Il piede sopra il cuore
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Le persone integre, quelle che rifiutano la collusione, vengono eliminate senza pietà: è il caso del professor Di Salvo, che muore in un attentato in cui è sterminata anche la sua famiglia. Per un caso fortuito, si salverà soltanto il piccolo Santino, che resta solo al mondo. Ma un personaggio molto singolare entrerà in gioco per prendersi cura di lui.
Questo romanzo, dove è protagonista la “piccola storia” quotidiana delle persone, che scorre a fianco della Grande Storia, conduce anche a una riflessione più intima e profonda sul significato della libertà, della responsabilità, della giustizia, della comprensione e, in definitiva, della difficoltà e della grandezza di essere uomini.
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Il piede sopra il cuore - Mario Nejrotti
padre
Capitolo I
Se fissava con attenzione dall’ombra, poteva vedere il mare. Gli piaceva guardare il sole mentre affondava all’orizzonte: la luce scompariva sconfitta e le tenebre calavano improvvise, protettive.
Da quanto era su quella montagna aspra e silenziosa?
Non ricordava. Per lui il tempo non aveva significato.
Vedeva le nuvole correre e il sole accecante, nelle lunghe e secche estati e poi la pioggia, persino la neve, qualche volta…
Dove erano andati a finire tutti? Non c’era più nessuno dei suoi.
Dopo quel tuono, la luce. Quella spaventosa luce minacciosa e terribile.
Era fuggito, senza dignità, con la testa bassa e le mani sulle orecchie per non sentire.
Era sconvolgente quello che provava dentro: un rancore senza confini, insieme a un infinito, insopportabile senso di colpa.
Aveva chiuso gli occhi per non essere annientato e proprio allora si era sentito cadere, terrorizzato, per un tempo inimmaginabile.
La luce si era spenta: il buio, il silenzio, il nulla.
È finita
aveva pensato.
Era la disfatta: totale, irrimediabile della ribellione a quel potere assoluto, immutabile, invincibile.
Avevano sperato di sconfiggerlo, di infrangerlo.
Il loro condottiero era bellissimo; era coraggioso e seducente, avrebbero battuto il Tiranno. Si sarebbero liberati dalla schiavitù.
Da lontano, insieme alle schiere dei suoi compagni, aveva visto arrivare le armate nemiche: erano infinite e ancora altre se ne accalcavano dietro.
Ma loro non avevano avuto paura.
Il condottiero passava tra le file ordinate e li incitava al coraggio e all’eroismo:
Non possono vincerci tutti. Noi vogliamo giustizia. Loro sono schiavi, senza volontà, senza capacità di scelta. Li sconfiggeremo con il nostro entusiasmo, con la forza dei nostri ideali. Li sbaraglieremo, perché noi siamo nel giusto. Coraggio! Non tremate! Non vi disperdete. Seguitemi! Andiamo avanti!
Le armate avversarie avevano vacillato al primo scontro.
Indietreggiavano, erano impaurite.
Fu un attimo: quel rumore assordante, quella luce accecante apparvero all’improvviso, arrivavano da ogni direzione.
Non si vedevano più lo schieramento davanti, la retroguardia e nemmeno il compagno vicino.
Dalle loro gole sgorgò un urlo disperato di consapevolezza:
Non avrebbero mai vinto, sarebbero stati sconfitti, dispersi, fatti prigionieri, esiliati: chissà dove?
Il colpo violento contro la roccia lo lasciò stupito.
Intorno solo silenzio.
Rimase fermo, con i pugni stretti sulle orecchie, gli occhi chiusi. Accoccolato su se stesso, appoggiato sulle ginocchia, con la faccia a terra a respirare un odore di polvere e roccia.
Non osava aprire gli occhi.
Pensava che, se lo avesse fatto, si sarebbe trovato circondato da mille nemici, che lo avrebbero finito.
Non voleva rivedere quella luce, provare quel calore bruciante, sentire quel boato che spaccava la testa.
Rimase lì ad aspettare la fine.
Riusciva solo a pensare che avrebbe voluto fare ancora mille cose, che non voleva che tutto finisse lì, su quella superficie ruvida e calda…
Una superficie ruvida e calda?
pensò sorpreso.
Scostò piano i pugni dalle orecchie.
Silenzio.
Dischiuse le palpebre e di sbieco guardò oltre, da sotto la sua ombra.
La luce c’era, ma non era così forte, non faceva male.
Vide una montagna.
Era aspra, vegetazione bassa e stenta. Poca erba, solo ciuffi radi e qualche albero.
Sassi, sassi dappertutto.
Era solo nel silenzio, dove erano i suoi compagni?
Una brezza sottile gli portava un altro odore.
Alzò il capo e si mise in ginocchio.
Laggiù, lontano, una distesa azzurra si muoveva.
Si alzò e incominciò ad arrampicarsi lentamente.
Non sapeva dove stava andando, ma doveva trovare un rifugio, un posto dove la luce, anche quella che vedeva adesso, non potesse entrare: non lo avrebbero trovato.
La marcia fu penosa fino ad una parete verticale, bianca tra venature rosse che la percorrevano tutta e scintillavano ai raggi luminosi.
Si avvicinò, barcollando.
Tra due massi, quasi immense colonne, si apriva una fenditura. Lì di fianco scendeva un rivolo d’acqua, straordinariamente limpida.
Bevve, attratto, senza sete.
Dentro, doveva andare dentro, al buio.
Un salto e fu nelle tenebre.
Non lo avrebbero trovato: mai più.
Si accoccolò a terra e cadde addormentato, cullato dal rancore e dal dolore.
Capitolo II
Da sempre i contadini e i pastori sapevano che la montagna sopra il paese era magica.
Le donne che volevano avere figli erano sicure che, se fossero salite lassù fino alla grotta delle colonne e si fossero fermate a pregare, lasciando poi un pane, una focaccia, un agnello, della frutta e avessero bevuto l’acqua cristallina che sgorgava dalla roccia lì vicino, nel giro del mese successivo sarebbero rimaste incinte e avrebbero partorito figli sani e belli, come già avevano fatto le loro mamme e prima di loro le mamme delle loro mamme.
Le più coraggiose si erano spinte fino all’imboccatura della caverna e giuravano di aver sentito un respiro profondo e cadenzato. Se si facevano temerarie e avanzavano ancora, subito si levava un grande vento che le respingeva indietro, impaurite.
Era come se quella caverna, in cui nessuno, nemmeno gli uomini, osava entrare, fosse custodita dalle aquile delle rocce, che, agitando le grandi ali, respingessero i curiosi e gli intrusi.
Le aquile gli abitanti di quelle zone le vedevano volare lassù, in lenti giri regali. I loro nidi dovevano essere là dentro e guai a chi avesse osato entrare.
Davanti all’imboccatura della caverna nel corso di anni e anni passarono donne con corte tuniche, allacciate a vita, madri in lacrime per chiedere il ritorno di figli e mariti partiti su grandi navi a remi e poi a vela.
Si vedevano inginocchiati a chiedere buona fortuna soldati armati di spada e poi di archibugio, che partivano per battaglie e guerre non loro: a morire per signori che non conoscevano.
E ancora contadini, pastori, operai per chiedere il coraggio di combattere per la libertà della loro terra, insieme agli stranieri con la camicia rossa.
Vecchi rimasti soli che pregavano a bassa voce per i figli partiti per il nord di quel continente, a difendere una patria che nessuno sentiva propria.
Donne vestite di nero e bambini scalzi per chiedere aiuto per il grande viaggio che li avrebbe portati in una terra lontana dalla fame, che si leggeva nei loro occhi scavati e nelle loro pance gonfie.
Giorno dopo giorno, anno dopo anno, quando qualcuno implorava disperato, dalla grotta usciva un mormorio, una corrente calda che li faceva sentire bene: almeno pareva che qualcuno finalmente pensasse a loro.
In quel lembo di Sicilia, tra le montagne e il mare, la gente aveva sempre vissuto di povertà e speranza. Molte religioni si erano avvicendate per offrire verità: a prendere molto e a regalare solo parole.
Ma il popolo di quelle contrade non si lasciava portare via la magia da nessuno.
Erano sicuri che fosse lì solo per loro. Con gli stranieri non ne parlavano quasi mai.
I figli tornavano sempre e i bimbi continuavano a nascere e nessuna aveva il ventre secco, se andava lassù, beveva l’acqua, parlava con la magia della montagna e lasciava un’offerta.
Tra loro si raccontavano le storie della consolazione e, quando qualcuno aveva bisogno, bastavano pochi sguardi d’intesa.
Sali sulla montagna
si dicevano.
Poi lunghi silenzi sui sentieri solitari, con la speranza nel cuore e la preghiera sussurrata a fior di labbra: tra il vento che fischiava sulle rocce e lo stridere delle aquile.
Il sole si spostava sull’orizzonte: più alto, più basso. La luce durava di più, ancora di più. Poi di meno, sempre di meno.
Di notte un sole freddo, pallido, oscurava le stelle, poi rimpiccioliva e scompariva in una piccola falce e il cielo si riempiva di moltitudini di bagliori. Sempre uguale.
Ricordava i suoi compagni.
I secoli passavano su quel pianeta e lui restava nascosto nell’ombra.
Poi per riempire il vuoto del tempo aveva incominciato ad ascoltare e a esaudire tutti gli esseri che chiedevano aiuto. Solo quelli, però, che salivano da lui e lo pregavano come fosse un dio: il loro dio.
E tutto scorreva senza fine. Sempre uguale.
Erano mesi che, di quando in quando, sentiva tuoni diversi dal solito. Erano più secchi, più frequenti, cambiavano tonalità: più alti, più bassi, più profondi, più acuti, continui.
Poi il silenzio e solo il rumore cupo di quelle cose in cielo, che si allontanavano e non erano aquile, mentre laggiù, vicino al mare: il fumo e il fuoco.
In quel tempo, davanti alla grotta erano passati uomini con divise diverse, che parlavano lingue diverse, ma con tutti gli era bastato concentrarsi ed erano andati oltre, come se quell’antro buio non fosse degno neanche di essere guardato.
Anche quando pioveva e lì avrebbero potuto trovare riparo, preferivano scendere più giù, dove c’erano altre caverne e lui, da lì, sentiva arrivare l’odore del fuoco e del cibo che facevano scaldare, mentre voci giovani ridevano forte e cantavano.
Sapeva che nel loro cuore c’era la paura di morire troppo presto. Paura, insieme alla voglia di scappare, ma anche loro come lui ubbidivano ad un capo e avevano un nemico da sconfiggere.
Era qualche giorno che i soldati se ne erano andati, trascinandosi dietro le loro pesanti armi.
Non si sentivano più tuoni vicini, ma, lontano, verso il punto in cui la luce era più alta, i colpi erano ricominciati e si spostavano verso di lui, lentamente, ma inesorabilmente.
La paura e la morte si avvicinano ancora.
Quel giorno lo sentiva nel cuore e nella mente, dove risuonavano voci e grida, mentre il sole era sempre più alto.
Poi lo vide.
Se ne stava lì, seduto a guardare verso la valle e più lontano il mare.
Era un ragazzino: lungo e secco. Gambe stecchite, che spuntavano da pantaloncini laceri e una canottiera sporca, strappata in più punti sulla schiena.
Forse è caduto.
Era impolverato e si vedeva il sangue secco sul tessuto e ne usciva ancora da profondi graffi sulle gambe.
Deve aver corso, senza badare alle rocce e ai rovi.
Pure i capelli erano ingrommati di terra e sangue.
È caduto correndo… Fuggiva. Ha del sangue anche in faccia, ma non sembra ferito.
Pensava ancora dall’ombra.
Il ragazzino aveva il respiro affannato e le labbra screpolate per l’arsura.
Se ne stava immobile: nonostante il caldo e la sete che certamente doveva avere, sembrava non si fosse accorto dell’acqua che sgorgava da una delle colonne di roccia vicino all’ingresso della caverna.
Il tempo passava, il sole era alto, inesorabile.
Alzati su, che cosa aspetti? Vai a bere
continuava a pensare.
Il piccolo non girò neanche la testa.
Solo allora si accorse che la polvere all’angolo degli occhi era lavata via: stava piangendo.
"Che cosa vuole da me, non è come gli altri: non mi chiede nulla, non mi ha portato nulla.
Se non gli servo, faccia quello che vuole: basta che non entri, altrimenti…"
Pensò risentito perché non si rivolgeva a lui con il solito timoroso rispetto.
Ormai si era abituato a essere la magia della montagna, a cui tutti pensavano e si rivolgevano. Sempre.
Il sole aveva cominciato a scendere e quello era ancora lì a guardare, senza vedere.
Gli rivolse il pensiero e sentì la sua paura e la riconobbe.
Luce, tuono, distruzione: la sua paura.
Poi forte, impotente, avvertì l’odio: come il suo.
Si fermò nella sua mente e vide...
Capitolo III
Il ragazzino stava uscendo di corsa dal portone di un bel palazzo di via Alloro, vecchia strada della città vicino al mare, che aveva sentito chiamare Palermo. Portava direttamente alla riva e al porto. La casa era miracolosamente in piedi dopo i bombardamenti di primavera, che anche lui aveva sentito forti e spaventosi qualche mese prima, quando l’erba sulla montagna era ancora verde.
Intorno chiese e palazzi sventrati e distrutti.
Dal balcone del primo piano una bella donna, alta, capelli neri e occhi chiari come il mare, si sporgeva, gli gridava di non correre e di tornare presto dopo aver preso il pane con la tessera, senza fermarsi a giocare. Lo diceva col tono di voce dolce e rassegnato di chi sa che non sarà ubbidito, perché i bambini sono come l’acqua, che non la puoi fermare senza farla imputridire.
Si doveva fare la fila anche la domenica al forno nella grande piazza, poco lontana da casa: l’unico che ancora funzionava nel quartiere.
A Santino, così l’aveva chiamato la donna dal balcone, nonostante il caldo e le macerie che occupavano le strade, piaceva andare nella piazza larga, piena di sole, dove le bombe avevano spazzato via le casupole addossate alla basilica e ai vecchi palazzi e avevano lasciato un grande spiazzo libero, con i detriti accumulati al centro da soldati e civili, dove i ragazzini potevano correre e saltare su e giù.
Poi c’era Salvina che, quando giocavano a prendersi, poteva toccare con la mano e si sentiva il cuore battere forte forte in gola.
Tornava piano verso casa per far durare il più possibile il suo tempo di libertà.
Era tutto sudato, per il gran correre e l’emozione di aver abbracciato per caso la ragazzina dai capelli d’oro, che stava per scappargli.
Si era tirato subito indietro e l’aveva lasciata andare, ma lei si era voltata e gli aveva sorriso.
Aveva una gran fame, ma non osava sbocconcellare il pane, anche se era nero, non sapeva più di pane e se lo lasciavi lì si copriva di muffa verde. L’anno prima, quando c’era ancora quello bianco, sua mamma gli aveva stampato cinque dita sulla faccia, perché si era accorta che aveva mangiucchiato una mafalda. Profumava così tanto, anche se i semi di sesamo non c’erano già più…
In quei tempi però le cose piccole, da bambini, erano colpe grosse. Tutti avevano fame e spettava a papà fare le parti a casa e a nessun altro.
Fece i gradini a due per volta; pensava sempre che, se fosse riuscito ad arrivare sul pianerottolo prima di contare fino a dieci, non sarebbe successo nulla di brutto a loro e alla loro casa e per questo barava e gli ultimi numeri li contava più lenti.
Entrò dalla porta dell’alloggio al primo piano, che rimaneva socchiusa, e riprese a correre per il lungo corridoio verso la cucina.
La mamma era ai fornelli e dai vapori venivano profumi che facevano brontolare lo stomaco a Santino. Posò il pane sul tavolo di marmo, bianco di farina. La portava Nunzio, che un po’ di zucchero, caffè e farina li rimediava sempre e spesso anche altre cose che facevano festa.
Quella domenica, la farina, comparsa da chissà dove, era servita a preparare i causunedda, insieme alla zia Crocifissa, sorella del papà, che prima viveva a Ragusa, dove faceva la maestra.
Era ancora giovane e bella, ma non si sarebbe mai più sposata e ora viveva con loro.
Il suo unico amore era un aviatore che non era più tornato in licenza per sposarla, ché Quei maledetti inglesi, bastardi e traditori, glielo avevano ucciso, bello come il sole com’era.
Crocifissa aveva giurato che gli sarebbe rimasta sempre fedele e nessun uomo l’avrebbe mai più amata.
Come faceva sempre, il bimbo girò veloce intorno al tavolo e, spingendosi contro la credenza,
– Fai cadere tutto, Santino! – corse verso lo studio del padre, che, quando tornava, voleva che si facesse sempre vedere e gli desse un bacio.
La porta lasciava filtrare una lama di sole.
Papà non era solo.
Santino si fermò, si lasciò scivolare a terra e stette ad ascoltare.
L’istinto gli diceva che non erano amici del papà.
Le parole non le capiva: due uomini parlavano con lui, ma non erano i soliti colleghi.
Papà era un professore di filosofia e insegnava nel Regio Liceo Umberto I in Via Sant’Anna, molto vicino a casa loro e alla sua scuola, tanto che lui, quando usciva prima, che capitava spesso perché di maestri e maestre ne mancavano sempre, andava ad aspettarlo davanti al Liceo, per tornare a casa per mano.
Si sentiva importante quando tutti glielo salutavano per strada:
Buona giornata, Professore… Buon pranzo, Professore… Professore…
In quei momenti era felice e la paura degli scoppi e dei morti, tirati fuori dalle macerie, sembrava lontana, in un altro mondo.
Non erano colleghi quelli: si capiva che lo stavano minacciando.
Di sconosciuti ne venivano tanti da qualche mese a casa. Tutti, però, parlavano piano, perché le voci non uscissero fuori, ma lui, per spiarli e sentire che cosa dicevano, si era nascosto tante volte sull’armadio della camera di Carmela, che dava sullo studio attraverso un lucernario.
Di lì li sentiva dire che il papà, quando gli americani avessero liberato la Sicilia e la città, doveva fare il Sindaco di Palermo, perché tutti lo stimavano, lo conoscevano e avevano bisogno di lui.
Papà faceva il modesto e diceva che non era capace, che c’era sicuramente qualcun altro più bravo ed esperto di lui per quel lavoro così difficile. Ma aveva piano piano incominciato a immaginare come fare e con chi parlare, come organizzare l’amministrazione e il futuro per la città.
Lui non capiva tutto, certo si sentiva gonfiare di orgoglio per il suo papà, ma non poteva dire niente, altrimenti, altro che uno schiaffo, lo avrebbero picchiato per bene e chiuso in casa, se avessero capito che aveva ascoltato tutto di nascosto. Così lui non sarebbe più potuto uscire a correre, giocare a prendersi e a vedere Salvina.
C’erano state anche discussioni forti, perché il papà non voleva sentir parlare di un Don Alvaro, che doveva essere molto cattivo, se lo chiamava con quei nomi, che, se la mamma li avesse sentiti da lui, gli avrebbe gonfiato le labbra di schiaffi. Una volta aveva cacciato anche di casa un uomo che gli aveva parlato di quel signore.
Dopo quell’episodio, nessuno aveva più litigato e lui sentiva gli amici di papà fare discorsi per ricostruire le case e dare lavoro a tutti, dopo che il fascismo fosse sparito.
Lui sapeva che cosa era il fascismo, perché era un Balilla e gli piaceva la divisa con la camicia nera e il fazzoletto azzurro. Il fez, invece, lo faceva sentire un po’ ridicolo e non voleva metterlo.
Ma la mamma gli diceva:
Santino, non fare storie o i tuoi compagni rideranno di te e il signor Maestro ti punirà.
La cosa che gli piaceva di più, però, era il moschetto, uguale al fucile 91 dei soldati, il Balillino, che nel chiuso della