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Starry Night
Starry Night
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Starry Night

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About this ebook

Una festa di compleanno, un accendino rubato e uno sganassone in piena faccia. Inizia così l’amicizia tra Filippo e Sergio, o meglio Zippo e Zagana, diciottenni talmente diversi tra loro da formare un duo inseparabile. Studente modello, timido e schivo il primo, impiccione e testa calda, espulso dai principali istituti privati il secondo. In poco tempo, i due riescono a raggiungere la vetta della popolarità tra gli adolescenti figli di papà della Roma bene, mettendo su un giro d’affari variegato che va dallo spaccio di droga e dvd pornografici alle partite di poker truccate e alle scommesse clandestine, fino allo sfruttamento della prostituzione. È un mondo fatto di feste private, ville e fuoriserie, ma anche di pugili di strada, metallari flaccidi e meccanici sadici. Ma nella vita di Filippo non c’è solo questo: ci sono Fellini e Peter Pan, i Led Zeppelin e Marcello Mastroianni, Neruda e Paul Auster; c’è la figura di un nonno ingombrante. Ma soprattutto c’è Greta, che in pubblico mostra il suo lato aggressivo mentre l’altro, quello vulnerabile e indifeso, non lo svela a nessuno. Per lei Filippo dovrà decidersi a cambiare vita, ma prima resta una cosa da fare, una mossa azzardata e rischiosa il cui prezzo da pagare si rivelerà fin troppo alto. Starry night è un romanzo che nasce da un’assenza, proprio come il dipinto di Van Gogh che Filippo e Greta ammirano ad Amsterdam, in cui il soggetto è il vuoto ed è la luce a descrivere il buio. Proprio come la vita, che in fondo non è altro che una storia costruita intorno al vuoto e ciò che conta davvero è come la si racconta.
LanguageItaliano
Release dateDec 1, 2014
ISBN9788868810641
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    Book preview

    Starry Night - Federico Leoni

    Ashbery

    ​Prologo

    L’odore della pioggia

    Anche annusare la pioggia è un’indagine sul vuoto. Affacciato alla finestra annuso un profumo che non esiste, o esiste solo nella mia mente, come forse tutte le cose che ho visto e come gli occhi che ho usato per guardarle. Vorrei avere ancora a disposizione abbastanza meraviglia da sentire l’odore della pioggia con lo stupore della prima volta. Perché è la meraviglia che ha dato inizio alle cose, la magia che ha colmato l’assenza. Ecco: certe storie si raccontano a partire da un’assenza. Sono sagome cave dentro custodie vuote, forme abbandonate che dicono violino, oppure fucile.

    Se c’è una cosa che mi piace è l’odore della pioggia, ammesso che questo odore esista. Cambia con le stagioni, ma rimane lo stesso ogni anno, e ogni settembre – dico per dire – il naso lo riconosce come l’odore del settembre passato. Adesso mi accorgo che questo profumo di pioggia è in realtà un odore d’asfalto, e che la pioggia è solo l’incantesimo che questo odore rivela. Se la pioggia cade sulle strade, in città, sa di olio minerale e grasso fuso; se finisce sulla terra nuda profuma di muffa e di erba tagliata; se ti bagna le spalle restituisce alla pelle l’aroma del proprio respiro. Sotto a tutto, però, c’è una nota comune, come la radice di un verbo nella sua coniugazione; è questa radice che mi sfugge, come in un’indagine sul vuoto.

    È passato un anno dalla mia personale tragedia, o poco più. Dovrei decidermi a prendere di petto il nocciolo della questione, perché ogni storia deve arrivare alla fine.

    Chiudo i vetri e vedo il mio riflesso allontanarsi da me, poi torno alla macchina da scrivere, ma allora il citofono suona, e sono costretto ad alzarmi di nuovo (non una cosa facile, a ottanta e passa anni). Mentre mi muovo lentamente verso la porta mi giro (per caso?) e mi accorgo che ogni cosa è al suo posto: l’Olivetti sul tavolo, il foglio nel rullo, la tazza di caffè accanto al posacenere. Ho l’impressione che quel quadretto mi renda giustizia quanto merito, adesso che non ne faccio più parte. D’altronde certe storie sono indagini sul vuoto. Sono come questa storia: si raccontano a partire da un’assenza.

    Come Zippo incontrò Zagana

    La vita di Filippo cambiò il giorno del suo diciottesimo compleanno, o per lo meno fu allora che il meccanismo si mise in moto. Come tutti i timidi, Filippo non amava le maschere. Le maschere promettono di nascondere e invece mettono in evidenza; sono un continuo richiamo e la promessa di un mistero, che è ciò che più attrae la gente. Sarebbe meglio mettersi un pappagallo tropicale appollaiato sulla testa, piuttosto. Te ne infili una, per di più, e la tua faccia rimane impressa al suo interno, e viceversa, così che quella maschera resterà tua anche quando te la sarai tolta.

    Ecco perché Filippo non amava le feste, neppure quelle: perché alle feste bisogna mettersi in maschera – o almeno così facevano tutti i suoi compagni di liceo – e fingere che le cose vadano come devono andare anche se vanno in tutt’altra direzione. Era stato il primo a stupirsi, quindi, quando aveva finito per dire di sì alla madre, che voleva a tutti i costi celebrare il suo diciottesimo compleanno. Così adesso se ne stava a casa sua, seduto in disparte a fissare gli altri che, bene o male, si divertivano. Non era il tipo che sapeva dire di no ai genitori, ma aveva preteso una cosa in tono minore, almeno questo, dunque niente affitti di locali o ville hollywoodiane, ma solo il salone di casa, aperto sulla terrazza, una trentina di amici e compagni di scuola, tartine di Antonini, Coca Cola e una millefoglie di crema chantilly. Di bottiglie di champagne ce n’erano un paio, giusto per brindare, ma Filippo, che era astemio, aveva lasciato che se ne occupasse il padre.

    Era appollaiato accanto al tavolo del rinfresco, dove tartine e tranci di pizza, a tre ore circa dall’inizio della festa, sopravvivevano a stento sui vassoi di cartone dorato. Accanto a lui, dall’altra parte del tavolo, c’era Paolo Fracco, il figlio della portiera del palazzo dove suo padre aveva uno studio notarile. Paolo aveva quasi diciannove anni, era alto un metro e novanta ed era timidissimo, soprattutto quando entrava in quella casa, per cui adesso sedeva silenzioso con il piatto di carta appoggiato sulle cosce enormi, fissandosi la punta delle scarpe.

    – Ti piacciono i Coldplay? – gli chiese Filippo, sentendosi in dovere di fare conversazione.

    – A te? – rispose Paolo.

    – Sì, ho tutti i loro cd.

    – Anche a me piacciono – concluse Paolo, e tornò con gli occhi sulle scarpe e l’aria tesa dell’esaminando che attende nuove domande.

    Filippo si alzò di scatto. La sua timidezza incarognita non s’armonizzava granché con quella bonaria di Paolo: Filippo non sperava in una cura, per così dire.

    Seduta su uno dei divani, Valentina Parchi illustrava le sue prossime vacanze a Formentera a una platea entusiasta di neomaggiorenni o quasi. Aveva le labbra lucide e rideva volentieri, rovesciando la testa all’indietro per potersi poi sistemare con un gesto rapido della mano i lunghi capelli castani. Sporgendosi al di sopra di Valentina, che non lo notò, Filippo si chinò sul tavolino davanti al divano per prendere uno dei libri che gli avevano regalato, e ora sentiva il profumo forte dei capelli di lei sbattergli contro la faccia e, roteando gli occhi in maniera un po’ innaturale, poteva risalire con lo sguardo dagli stivali alla coscia nuda, e più su, fino alla linea incerta della gonna scura, un bastione variabile che arretrava a ogni risata. Solo che sul ginocchio destro di lei, proprio sopra allo spigolo netto della rotula, la pelle raggrinziva in un punto, come formando tante piccole onde: era una cicatrice di bambina, forse rimediata in bicicletta o correndo in un giardino di ghiaia. Non sembrava molto antica, però, al massimo l’anno precedente, e aveva la forma di una goccia, come se volesse scivolare sullo stinco fino a nascondersi sotto il cuoio degli stivali.

    Filippo afferrò il libro e se lo portò in terrazza. Sollevando lo sguardo verso il cielo capì perché la madre aveva passato tutto il pomeriggio borbottando Speriamo che il tempo sia clemente, mentre passava da un canale televisivo all’altro continuando a scuotere la testa davanti alle previsioni meteo. Sulla festa si addensavano nubi metalliche, come scarti di fabbrica appena soffiati via da una ciminiera. Niente gocce, per il momento, ma nella gomma che aveva in bocca Filippo sentiva già il sapore della pioggia, come se stesse masticando una foglia di basilico bagnata.

    Poco male. Tornò con gli occhi sul libro, uno dei tre che il nonno gli aveva regalato insieme a un suo vecchio orologio Audemars Piguet, comprato alla fine degli anni Cinquanta con i primi guadagni di sceneggiatore. Il libro parlava della storia del cinema italiano nel Dopoguerra, e il fatto che nell’indice dei nomi comparisse anche il suo aveva spinto il nonno a presentarglielo per ultimo, dopo Conrad e Dickens, come in tono minore e di rispetto per quei giganti. Per anni il nipote l’aveva tempestato di domande sugli inizi della sua carriera, sulla Roma degli anni Cinquanta e sul mondo di via Veneto e Cinecittà, e 

    quel libro era un modo per rispondere senza dover ricorrere alla propria memoria appannata.

    Dopo aver liberato il volume dalla carta, Filippo era corso a leggere le pagine che riguardavano La dolce vita di Fellini, trovando splendide foto di Mastroianni e Anouk Aimée scattate a telecamere spente.

    "Allora, hai passato il limes dei diciotto anni. Come ti senti?", gli aveva chiesto il nonno quel pomeriggio, allungandogli i regali.

    Come se avessi infilato la testa in un secchio di latte, aveva risposto Filippo. Sembrava un’immagine comica, ma non lo era e il nonno l’aveva capito. Infatti non aveva riso.

    Rende l’idea, aveva risposto. Futuro nebuloso; credo si sentano così un po’ tutti. Devo essermici sentito anch’io.

    Ai tempi tuoi c’erano un sacco di cose da fare. Da costruire. Me l’hai detto tu, no?.

    E adesso non ci sono?.

    Filippo aveva risposto con un’alzata di spalle.

    Mentre sul terrazzo di casa dei suoi ripercorreva mentalmente quel dialogo, lo sguardo gli cadde d’istinto sull’orologio Audemars Piguet che aveva indossato per l’occasione; sembrava fermo, ma poi lo accostò all’orecchio e si accorse che ticchettava.

    – Funziona?

    La domanda lo colse di sorpresa. Non si era accorto che qualcuno l’aveva raggiunto. Profumo Abercrombie: si trattava di Sergio.

    – Pare di sì – disse.

    – Una bella padella. Te l’hanno regalata? Dev’essere vecchia sul serio.

    – È un regalo di mio nonno – rispose Filippo. Per quanto ne sapeva Sergio era un impiccione, quindi conveniva rispondere a monosillabi e toglierselo dalle scatole il prima possibile. Ora che lo vedeva, con i suoi capelli biondi appiccicati sulla fronte e l’orecchino al naso, non era nemmeno sicuro di averlo invitato. Magari s’era imbucato, possibilissimo. A scuola lo chiamavano Zagana, chissà perché. Era arrivato da neppure un mese, dopo un tour nei principali istituti privati di Roma concluso con un numero record di espulsioni. L’ultima volta aveva steso a capocciate il professore di educazione fisica, durante una partita di basket. Lo stronzo mi fa fallo, aveva raccontato una volta, durante la ricreazione. "Allora io bum, gli tiro una testata in petto e quello va giù. Il cuore gli si è fermato per un fottio di minuti, così hanno detto i medici. Poco c’è mancato che gli facessi stirare le zampe. Io, dico la verità, lì per lì mi sono cagato sotto. Se fosse morto, invece di stare qui a vantarmi sarei finito nella doccia di Regina Coeli a raccogliere saponette. Il giorno dopo l’espulsione era passato dalla ferramenta, aveva comprato una siringa di silicone e aveva impiegato la notte successiva a sigillare per bene tutte le serrature esterne dell’istituto. A voi la merda, a me la gloria", aveva urlato dal motorino la mattina, sfrecciando davanti ai suoi ex compagni e ai bidelli che sudavano di brutto cercando di sbloccare i cancelli.

    – Ti ho portato un regalo – disse Sergio allungandogli un pacchetto confezionato alla meglio. Filippo se lo rigirò tra le mani e notò che la carta stropicciata con il marchio della Feltrinelli era la stessa che aveva avvolto i libri del nonno e che poi era finita sul tavolino in salone. Dentro c’era un accendino di metallo satinato.

    – È uno Zippo – disse Sergio con un certo entusiasmo. – Lo puoi usare per accendere le sigarette.

    – Già – rispose Filippo, poi aggiunse abbastanza vanamente:

    – È un accendino.

    – E ci sono le tue iniziali – precisò Sergio con un tono in stile effetto sorpresa. Per un attimo sembrò che avrebbe concluso esclamando: Voilà!.

    Sull’accendino, effettivamente, c’erano una «F» e una «L», incise in un pretenzioso stile gotico in basso a destra.

    – Grazie. Davvero – scandì Filippo un po’ interdetto. Sergio tirò fuori due sigarette come per mettere un punto alla vicenda, se ne accese una e allungò l’altra a Filippo.

    – Io non fumo – si sentì rispondere.

    – Non fumi? Ma se ti ho visto in giro con l’accendino in tasca.

    – Sì, è un vizio che ho, non lo so, una specie di tic: lo accendo e lo spengo di continuo –. E per dimostrare quanto stava dicendo tirò fuori il piccolo Bic di plastica nera che ora divideva la tasca con lo Zippo metallico.

    – Non sarai mica uno di quelli che se lo portano appresso per accendere le sigarette alle pischelle?

    – Ma no, figurati. Mi piace guardare la fiamma.

    – Ah, sei un cazzo di piromane! – sentenziò Sergio con compiaciuto stupore.

    – Non sono un piromane, sei pazzo?

    – Un cazzo di piromane – ripeté Sergio come se non avesse sentito. – Ne ho conosciuto uno quando andavo al Nazareth, era nell’altra sezione; ha cominciato con i fogli protocollo e dopo un paio di mesi per poco non seccava un barbone. Sei così, tu? Vuoi dare fuoco ai barboni?

    – Cazzo, non sono un piromane – ripeté Filippo.

    – Ok, va bene – disse Sergio sporgendo in avanti le mani aperte come per dire calmati.

    Passarono qualche secondo in silenzio, guardando in direzioni opposte, mentre sopra di loro il vento addensava le nuvole con un rumore di pagine girate.

    – Sai chi è il vero piromane, qui? – domandò Sergio, facendo capire se non altro che il messaggio era arrivato.

    – Chi?

    – Quella pischella seduta sul divano. La tipa con gli stivali. Cristo santo, quella t’accende sul serio, vero Fil? – e qui Sergio gli diede una piccola gomitata complice.

    – Non chiamarmi Fil, lo odio quel soprannome – chiarì Filippo, gelido.

    – Ok, ti chiamerò Zippo allora. Ti piace Zippo?

    – Si chiama Valentina – disse Filippo senza rispondere. – Valentina Parchi.

    – Ok, Zippo, ora ti faccio vedere come ci si prova con Valentina Parchi.

    Sergio s’incamminò verso il salone fregandosi platealmente le mani, ma all’improvviso si bloccò.

    – Aspetta un secondo, non sarà mica la tua donna?

    – Mia? – disse Filippo sorridendo. – No.

    Poi accese lo Zippo mentre Sergio spariva oltre la porta finestra, guardò la fiamma tremare nel vento e dopo pochi secondi, pietoso, la soffocò.

    Oltre il vetro osservò la scena muta di Sergio che s’avvicinava al divano come a una preda. Non sembrava un cacciatore, però, piuttosto un attore che impersonava una parte. A guardarlo bene, in effetti, Sergio sembrava sempre l’imitazione di qualcun altro.

    Alla fine tutto s’era risolto in un incrocio di sguardi tra Zagana e Valentina, una cosa rapida durante la quale lei neppure aveva notato chi la stava guardando e lui invece aveva visto abbastanza per evitare di farsi avanti. Tutti, a quel punto, ebbero l’impressione che la festa fosse finita e presto la festa finì davvero.

    In un attimo Filippo si ritrovò solo, piacevolmente malinconico mentre fuori, finalmente, cadeva la pioggia. Una pastarella sbocconcellata, triste avanzo della serata, lo fissava dal vassoio sul tavolo come una domanda insistente.

    – Che fai? – gli chiese la madre, in una breve pausa del suo andirivieni dal tavolo alla cucina. Filippo si era seduto sul divano e aveva chiuso gli occhi.

    – Mi guardo le palpebre.

    La madre non rispose.

    Certe volte uno osserva il buio dentro i propri occhi. Filippo, per lo meno, lo faceva. Non è proprio come non guardare, e nemmeno come fissare l’oscurità completa in una stanza senza luci né finestre. È più come guardare il nulla e colorarlo di pensieri. C’era spazio per tutto, lì dentro.

    Sempre con gli occhi chiusi, Filippo accese mentalmente il suo Zippo, avvertendo contemporaneamente il peso dell’oggetto reale nella tasca destra dei pantaloni, come se all’improvviso l’accendino esercitasse una lieve pressione sulla sua coscia. Lo spense.

    Confezione a parte, era un bel regalo. Sergio invece era una persona scomoda, che si agitava in maniera contagiosa. Non pensava che l’avrebbe rivisto, per lo meno non al di fuori dell’orario scolastico. Ma si sbagliava su tutto.

    ​F. L.

    Franco Lepori, Filippo lo conosceva appena. Era un palestrato della Fiermonte, il circolo di viale Parioli dove i fighetti del quartiere tiravano di boxe con le loro canotte Everlast attillate. Aveva due deltoidi grossi come pompelmi e una testa piccola piccola che gli comprimeva il cervello. Filippo l’aveva visto un paio di volte, forse in un locale di viale Ostiense, tirato a lucido per l’occasione: la camicia bianca dal collo troppo alto, il cranio minuscolo rasato e luccicante sotto le stroboscopiche, in mano un drink dal colore allarmante. Poi un pomeriggio, qualche giorno dopo la festa per i suoi diciott’anni, se l’era ritrovato di fianco al semaforo di viale Bruno Buozzi. Non l’aveva salutato – non erano così in confidenza – però aveva tirato fuori l’accendino per ingannare l’attesa del verde e l’aveva acceso e spento un paio di volte sulla coscia tirando nel frattempo con la mano sinistra la leva del freno. Non s’era accorto che quello l’aveva fissato aggrottando le sopracciglia, però subito dopo l’aveva sentito dire: – Accosta –. Visto come pulsavano quei bicipiti sotto il giubbotto leggero, ubbidì senza pensarci troppo.

    Il primo errore fu togliersi il casco; il secondo fu chiedersi se l’immagine di Lepori che alzava il braccio destro fosse reale, invece di preoccuparsi di schivare lo sganassone.

    Filippo sentì il palmo grassoccio e umido della mano sulla guancia, poi una sensazione di bruciore. Quando quello lo prese per il collo era già a terra, senza sapere bene come ci fosse finito. Lepori lo sollevò e lo schiacciò contro un cancello chiuso come se stesse appendendo una giacca a un gancio nel muro. Lo schianto fece girare i pochi passanti, ma nessuno si mosse.

    – Lo vedi che c’è scritto qui? – ruggì Lepori dopo avergli strappato lo Zippo dalle mani. Filippo racimolò a fatica un po’ di fiato e lesse biascicando le due lettere incise sul metallo. Il sangue che gli saliva alla testa era troppo poco perché potesse ricordarsi le sue iniziali.

    – Effe, elle – ripeté quello. – Come Franco Lepori. Franco Lepori.

    Filippo non ci aveva ancora pensato, in effetti.

    Lepori lo lasciò cadere come un sacco di patate, poi gli piantò un calcio nello stomaco e se ne andò urlando qualcosa di incomprensibile riguardo la lezione che, a sua detta, Filippo aveva imparato di certo.

    Immaginare che tutto stia accadendo a qualcun altro, in questi casi, non è una soluzione, ma dà un certo sollievo. Filippo si vide contorcersi a terra per due minuti buoni, le mani strette sulla pancia e i denti chiusi sulle labbra. La sua autostima rotolò giù dal marciapiede e gorgogliò nel chiusino delle fogne. Non era mai stato un tipo da rissa. Una volta al mare s’era accapigliato senza motivo con un biondino e in un’altra occasione aveva rimediato un paio di sberle da uno che l’accusava d’aver guardato il culo della sua ragazza (aveva ragione), ma erano casi del tutto isolati.

    Una vecchietta ingobbita lo aiutò a rialzarsi. Filippo tossì ma non riuscì a dire grazie: era troppo umiliato e furioso per trovare le parole. Salì in motorino ancora dolorante, con in testa un indirizzo preciso dove andare a sfogare la rabbia.

    – Pubblicità in cassetta.

    Il tentativo di camuffare la voce al citofono, per quanto patetico, funzionò. Fece tre piani di scale salendo tre gradini alla volta, poi s’attaccò al campanello, ansimante. Quando Sergio aprì, Filippo lo mise a sedere sulla cassapanca alle sue spalle con una spinta. Il legno scricchiolò. La musica che arrivava dal salotto cessò di colpo.

    – Grazie per il regalo, brutto coglione.

    – Calma, calma, calma – ripeté Sergio a bassa voce. Alzò e abbassò le mani, implorandolo di fare silenzio.

    – Che succede, tesoro? – dal salotto arrivò la voce allarmata di una donna.

    – Niente, mamma. Tutto ok. È un amico.

    – Amico un paio di cazzi. Fotti l’accendino a un pugile e lo rifili a me, bell’amico.

    – Senti, ora ti spiego. Stai calmo, però. Se di là ti sentono succede un casino.

    La madre di Sergio si portò le mani al viso nel momento stesso in cui apparve sulla soglia, dietro al figlio.

    – Mio Dio, che hai fatto?

    Aveva visto la guancia gonfia e i segni sul collo, chiaro.

    – Filippo ha avuto un incidente, mamma – disse Sergio. – Era qui sotto ed è salito su per farsi dare una mano.

    – Hai fatto bene, Filippo. Entra. Tesoro, dagli un po’ di ghiaccio, fallo sedere.

    La madre di Sergio aveva i capelli biondi alla Farrah Fawcett e gli stessi occhi azzurri del figlio. Sembrava uscita da un film anni Settanta. Filippo la seguì in corridoio osservandola mentre camminava ondeggiando come se fosse sul punto di danzare; sembrava che avesse i piedi troppo leggeri per affondare il passo sul pavimento, sfiorava le cose senza toccarle veramente. Indiscutibilmente era una bella donna. Il corridoio sfociava in un grande salotto, dove c’erano una tastiera, una chitarra e una serie di strumenti a percussione sistemati su una specie di comò di frassino. Il padre di Sergio era dietro gli strumenti e lo guardò con aria di rimprovero.

    – Motorino, eh? Lo dico sempre a mio figlio di stare attento.

    – Non vi preoccupate – insistette Sergio. – Ora gli do un po’ di ghiaccio. Voi tornate a suonare.

    – Perché non fate un salto al pronto soccorso, tesoro? Vi accompagna papà, se volete.

    – No, mamma, è una cosa da niente. Torna a cantare, dai. Sergio trascinò Filippo in camera sua, lasciandolo seduto sul

    letto qualche minuto mentre trafficava con il ghiaccio in cucina. La stanza era un affronto smaccato alle regole della casa: i colori pastello del salone lasciavano il posto a graffiti sguaiati tracciati con lo spray sulle pareti, il copriletto era una pretenziosa pelle di vacca falsa dalla quale spuntava una targhetta dell’Ikea e sull’armadio c’erano un poster di Steve McQueen in collo alto nero e una foto di Pamela Anderson mezza nuda. I libri scolastici erano allineati su una mensola accanto a un manuale di karate piuttosto sgualcito e l’antologia della lingua inglese era ancora incartata nel cellophane, nonostante metà anno fosse ormai passato. Quella stanza era come un insulto lanciato a voce alta, ma era anche un’impalcatura traballante sul punto di crollare. I dettagli tradivano il contesto: su una mensola c’era una manciata di istantanee di Sergio bambino, gli stessi enormi occhi azzurri incorniciati da riccioli ancora più chiari di adesso; in una nicchia dietro la porta erano nascosti degli oggettini piuttosto pacchiani, forse i lavoretti natalizi di Sergio, un residuo delle scuole elementari. Naturale che la madre li avesse conservati con cura, ma faceva sorridere il fatto che Sergio li avesse lasciati lì. C’era qualcosa sotto i graffiti e i dischi, una forza repressa che spingeva come fanno le radici dei pini quando spaccano l’asfalto.

    Sergio tornò con un sacchetto trasparente pieno di cubetti di ghiaccio.

    – Ok, l’accendino era rubato. Quel Franco Lepori è un cazzone senza cervello, pensa di poter fare il bulletto solo perché va da Fiermonte a tirare pugni. Meritava di essere punito, così gli ho fregato lo Zippo a una festa. Era buio, lì per lì le iniziali non le avevo neppure viste, poi il giorno del tuo compleanno ho pensato a te.

    – Che pensiero gentile – disse Filippo, ma sorridere sarcasticamente non giovava alla sua guancia tumefatta.

    – Mi dispiace, che ti devo dire. Non pensavo che per uno Zippo avrebbe montato tutto ’sto casino. Te ne regalerò uno identico, promesso.

    – Potevi almeno dirmelo che era rubato.

    – E mica posso darti un regalo e poi aggiungere: Sai, è rubato.

    Filippo avrebbe potuto sollevare talmente tante obiezioni che alla fine rimase in silenzio. D’altra parte quel ghiaccio premuto sulla guancia stava facendo sbollire pian piano anche la rabbia. In soggiorno la madre di Sergio aveva ricominciato a cantare

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