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Il sosia
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Il sosia

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Il sosia è un romanzo di Fëdor Dostoevskij pubblicato nel 1846. Narra la storia del consigliere titolare Jakov Petrovič Goljadkin, di cui è descritto passo dopo passo il suo sdoppiamento psichico dal quale viene progressivamente travolto nell’incubo di un altro sé stesso. Jakov Petrovič è innamorato della figlia del proprio superiore, Klara Olsuf'evna; dopo essere stato vergognosamente cacciato da una festa presso il palazzo di lei, incontra una curiosa figura che non solo gli somiglia in maniera impressionante, ma porta anche il suo stesso nome, oltre ad aver vissuto la sua stessa storia e provenire dal suo stesso paese. Egli lo segue in ogni luogo, ed è presente specialmente nelle situazioni più goffe e imbarazzanti: col suo sorriso beffardo e le sue battute pungenti non esita a umiliare ulteriormente il protagonista del racconto.
LanguageItaliano
Release dateDec 27, 2022
ISBN9788874174027
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    Book preview

    Il sosia - Fedor Michajlovic Dostoevskij

    Informazioni

    In copertina: Egon Schiele, Doppio ritratto Benesch, 1913

    © 2022 REA Edizioni

    Via S. Agostino 15

    67100 L’Aquila

    www.reamultimedia.it

    redazione@reamultimedia.it

    www.facebook.com/reamultimedia

    Questo e-book è un’edizione rivista, rielaborata e corretta, basata sulla traduzione di Carol Straneo del 1933. La casa editrice rimane comunque a disposizione di chiunque avesse a vantare ragioni in proposito.

    I

    Mancava poco alle otto del mattino, quando il consigliere titolare Jàkov Petròvic Goljàdkin si svegliò da un lungo sonno, sbadigliò, si stiracchiò e, alla fine, aprì gli occhi del tutto. Per un paio di minuti, però, rimase sdraiato sul suo letto, senza muoversi, come una persona che non è ancora pienamente sicura se sia desta o se dorma tuttora, e se, vero e reale sia tutto ciò che le si svolge intorno, o se sia la continuazione delle disordinate fantasticherie dei suoi sogni. Tuttavia, presto i sensi del signor Goljàdkin cominciarono ad accogliere con maggior chiarezza e precisione le loro sottili impressioni quotidiane. I muri verde sporco della sua piccola camera, affumicati, impolverati, il suo cassettone di mogano, le sedie di finto mogano, la tavola dipinta di rosso, il divano turco di tela incerata di color rossiccio a fiorellini verdi e, finalmente, il vestito, tolto in fretta la sera prima e abbandonato tutto appallottolato sul divano, lo guardarono come vecchi conoscenti. Infine il giorno autunnale, grigio, torbido e sporco, gettò verso di lui un’occhiata così rabbiosa e con una smorfia così acre attraverso la finestra appannata della sua camera, che il signor Goljàdkin non potè più dubitare in nessun modo di trovarsi, non già in un qualche lontanissimo impero, ma nella città di Pietroburgo, nella capitale, in via Scestilàvocnaja, al quarto piano di una casa molto grande e solida, nel suo appartamento. Dopo aver fatto una scoperta così importante, il signor Goljàdkin richiuse gli occhi convulsamente, come se rimpiangesse il suo sonno di poco prima e desiderasse di farlo tornare per un momentino. Ma dopo un minuto con un balzo saltò fuori del letto, probabilmente perché aveva infine trovato quell’idea intorno alla quale si erano aggirati i suoi pensieri fino allora distratti, non ancora ricondotti all’ordine necessario. Saltato giù dal letto, corse subito al piccolo specchio rotondo che stava sopra il cassettone. Sebbene la figura che si rifletteva nello specchio, assonnata, debole di vista, abbastanza calva, fosse proprio una figura così insignificante da non attirare su di sé, a primo sguardo, l’attenzione particolare di nessuno, tuttavia il suo possessore rimase, evidente­ mente, soddisfatto appieno di tutto quello che vide nello specchio. «Sarebbe stato un bello scherzo, — disse il signor Goljàdkin a mezza voce, — davvero sarebbe stato un bello scherzo se oggi non avessi avuto tutto a posto, se qualche cosa, per esempio, non fosse stata come doveva essere; se mi fosse spuntato fuori un qualche foruncoletto superfluo, o mi fosse accaduta una qualche altra contrarietà; invece, per ora non c’è male; per ora tutto va bene ».

    Molto contento perché tutto andava bene, il signor Goljàdkin rimise lo specchio al posto di prima, e poi, nonostante che fosse a piedi nudi ed avesse conservato quel costume in cui aveva l’abitudine di andare a dormire, corse alla finestra, e con grande interesse cominciò a frugare con gli occhi nel cortile della casa, sul quale si aprivano le finestre del suo alloggio. Evidentemente, anche quello che cercava nel cortile lo appagò del tutto; il volto gli si illuminò di un sorriso soddisfatto. Poi, — dopo aver guardato dietro al tramezzo, nello stanzino di Petrùska, il suo cameriere, ed essersi assicurato che Petrùska non c’era, — in punta di piedi si avvicinò alla tavola, aprì un cassetto, frugò nell’angolo più remoto di questo cassetto, estrasse, finalmente, di sotto a vecchie carte ingiallite e ad altra robaccia, un logoro portafogli verde, lo aprì attentamente ed accuratamente, e con gioia guardò nella tasca più profonda e più riposta. Probabilmente anche il mazzo di biglietti verdolini, bigiognoli, azzurrini, rossicci e di vari colon guardò il signor Goljàdkin con molta affabilità e con aria di approvazione: raggiante in viso, egli pose davanti a sé sulla tavola il portafogli aperto e si fregò forte le mani in segno di grandissima soddisfazione. Alla fine lo trasse fuori, il suo consolante mazzetto di biglietti di banca e, certo per la centesima volta dal giorno innanzi, cominciò a ricontarli, strofinando accuratamente ogni foglietto fra il pollice e l’indice. «Settecentocinquanta rubli in biglietti di banca! — concluse alla fine, a mezza voce. — Settecentocinquanta rubli... è una somma considerevole. E’ una bella somma, — seguitò con voce tremante, resa un po’ debole dalla gioia, stringendo il mazzetto fra le mani e sorridendo significativamente, è una bellissima somma! A chiunque piacerebbe questa somma! Vorrei vedere adesso una persona, per la quale questa somma fosse una somma da niente. Una somma simile può condurre lontano un uomo »...

    « Però, che cos’è questo? — pensò il signor Goljàdkin, — e dov’è mai Petrùska? ». Ancora sempre con lo stesso costume indosso, guardò per la seconda volta dietro al tramezzo. Dietro al tramezzo, Petrùska non c’era ancora; e solamente il samovàr, posato là, sul pavimento, si irritava, si accalorava e andava fuori di sé, minacciando continuamente di traboccare, e borbottava qualche cosa al signor Goljàdkin con foga, rapidamente, nel suo bizzarro linguaggio, barbugliando e soffiando e probabilmente diceva questo: prendetemi dunque, buona gente; come vedete, sono perfettamente pronto e al punto giusto.

    « Che il diavolo se lo porti! — pensò il signor Goljàdkin. Quel pigro briccone può, alla fine, far uscire dai gangheri una persona; dove se ne va a zonzo? ». In preda ad una giusta indignazione entrò nell’anticamera, che consisteva in un piccolo corridoio, in fondo al quale c’era la porta che dava sul pianerottolo, aprì un tantino questa porta e vide il suo servitore, circondato da un rispettabile gruppo di servidorame d’ogni risma e da un’accozzaglia di gente della casa e di estranei. Petrùska raccontava qualche cosa e gli altri ascoltavano. A quanto sembra, né il tema della conversazione, né la conversazione stessa piacquero al signor Goljàdkin. Egli chiamò subito Petrùska e ritornò in camera malcontento, e perfino sconcertato. « Questo briccone, per meno di un soldo, sarebbe pronto a vendere una persona, e tanto più il suo padrone, — pensò fra sé; e lo ha venduto, lo ha venduto di sicuro, sono pronto a scommettere che lo ha venduto, per meno di una copeca. Ebbene che c’è?...».

    — Hanno portato la livrea, signore.

    — Indossala e vieni qui.

    Dopo aver indossato la livrea, Petrùska, sorridendo scioccamente, entrò nella camera del padrone. Era mascherato in un modo strano fino all’inverosimile. Aveva una livrea da lacchè, verde, molto usata, con dei galloni d’oro sfilacciati e, a quel che sembrava, fatta per un uomo alto, più di Petrùska. Teneva in mano il cappello, anch’esso con galloni e con penne verdi, ed al fianco aveva una spada da lacchè entro un fodero di cuoio.

    Infine, per completare il quadro, Petrùska, seguendo la sua prediletta abitudine di andar sempre vestito alla carlona, era anche allora a piedi nudi. Il signor Goljàdkin squadrò Petrùska da tutti i lati, e parve rimanerne soddisfatto. La livrea, evidentemente, era stata presa a nolo per qualche occasione solenne. C’era da notare ancora che, durante l’esame, Petrùska guardava il suo padrone con una specie di strana aspettativa, e ne seguiva ogni movimento con una straordinaria curiosità, la qual cosa turbava estremamente il signor Goljàdkin. - Ebbene, e la carrozza?

    - Anche la carrozza è arrivata.

    - Per tutto il giorno?

    - Per tutto il giorno. Venticinque rubli di carta.

    - Hanno portato anche gli stivali?

    - Hanno portato anche gli stivali.

    - Tanghero! Non puoi rispondere « sissignore » ? Dammeli qui.

    Dopo aver mostrato la sua contentezza, perché gli stivali andavano bene, il signor Goljàdkin chiese il tè e il necessario per lavarsi e radersi. Si rase molto accuratamente e si lavò nello stesso modo, prese il tè in fretta e si accinse alla sua principale e definitiva vestizione: indossò dei calzoni quasi perfettamente nuovi; poi una camicia con bottoni di bronzo, un panciotto a fiorellini molto chiari e graziosi, annodò al collo una cravatta di seta variopinta e alla fine indossò l’uniforme, anch’essa nuova nuova e spazzolata in ogni cura. Mentre si vestiva, guardò più volte con amore i suoi stivali, sollevando ogni momento ora l’una, ora l’altra gamba, ammirandone la foggia, e intanto mormorava a sé stesso qualche cosa sotto voce, e talora ammiccava al suo pensiero con una smorfietta espressiva. Del resto, quella mattina il signor Goljàdkin era estremamente distratto, perché quasi non si accorgeva dei sorrisetti e delle smorfie che gli indirizzava Petrùska, mentre lo aiutava a vestirsi. Alla fine, dopo avere sbrigato tutto ciò che bisognava, il signor Goljàdkin, completamente vestito, mise in tasca il suo portafogli, ammirò un’ultima volta Petrùska, che aveva calzato gli stivali ed era anche lui, in certo qual modo, perfettamente pronto, e dopo aver visto che tutto ormai era stato fatto, e che non c’era più motivo di aspettare, in fretta, affannandosi, con un piccolo tremito nel cuore, corse giù per le scale. Una carrozza di piazza, azzurra, con certi scudi gentilizi, si accostò rumorosamente alla scala. Petrùska, scambiando un ammicco col vetturino e con alcuni sfaccendati, fece sedere il suo padrone nella carrozza; con una voce insolita, e trattenendo a stento una stupida risata, gridò: «avanti!», saltò sul predellino posteriore e, allora il tutto, con strepito e baccano, risonando e scricchiolando, corse per il Njèvskij prospèkt.

    L’equipaggio azzurro aveva appena fatto in tempo ad oltrepassare il portone, che il signor Goljàdkin si fregò convulsamente le mani e si mise a ridere di un riso sommesso, silenzioso, come una persona di carattere allegro cui sia riuscito di giocare un bel tiro, del quale sia ben contenta. Però, subito dopo quel moto di allegria, la risata si mutò sul volto del signor Goljàdkin in un’espressione strana, come di inquietudine. Nonostante che il tempo fosse umido e fosco, egli abbassò tutti e due i vetri della carrozza e cominciò ad osservare i passanti a destra ed a sinistra con viva attenzione, prendendo subito un’aria corretta e grave, non appena si accorgeva che qualcuno lo guardava. Alla svolta dal Litjèjnyj prospèkt sul Njèvskij sussultò per una sensazione sgradevolissima e, corrugandosi come un poveretto cui abbiano inavvertitamente pestato un callo, in fretta, quasi con un moto di paura, si rannicchiò nell’angolo più scuro della sua carrozza. Si trattava di questo, che aveva incontrato due suoi colleghi, due giovani impiegati dell’amministrazione ove anch’egli prestava servizio.

    Anche quegli impiegati, come sembrò al signor Goljàdkin, furono dal canto loro estremamente meravigliati di avere incontrato il loro compagno in quelle condizioni: anzi uno di essi accennò col dito al signor Goljàdkin. Al signor Goljàdkin parve che l’altro lo chiamasse forte per nome, cosa che, per via, s’intende, era molto scorretta. Il nostro eroe si rincantucciò e non rispose. «Che ragazzacci! — si mise a ragionare fra di sé. — Che c’è poi di strano? Una persona in carrozza; una persona ha avuto bisogno di andare in carrozza, ed ecco, ha preso una carrozza. Vera marmaglia! Io li conosco, sono dei veri ragazzacci, che bisognerebbe ancora frustare! Non farebbero che giocare a testa e croce quando prendono lo stipendio, e gironzolare chissà dove; ecco quello che sanno fare. Avrei detto loro qualche cosa, ma solamente .. ». Il signor Goljàdkin non terminò e si sentì venir meno. Un’agile pariglia di cavallini di Kazàgn, ben nota al signor Goljàdkin, attaccata ad un elegante calesse, stava per oltrepassare rapidamente la sua carrozza, a destra. Il signore che sedeva nel calesse, avendo visto per caso la faccia del signor Goljàdkin, che abbastanza imprudentemente aveva sporto la testa dal finestrino della carrozza, rimase anch’egli, evidentemente, stupefatto da quell’incontro inaspettato e, chinatosi in fuori quanto potè, con grande curiosità ed interesse, cominciò a guardare in quell’angolo della carrozza dove il nostro eroe si era affrettato a nascondersi. Il signore in calesse era Andrèj Filìppovic, capo divisione nel dicastero al quale era addetto anche il signor Goljàdkin, in qualità di aiuto del capo ufficio. Il signor Goljàdkin, vedendo che Andrèj Filìppovic lo aveva proprio riconosciuto, che lo guardava con tanto d’occhi, e che in nessun modo era possibile nascondersi, arrossì fino agli orecchi. Salutare o no? Farsi vivo o no? Confessare o no? — pensava in una indescrivibile angoscia il nostro eroe, — oppure far finta di non essere io, ma qualcun altro che mi somigli straordinariamente e guardare avanti come se niente fosse? «Proprio così, non sono io, non sono io, e basta », diceva il signor Goljàdkin, levandosi il cappello dinanzi ad Andrej Filìppovic, senza distogliere gli occhi da lui. «Io, io non ho fatto nulla, — balbettava a stento, — non ho fatto proprio nulla, non sono affatto io, non sono io, e basta ». In breve, però, il calesse sorpassò la carrozza, ed il magnetismo degli sguardi del superiore cessò. Nondimeno egli continuava ad arrossire, a sorridere, a balbettare qualche cosa fra sé... «Sono stato io uno stupido a non farmi vivo, — pensò, alla fine, — bisognava comportarsi audacemente e con una franchezza non priva di nobiltà: è così, è così, Andrèj Filìppovic, bisognava dire, anche io sono invitato al pranzo, e basta!». Poi, ricordatosi all’improvviso della figura che aveva fatta, il nostro eroe avvampò come una fiamma, corrugò le sopracciglia e gettò un temibile sguardo di sfida all’angolo anteriore della carrozza, uno sguardo destinato per davvero ad incenerire di colpo tutti i suoi nemici. Finalmente, a un tratto, per chissà quale ispirazione, tirò il cordone attaccato al gomito del vetturino-cocchiere, fece fermare la carrozza e ordinò di tornare indietro, in via Litjèjnaja. Si trattava di questo, che il signor Goljàdkin aveva sentito il bisogno immediato, per la sua propria tranquillità, probabilmente, di dire qualche cosa di molto interessante al suo dottore Krestjàn Ivànovic. E sebbene co­ noscesse Krestjàn Ivànovic da pochissimo tempo, e precisamente fosse stato a trovarlo una sola volta la settimana passata, per certe sue occorrenze, nondimeno, poiché il dottore, come si dice, è come un confessore, sarebbe stato stupido volerglisi nascondere, mentre quello aveva il dovere di conoscere il paziente. «D’altra parte, sarà bene tutto questo? — continuava il nostro eroe scendendo dalla carrozza davanti alla porta di una casa a cinque piani di via Litjèjnaja, vicino alla quale aveva fatto fermare la sua carrozza — sarà bene tutto questo? Sarà corretto? Sarà a proposito? Del resto, che importa? — seguitava, salendo le scale, ansando e comprimendo i battiti del cuore, che in lui aveva l’abitudine di battere per tutte le scale altrui — che importa? Io parlerò delle cose mie, e qui non c’è nulla che mi possa pregiudicare... Nascondersi sarebbe stupido. Ecco, io farò finta, in certo qual modo, di non entrarci per nulla, e che così, passando... Ed egli vedrà che così dev’essere».

    Ragionando in questo modo, il signor Goljàdkin salì al secondo piano e si fermò davanti all’appartamento numero cinque, sulla cui porta era attaccata una bella targhetta con la scritta:

    Krestjàn Ivànovic Rùtjenspits, dottore in medicina e chirurgia.

    Fermatosi, il nostro eroe si affrettò a dare alla propria fisonomia un aspetto corretto, disinvolto, non privo di una certa amabilità e si preparò a tirare il cordone del campanello. Dopo essersi preparato a tirare il cordone del campanello, rifletté immediatamente ed abbastanza a proposito che forse sarebbe stato meglio ripassare il giorno dopo, e che per il momento non ne aveva una gran necessità. Ma poiché il signor Goljàdkin sentì all’improvviso i passi di qualcuno su per le scale, cambiò subito la sua nuova decisione e nello stesso tempo, ma ormai con l’aspetto più deciso, suonò alla porta di Krestjàn Ivànovic.

    II

    Il dottore in medicina e chirurgia Krestjàn Ivànovic Rùtjenspits, un uomo assai robusto, sebbene già di una certa età, dotato di folte sopracciglia e fedine che cominciavano ad incanutire, di uno sguardo espressivo, brillante, col quale soltanto, a quel che pareva, scacciava tutte le malattie e, finalmente, di un’onorificenza importante, era seduto quella mattina nel suo gabinetto, nella sua comoda poltrona, e beveva il caffè, che gli aveva portato con le proprie mani la moglie, fumava il sigaro e prescriveva di tempo in tempo delle ricette ai suoi pazienti. Dopo aver prescritto un’ultima fialetta ad un vecchietto che soffriva di emorroidi ed avere riaccompagnato il vecchietto sofferente alla porta laterale, Krestjàn Ivanovic sedette, in attesa della visita successiva. Entrò il signor Goljàdkin.

    Evidentemente, Krestjàn Ivànovic non lo aspettava affatto e non desiderava nemmeno di vedere davanti a sé il signor Goljàdkin, perché subito si turbò per un istante ed involontariamente mostrò sul suo volto un’espressione strana, perfino, si può dire, malcontenta. Poiché, da parte sua, il signor Goljàdkin, poco a proposito, si scoraggiava e si smarriva quasi sempre nei momenti in cui gli accadeva di dover avvicinare qualcuno per i suoi affarucci, così anche ora, non essendosi preparato la prima frase, che in simili casi era per lui una vera pietra d’inciampo, si confuse moltissimo, mormorò qualche cosa, — una scusa, forse, — e, non sapendo più che fare, prese una sedia e sedette. Ma, avendo pensato che si era seduto senza esserne stato invitato, sentì subito la sua scorrettezza e si affrettò a correggere lo sbaglio che aveva commesso per ignoranza del mondo e delle belle maniere, alzandosi immediatamente dal posto che aveva occupato senza che gli fosse stato offerto. Poi, ritornato in sé, ed accortosi confusamente di aver fatto due sciocchezze insieme, si decise, senza indugiare un istante, ad una terza sciocchezza, cioè provò a tirar fuori una scusa, mormorò qualche cosa sorridendo, arrossì, si confuse, tacque con aria espressiva e, alla fine, sedette definitivamente e non si alzò più, e solo per ogni eventualità si armò di quel suo sguardo di sfida che aveva il potere straordinario di incenerire mentalmente e di ridurre in polvere tutti i nemici del signor Goljàdkin. Per di più, questo sguardo esprimeva appieno l’indipendenza del signor Goljàdkin, cioè diceva chiaramente che il signor Goljàdkin non faceva proprio niente di speciale, che egli se ne stava a sé, come tutti, e che in ogni caso egli era fuori questione. Krestjàn Ivànovic tossì, raschiò, evidentemente come segno della sua approvazione e del suo consenso a tutto ciò, e fissò uno sguardo indagatore, interrogativo sul signor Goljàdkin.

    - Io, Krestjàn Ivànovic, — cominciò il signor Goljàdkin, con un sorriso, — sono venuto a disturbarvi per la seconda volta, ed

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