli imponenti volumi che mi guardavano con sufficienza dietro i vetri di massicce librerie accentuavano la sensazione di essere ricevuto in un Olimpo dove dimoravano divinità del sapere e della poesia, le parole che vi alitavano galleggiavano nell’aria come sentenze di antichi saggi.

    Il funzionario che mi riceve mi accoglie con i modi cortesi del gentiluomo, mi ascolta con deferente attenzione, io gli parlo col cuore in mano, ho capito che c’è poco da nascondere, e il mio passato viene rapidamente offerto a questo sconosciuto signore che deve valutarlo e forse dare alla mia vita una svolta all’altezza dei grandi sogni che alimentarono la mia gioventù.

    Ma ve ne siete accorti? Ho appena scritto: ho capito che c’è poco da nascondere. Parlo di me, della mia vita tra i muri di un convento dai sedici anni in su, dei progetti che resero nobile e sacro il trascorrere della mia giovinezza, e che erano programmi di salvezza degli uomini, e di preghiera, e di castità, e di frequentazione del Cristo e dei libri che parlavano di lui e del suo messaggio. Che vuol dire: ho capito che c’è poco da nascondere?

    Cosa vuol dire – stava appunto dicendo il gentiluomo (mi pare che sia un conte o un marchese, o ne ha il nobile aspetto) – cosa intende dire, dicendo che c’è poco da nascondere?

    Come lo spiego all’attento e puntiglioso signore che non è della vita intemerata che io conducevo che mi vergogno, ma dell’averla abbandonata? Come glielo spiego, come ve lo spiego, miei quattordici lettori, che antiche e inveterate ammonizioni e remoti detti e vetuste profezie e polverosi vaticini e canoni colmi di apparente saggezza avevano avviluppato in una rete inestricabile la fede nel mio animo di levita adolescente e poi di giovane sacerdote al punto di radicarvi certezze, che non erano verità? Come lo spiego che quelle fallaci certezze mi avevano condotto a considerarmi esecrabile a Dio e reietto dalla Società dei Santi e indegno della stima degli uomini onesti e retti se quella incorrotta vita avessi abbandonato? Altro che poco da nascondere! Se arrossendo ne parlo a lei adesso, dignitoso signore, è solo perché spero che la mia confessione la muova a pietà del trasgressore, ma lo nasconderò (prevedo) per il resto dell’esistenza, o ne parlerò in segreto ad intimi e sicuri amici.

    Lei mi è simpatico, dottore stava dicendomi però il gentiluomo.

    Dottore, perbacco. Non ero padre? era la prima volta che qualcuno mi chiamava così. E gli ero simpatico. Le cose si mettevano bene.

    Ma lei ha commesso un grave errore, ed io non posso non farglielo rilevare.

    Ecco, dovevo aspettarmelo. Il colpevole era stato riconosciuto e stava per essere svergognato.

    "Non siamo, mi creda, nel Sessantotto francese. Il nostro Sessantotto è qui, e durerà ancora, chi sa

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