Storia greca
By Andrea Rényi and Lajos Galambos
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Storia greca - Andrea Rényi
Storia greca
di
Lajos Galambos
nella traduzione di
Andrea Rényi
***
Dragomanni
Storia greca
di
Lajos Galambos
nella traduzione di Andrea Rényi
Revisione di Isabella Zani
Prima edizione: marzo 2013
Per la traduzione: Copyright © 2013 di Andrea Rényi
Titolo originale: Görög történet
Prima edizione dell'originale: 1978 - © Andrea Török
Edizione a cura dei Dragomanni
http://www.dragomanni.it
Logo dei Dragomanni di Claudio Fiorini - Makelab
Ebook creato con Writer2ePub di Luca Calcinai e Sigil di Strahinja Marković e John Schember
Indice
Storia greca
Introduzione, a cura di Andrea Rényi
Storia greca, una novella di Lajos Galambos - Traduzione di Andrea Rényi, revisione di Isabella Zani
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
Lajos Galambos
Cenni di storia greca, a cura di Andrea Rényi
La guerra civile
L’emigrazione
La partecipazione femminile
Fonti
Album fotografico (collezione privata Sofia Akritidou)
In memoria di Kazimir Rényi (1921-1969)
E all’improvviso i luoghi divennero uno.
Vennero i luoghi in cui camminai, città
e quartieri e strade. Migliaia di luoghi
meridiani, a Settentrione, a Sud. Con caldo,
nuvole e neve. Monsoni tropicali
e temporali. Sole bel tempo e pioggia,
luoghi di piacere, d’improvviso pericolo.
Luoghi selvaggi, oscuri e altri calmi.
Allora il luogo sparì come luogo
della patria.
Mihalis Pierìs, La fine del mondo (traduzione di Paola Maria Minucci)
Introduzione
Mio padre, Kazimir Rényi, prestò servizio come medico internista presso l’ospedale di via Vas, a Budapest, dal 1948 fino al cambio di destinazione della struttura, avvenuto nel 1950; quella che fino alla Seconda guerra mondiale era stata l’elegante casa di cura Pajer, in quegli anni fu trasformata in ospedale da campo per partigiani greci feriti durante la guerra civile, tutti ricoverati sotto falsa identità ungherese al fine di garantirne la clandestinità. Per curarli in modo efficace mio padre imparò il greco moderno, facilitato anche dalla coabitazione con i malati, perché lui alloggiava, e dal marzo 1949 insieme a mia madre, in una stanza del nosocomio messagli a disposizione. Fra gli altri medici in quell’ospedale c’era anche la madre del giornalista Miklós Gimes – nonché della psicanalisi ungherese – Lilly Hajdu Gimes (1891-1960), con il compito teorico di offrire sostegno psicologico ai ricoverati, prevalentemente di origine contadina, a volte analfabeti: persone che non erano mai state oltre i confini della propria regione, e quindi alle prese con problemi non solo fisici, ma anche di natura psichica. La professoressa Gimes non fu però in grado di aiutarli, perché malgrado gli sforzi non imparò che due parole di greco, e pochi mesi dopo abbandonò l’incarico per andare a dirigere il grande ospedale psichiatrico della capitale ungherese. Nel 1956 suo figlio prese parte alla rivoluzione come caporedattore del primo quotidiano indipendente, e dopo la sconfitta condivise prima l’esilio e poi il processo con Imre Nagy; con lui fu anche condannato a morte e giustiziato nel 1958. Lilly Hajdu Gimes cadde in una grave depressione e si tolse la vita nel 1960.
Come tutti i Paesi del blocco sovietico, anche l’Ungheria aveva accolto prima i feriti della guerra civile greca, e dall’aprile del 1948 anche migliaia di bambini, figli o orfani di partigiani, provenienti da villaggi evacuati o inviati là dai genitori stessi per strapparli all’indigenza e al rischio di morire sotto i bombardamenti. Bombardamenti spesso al napalm, perché le forze militari statunitensi sperimentarono il famigerato composto per la prima volta in Grecia, sganciando quasi quattrocento bombe sui monti Grammos-Vitzi, teatro delle battaglie più sanguinose del conflitto. Il salvataggio dei bambini non era solo un’iniziativa concordata fra la sinistra greca e i governi comunisti dei Paesi dell’Est, ma vedeva coinvolta anche la regina Federica di Hannover, moglie del sovrano Paolo di Grecia, la quale organizzò i campi profughi greci dove venivano ospitati bambini orfani o di famiglie povere.
Una di questi bambini era Sofia Akritidou, oggi insegnante in pensione a Budapest e animatrice della vita culturale della comunità greca in Ungheria. Aveva dieci anni nel 1948, quando suo padre, partigiano caduto poi in battaglia nell’anno seguente, il 1949, inviò un compagno d’armi al loro villaggio, Thiriopetra nel distretto di Pella, con il messaggio alla moglie di mandare i loro quattro figli all’estero, perché temeva per la loro vita. La regola prevedeva gruppi di cinquanta bambini accompagnati da quattro donne, scelte in base a certi criteri. La madre di Sofia sperò fino all’ultimo di essere selezionata come accompagnatrice, ma non fu così: con il gruppo partirono una signora con un figlio partigiano caduto in battaglia, un’altra scelta perché il figlio era zoppo, una terza perché aveva un neonato da allattare e una quarta perché vedova di un partigiano. Alle mamme separate dai figli fu chiesto di contribuire alla lotta coltivando la terra (la raccolta avveniva di notte per motivi di sicurezza), con lavori a maglia e preparazione di derrate per i combattenti.
Un giorno di marzo del 1948 i bambini si avviarono a piedi in compagnia delle quattro donne e di un mulo, scortati fino alla frontiera jugoslava da un partigiano in avanscoperta e da un altro che seguiva il gruppo in retroguardia. Fra lunghi tragitti a piedi e in treno merci, e lunghe soste nei campi, il viaggio per arrivare in Ungheria durò due mesi. L’accoglienza a Budapest fu però memorabile: dopo essersi nutriti di bacche, piante selvatiche e poco altro durante la lunga marcia, colpiti dalla diarrea e da altri disturbi, alloggiati precariamente in baracche o tende, furono accolti da crocerossine in abiti impeccabili che offrirono loro persino una tazza di cioccolata calda. Il gruppo fu portato in una caserma e per i bambini, disinfestati, lavati e vestiti in uniforme, fu come rinascere. Sofia venne subito separata dai fratelli e rivide la sua mamma solo dopo sette anni di separazione, quando capì che lasciare il villaggio natale era stata la scelta giusta: il giorno dopo la sua partenza, la casa di famiglia era stata distrutta da una bomba.
Sofia cambierà spesso casa nel corso degli anni, accolta da diverse famiglie in varie parti del Paese, ma non mancheranno neppure i soggiorni, più o meno lunghi, in istituti, e sempre all’insegna della provvisorietà. Perché la guerra civile era sì terminata, ma molti partigiani credevano di aver solo «appoggiato il fucile alla gamba» nell’attesa di riprenderlo e darlo in mano anche ai bambini nel frattempo cresciuti, che i più adulti contavano di richiamare in patria.