Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Ignis Iuvenis
Ignis Iuvenis
Ignis Iuvenis
Ebook908 pages12 hours

Ignis Iuvenis

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Non è facile vivere con la consapevolezza di avere dietro di sé soltanto il buio. Matidia, ragazzina orfana costretta, ma solo dalla propria insicurezza, a vivere in un luogo che odia e al cui interno non si sente in pace, avverte con forza l'enorme peso che porta dentro. E per questo odia. Odia tutti.

Dopo una fanciullezza travagliata e densa di inquietudini in uno sperduto monastero di suore monache, Matidia vuole soltanto una cosa: trovare i propri genitori.

Dal nulla giunge un ragazzo. Il suo nome è Cleopas; non è disposto a rivelare nulla della propria storia ma si mostra inequivocabilmente degno di fiducia. Questo nonostante le sospette circostanze che lo vedono giungere al convento ferito e in fin di vita... Tra i due nasce immediatamente l'intesa e la ragazza ha finalmente un compagno nella sua ricerca.

Il misterioso regno di Onthialbas è un posto vasto e caotico; la cooperazione dunque si allarga. Il primo dei nuovi alleati, di nome Basil, è un eccellente guerriero nella cui stessa cella di prigione Matidia viene gettata per volere della provvidenza. La seconda, Aelia, bambina orfana, fa di tutto per poter seguire la giovane, anche se respinta. Entrambi nascondono una rivelazione.

A questo punto, alcune antiche e fantasiose leggende tramandate dai sacerdoti cominciano a non essere più considerate così assurde e infondate dai nostri personaggi... Ma ogni cosa passa inevitabilmente in secondo piano a causa del dilagare, nel regno, di una violenta epidemia. Il mortale pericolo corso da tutti abbatte ogni muro d'ombra e mistero. L'ultima volontà di Cleopas è quella di rivelare il segreto della propria vita passata. Ma per Matidia la rivelazione deve ancora venire.

A tutto ciò si aggiungono storie di relazioni complicate e profondi sentimenti che sconvolgono personalità singolari quanto intricate. Si narra poi di misteriose armate che compaiono e scompaiono, di labirinti sotterranei, delle raccapriccianti stravaganze di un mago eremita, dei consigli sempre preziosi di una saggia monaca rinchiusa in una torre, dell'amicizia, della morte.
LanguageItaliano
PublisherSimetra Xnil
Release dateJan 14, 2014
ISBN9788868856267
Ignis Iuvenis

Related to Ignis Iuvenis

Related ebooks

Fantasy For You

View More

Related articles

Reviews for Ignis Iuvenis

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Ignis Iuvenis - Simetra Xnil

    Capitolo I

    In giorno :

    27° dell'anno VIII del Regno di Onesimos,

    suor Otacilia,

    madre e guida suprema dell'Ordine

    attesta l'affidamento di:

    Lucilla Arikhantrop

    alle sorelle del convento del Sacro Fiume

    ad opera di:

    sconosciuto.

    Nota: ritrovamento da parte di suor Euphemia.

    Il sole non aveva ancora fatto capolino sopra la frastagliata linea delle montagne. La luce filtrava debolmente attraverso la finestra chiusa e il fioco chiarore che espandeva all'interno della stanza era appena sufficiente a farle distinguere il profilo di ciò che aveva tra le mani. Le sottili parole impresse sulla carta sbiadita parevano tremolare, come a voler acuire il suo sforzo nel distinguerle. E la loro forma esile e allungata contribuiva fastidiosamente allo scopo. Le lettere oblique sembravano danzare, ornate da curve eleganti e ampi svolazzi. Questi, caratterizzati da un tratto talmente sottile che il contrasto dell'inchiostro sulla pergamena era diminuito allo stremo. Tra le sue dita, il foglio pallido pareva stesse per sbriciolarsi: la sua consistenza era quasi impalpabile.

    Gli occhi attenti e scrutatori della ragazza guizzavano sulla sua superficie logora e ne analizzavano frettolosamente ogni singolo dettaglio dettato dal testo che riportava. La sicurezza con cui si spostavano da un'estremità all'altra era pacata e fredda.

    Ad un tratto, il loro movimento rapido si interruppe. La vivacità del loro moto scomparve, per lasciare il posto ad una tetra e opaca fissità. Le palpebre cessarono di muoversi e lo sguardo della giovane divenne velato ed inquietante. Era fisso su quell'unica parola. Si soffermava su ogni sua singola lettera con calma estrema, come se non riuscisse a coglierne a pieno il significato. E il sapore di quella parola, così semplice e straziante, le era amaro oltre ogni dire.

    sconosciuto

    Il significato era semplice... Persona non conosciuta. Persona a cui le suore del convento non avevano saputo attribuire un'identità. O non avevano potuto. Eppure... non poteva essere. Non poteva essere possibile. Non poteva, semplicemente.

    Un smorfia sprezzante le affiorò sulle labbra. Scosse violentemente la testa, furente.

    - Schifosi bastardi. -

    La sua figura impetuosa fu quasi invisibile. Tale fu la foga con cui la giovane uscì dalla stanza, il foglio stretto convulsamente in pugno. Doveva fare in fretta.

    Percorse rapidamente il corridoio scuro. I suoi passi veloci ma leggeri erano completamente soffocati dal lungo tappeto che si srotolava ai suoi piedi. Per questo motivo non badò a procedere con cautela: probabilmente nessuno l'avrebbe udita in ogni caso. Giunta al limitare dello stretto corridoio, dovette invece prepararsi a fare ricorso a tutta la sua pazienza. La lunga scala che portava al piano inferiore si srotolava davanti a lei.

    Con un respiro silenzioso e profondo, calcò il primo scalino. Non doveva lasciarsi sopraffare dalla fretta di concludere il lavoro, o tutti i suoi sforzi sarebbero stati vani. Quelle scale avevano il vanto di scricchiolare vistosamente alla minima pressione, ma dopo quasi quindici anni passati fra quelle mura per lei non costituivano più un problema. L'abilità con cui sapeva riconoscere per istinto i punti più solidi, evitando le assi scricchiolanti, era quasi sorprendente. Nel notarlo in quel particolare momento, le sfuggì un rapido sorriso.

    Con suo sollievo, la successione di gradini terminò, conducendola innanzi al maestoso arco di pietra che dava sul cortile. Soltanto la grata di ferro la separava da quest'ultimo.

    Si precipitò ai piedi del cancello e prese ad armeggiare silenziosamente con il chiavistello. Con lentezza, fece scorrere la barra che chiudeva le grate. Una volta guadagnata l'uscita, la sua corsa proseguì lungo l'ampio portico colonnato. Gettò un'occhiata fugace alla fila di finestre che si susseguivano sulla facciata interna dell'edificio. Le loro sagome le mettevano addosso una fastidiosa ansia, la quale non fece altro che affrettare ulteriormente il suo passo. Con fare sicuro, imboccò un corto corridoio laterale.

    E venne il buio.

    Le pareti parevano convogliarla verso l'oscurità. La loro superficie liscia e fredda non presentava alcuna apertura o spiraglio. Erano regolari, piatte e completamente spoglie. La dura pietra non presentava alcuna fessura od interruzione che facesse entrare luce. O aria. I passi della ragazza erano guidati esclusivamente dal chiarore proveniente dal cortile, ulteriormente smorzato dalla presenza dell'ombreggiato portico.

    La giovane sentì il sangue pulsarle nelle tempie. Avanzava quasi alla cieca, con una lentezza irreale. Gli occhi sbarrati, fissi in un punto indefinito. Passo dopo passo, andò lentamente a delinearsi la sagoma scura ed incombente di una grande porta in legno. Il cuore di lei parve scoppiare, stremato dal ritmo affannoso con cui pompava nel petto.

    Motivi floreali si rincorrevano sulla nera superficie di quell'uscio avvolto dalle tenebre; sottili rami, punteggiati di fiori intagliati, si intrecciavano in curve sinuose. La finezza dei petali, tratti abilmente dalla durezza del legno, perdeva in quel momento ogni dolcezza. In quel momento, era rimasto soltanto il fascino inquietante e freddo delle ombre cupe che quei pregiati intagli gettavano sulla piatta superficie della porta. Era arrivata...

    Prese un lento e profondo respiro. Come d'abitudine nei momenti in cui era necessario sopprimere la tensione. Era determinata a mantenere la concentrazione ai massimi livelli. Un solo passo falso e avrebbe odiato per tutto il suo avvenire il giorno in cui aveva pensato di fare ciò che stava facendo. Poggiò cautamente l'orecchio alla porta.

    Silenzio. Non un suono provenne dall'interno della stanza. Aspettò ancora qualche attimo. Poi, rincuorata, infilò in fretta la mano libera nella tasca di pantaloni. Ne trasse nervosamente la copia della chiave che si era procurata giorni addietro. Doveva fare in fretta: ormai non mancava molto all'alba e le suore di quel convento erano odiosamente attive la mattina presto. La serratura scattò. E lei fu dentro.

    Quella stessa stanza, se l'era lasciata alle spalle nemmeno mezz'ora prima, quando, furtivamente, ne era corsa fuori nascondendo sotto la veste il documento che aveva sottratto dall'archivio. Da allora, non era cambiato nulla.

    La grande tavola rettangolare era ordinatamente sgombra da fogli, pennini e calamai. Un fine panno ornato da pizzi la ricopriva in parte, terminando con un paio di candidi merletti che ricadevano oltre lo spigolo scolpito del piano. Lo schienale della più importante sedia presente nella stanza, spiccava oltre la scura e squadrata sagoma della scrivania; il velluto scarlatto con cui era foderato contrastava vivamente con l'ombroso aspetto degli altri mobili.

    Alla giovane sfuggì un sospiro sollevato. La priora non si era ancora alzata. O, perlomeno, non si era ancora recata nel suo studio. Dall'alta finestra ogivale, pallidi raggi di sole si gettavano sul pavimento della stanza: il tempo stava per scadere.

    La giovane volò verso uno dei cassetti della scrivania. Questo si aprì sotto le sue mani caute con un rumore calmo e sommesso; rivelò una pila di fogli di pergamena e qualche boccetta di inchiostro. Prese uno dei fogli e il liquido nero mentre, in un vano nascosto, si procurò anche una penna da intingere nella boccetta.

    Stese con un movimento fluido la pergamena sul tavolo e, rapidamente, ricopiò i dati riportati sul suo certificato di affidamento al convento. La sua grafia risultò frettolosa e poco chiara, ma non vi badò. Terminata la stesura avvolse il foglio e ricollocò al suo posto tutto ciò di cui si era servita.

    Le era rimasta soltanto una cosa da fare, prima di andarsene. Voltò la testa di scatto verso un mobile con diversi vani alle sue spalle, gli occhi vivi e nervosi: l'archivio. Il cassetto era quello in alto a sinistra, il più carico di carte e documenti. La stanza si riempì del fruscio lieve della carta che scorreva sotto le dita della ragazza.

    Doveva assolutamente ritrovare l'esatta collocazione di ciò che aveva sottratto in mezzo a quella moltitudine di pergamene. Eppure, nonostante tutte le sue attenzioni, fu un attimo.

    Quando, nell'accorgersi del troppo rumore che stava provocando, rese più silenzioso il suo scartabellare nell'archivio, lo udì: l'innocuo, lieve, eppure assolutamente terribile e sconvolgente scalpiccio di passi sopra la sua testa.

    Un'ondata di gelo le attanagliò le viscere. La sua mente si svuotò e la percezione del tempo e dello spazio parve fluire fuori dal suo corpo.

    Scrollandosi violentemente, riprese a passare in rassegna il contenuto del cassetto. Le sue mani correvano sempre più rapide. Fu allora che la vide. Sull'attimo pensò che fosse l'agitazione a suggestionarla ma, prestando più attenzione, dovette ricredersi. Tra le pieghe del foglio ormai sgualcito che teneva tra le mani, era emerso un particolare che non aveva notato poco prima. Un dettaglio completamente sfuggito alla sua analisi. Sul margine inferiore del foglio, scritta in una grafia minuta e quasi illeggibile, si srotolava ordinatamente una fine sequenza di parole. Aguzzò lo sguardo per riuscire a comprenderla. La sua fronte si corrugò aspramente.

    Ritrovati con la bambina un abito femminile e un anello d'oro.

    Per un attimo interminabile, la sua concentrazione rimase indirizzata completamente a quella frase. Pur sforzandosi, non riusciva a coglierne il senso. Le parole sfuggivano alla sua comprensione come piccoli pesci che guizzano fulmineamente tra le rocce del fiume.

    Troppo agitata per poterci riflettere, si riscosse, ripose il foglio nell'archivio e richiuse il vano in legno. Si voltò, lo sguardo volò all'uscio. La sua unica via di fuga e, al contempo, la probabile fonte della sua fine.

    Eppure l'opportunità c'era: di chiunque si trattasse, avrebbe impiegato del tempo a raggiungere il pianterreno. Tutto il tempo di cui aveva bisogno. Prima che quella convinzione scemasse, raggiunse l'ingresso dello studio. La determinazione a riuscire nel suo intento non era mai stata così viva. Aprì cautamente la porta. La stessa oscurità di poco prima venne fatta indietreggiare da lingue di luce provenienti dall'interno. Lei oltrepassò la porta. Nel buio, infilò la chiave nella toppa. Cercando di soffocare lo scatto della serratura, la rigirò completamente, chiudendo l'uscio dietro di sé. Si voltò, in preda alla più totale ansia. E trasalì.

    Diretto, terribile, carico di indicibile e inevitabile fatalità, il suono secco e ritmato degli stessi passi di poco prima la travolse violentemente. Vicini. Troppo vicini. Seppe per certo che ogni speranza di concludere quel piano sciocco e scellerato stava andando in fumo per sempre. Se l'avessero colta lì, il fatto che ormai non si trovasse più con le mani tra i documenti dell'archivio non avrebbe fatto alcuna differenza: quel corridoio aveva un'unica destinazione e le sue intenzioni sarebbero state lampanti in ogni caso.

    Con il cuore che le martellava nel petto, aspettò ansiosamente la sua fine.

    Carichi di una lentezza straziante, i passi si fecero più vicini, tanto che il loro suono cadenzato prese a rimbombarle brutalmente nelle tempie. Le sue mani giacevano abbandonate lungo i fianchi, inerti e insensibili. Il suo respiro cessò di manifestarsi, quasi timoroso di produrre il minimo suono. Poi, quasi in un sogno, quel rumore ritmico e incessante calò di intensità. Divenne appena più lieve. E poi si affievolì ancora. Perse forza. Il suo giungere diventò sempre più difficile da udire, per poi andare ad estinguersi lentamente in uno spazio indefinito e lontano. Completamente. L'aveva scampata.

    L'incredulità minacciò di non farla più muovere, ma lei si destò in fretta. In un lampo, intraprese il percorso a ritroso. Il battito frenetico del cuore ad accompagnarla. Corridoio... cortile... scale... corridoio... Le pareti sfilavano ai suoi lati come frecce silenziose. Il terreno da calpestare si srotolava ai suoi piedi quasi privo della loro attenzione. Alla giovane bastava soltanto avvertire la sua superficie solida accompagnare la sua corsa. Con i polmoni sul punto di scoppiare, irruppe nella sua stanza.

    I suoi muscoli erano tesi allo spasimo, tanto che li sentì tremare quando, provata dall'enorme tensione che aveva sopportato fino ad allora e concedendosi un rantolo di sollievo, si abbandonò sul materasso duro e spoglio del suo letto.

    Le dita si chiusero come artigli sulle lenzuola ruvide e le sue unghie affondarono nel materasso. Il cuore, dopo qualche attimo, prese a battere con più regolarità. La sua testa smise lentamente di pulsare e la sua mente acquistò lucidità.

    Il tempo parve dilatarsi, nel mentre, come a voler attendere che lei si riprendesse prima di ritornare al suo corso regolare. Quando, infine, l'ansia e l'agitazione scomparvero dalla mente e dal corpo della giovane, questa si alzò. Sedette al centro del letto, raccogliendo le gambe e portando le ginocchia al petto, come usava fare di solito. Un sorriso malizioso le incurvò le labbra, lieve e fugace.

    Da fuori, giunse l'acuto canto del gallo accompagnato dai primi, prepotenti raggi di sole.

    La giornata trascorse in fretta. Non in un solo istante di essa la mente della ragazza riuscì a non pensare a quel foglio di pergamena, alla preziosa trascrizione del suo certificato di affidamento al convento, celata sotto il materasso, nella sua stanza.

    Ripeté le preghiere che ogni giorno era chiamata a pronunciare, sfruttando completamente l'automatismo che esse costituivano: non prestando attenzione a parole e significati, come invece era richiesto di fare. Mangiò senza notare il sapore del cibo e senza desiderarne ancora quando la solita, misera razione terminò. Prestò un ascolto distratto alle lezioni private impartitele dall'istruttrice. Se ne rese conto. E non fu l'unica.

    - Ma che stai facendo? - squillò la voce acuta di suor Livilla.

    Lei sollevò di scatto gli occhi e guardò la donna con aria smarrita.

    Anche il ragazzino seduto poco distante alzò lo sguardo. Prima lanciò un occhiata al volto piccato e severo della suora, poi spostò lo sguardo su quello della ragazza, ancora piuttosto confusa.

    Era di qualche anno più giovane di lei; era anche lui un orfano. In quel momento era presente alla sua lezione perché doveva scontare una sorta di punizione: stava trascrivendo un brano di uno dei principali testi della religione.

    La giovane non badò al sorrisino che il compagno ostentò, gettando un'occhiata al suo foglio, nel capire che cosa stesse succedendo. Lei stessa, infatti, era intenta a cercare di comprenderlo.

    Arrossendo lievemente, si rese conto che, per circa metà riga di testo, era andata avanti a scrivere senza intingere la penna nell'inchiostro. Il risultato erano delle parole completamente invisibili.

    - Che cosa ti succede oggi? - incalzò suor Livilla, accostandole ancora di più la boccetta con l'inchiostro. La giovane la fulminò con lo sguardo, mentre lei compiva quel gesto. - Non sei concentrata. -

    - E come posso esserlo? - sbottò la ragazza, gettando lontano da sé la penna e incrociando le braccia attorno al petto.

    - Che cosa intendi? -

    La suora le rivolse uno sguardo indagatore, inclinando il capo e incrociando le braccia a sua volta, lentamente.

    - Non ho mai fatto niente di tanto noioso in vita mia, suora, non vi offendete. -

    Il ragazzino, Hektor si chiamava, andava dimostrandosi sempre più divertito dal piccolo battibecco. Il suo sguardo scaltro ed entusiasta rimbalzava dalla ragazza alla suora sempre più velocemente.

    - Oh! - insorse suor Livilla, visibilmente offesa da quella che riteneva, a ragione, una critica ai suoi metodi di insegnamento. - Non ti permetto di parlare così, signorinella! - asserì con voce acuta.

    Gli occhi della ragazza si assottigliarono ancora di più.

    - Fino a quando avrò il dovere di insegnarti, sarò io a giudicare che cosa è noioso e cosa no. Riprendi il lavoro tu! Non è affar tuo, questo! - si interruppe la suora, gettando un'occhiata di rimprovero al sorridente ragazzino.

    Questi reagì prontamente e in un attimo fu di nuovo gobbo e concentrato sul suo foglio.

    - Sta' su! -

    La schiena del piccolo si drizzò sull'attimo all'ordine dell'istruttrice. Sul suo volto affilato, però, la ragazza vide che il sorriso impertinente non era affatto scomparso.

    Si scambiarono un'occhiata fugace. La giovane ebbe così modo di riversare su di lui parte del suo rancore per quell'atteggiamento canzonatorio. Il ragazzino, da parte sua, fece scomparire sull'attimo quella smorfia allegra dal volto infantile e arrogante: non avevano molta confidenza.

    - Riprendi a scrivere. - intimò suor Livilla.

    Quell'aria autoritaria e imperiosa non si abbinava alla sua figura. Tutti, al convento, sapevano che quella donna era buona come il pane. Quando assumeva quell'atteggiamento era soltanto per un desiderio momentaneo di farsi rispettare. Il suo stesso aspetto non poteva in alcun modo tradire una personalità crudele e priva di sensibilità. Quella corporatura prosperosa e quel volto paffuto e socievole rispecchiavano perfettamente la personalità della suora: affabile, schietta.

    - Forse, se intingessi ogni tanto la penna nell'inchiostro, il tuo compito ti parrebbe meno monotono... - la stuzzicò la donna, tornando a sedersi. Era infatti balzata in piedi quando si era resa conto della piccola sbadataggine della propria allieva.

    Con un sospiro seccato, la ragazza tornò ad impugnare la piuma d'oca, chinandosi sul piccolo tavolo in legno di noce.

    Rimase concentrata ben poco.

    - C'è qualcosa che vorresti dirmi? -

    La giovane sollevò per la seconda volta la testa dal foglio, posando lo sguardo su suor Livilla. La donna se ne stava ritta sulla sua sedia, con i gomiti poggiati all'ampia tavola che si riservava come scrivania.

    - A proposito di cosa? - finse di non comprendere la ragazza.

    La donna esalò un impercettibile sospiro.

    - Del fatto che da quando sei qui dentro la tua attenzione non è rimasta fissa per più di qualche attimo sulla lezione. -

    Suor Livilla, di fronte al suo imperturbabile silenzio, le rivolse uno sguardo stanco e vagamente sconsolato, quasi non riuscisse proprio a comprendere che cosa avrebbe dovuto fare con lei.

    - Non voglio insistere, Matidia. - comunicò con voce affettuosa e più mite. - C'è qualcosa che non va? - ripeté.

    - Va tutto bene. - rispose, dopo parecchio tempo, la ragazza.

    Quelle parole furono il risultato di una riflessione piuttosto profonda: la giovane aveva infatti valutato se fosse il caso o meno di approfittare della situazione. Ora che la donna era interessata a lei, infatti, forse avrebbe dovuto sfruttare la sua disponibilità e cercare di ottenere qualche informazione. Di certo la suora avrebbe saputo chiarire qualche suo dubbio a proposito di ciò che aveva scoperto leggendo il documento, anche se avrebbe dovuto parlare con cautela per non farle capire che l'aveva preso di nascosto e che l'aveva letto.

    Avrebbe potuto verificare se la suora fosse in grado di gettare un po' di luce sulla faccenda. Ma c'era il bambino. Se fossero state sole, avrebbe valutato con più serietà la cosa, ma in presenza di un'altra persona non poteva assolutamente scoprirsi.

    - Non c'è niente. - aggiunse la ragazza, per rafforzare l'affermazione.

    Suor Livilla annuì; la guardò con le sopracciglia inarcate per qualche attimo. Poi, un suo lieve cenno del capo la invitò a riprendere il lavoro che aveva interrotto.

    Era immersa nella solitudine della sua stanza. Laddove nessuno sarebbe giunto a disturbarla. Era accostata alla finestra per godere di una luce forte e chiara. Stava prendendo in esame, questa volta con calma, le informazioni che aveva trascritto quella stessa mattina.

    Dal breve appunto che aveva riportato frettolosamente, ricordò la dicitura completa riportata sul documento.

    In giorno: 27º dell'anno VIII del regno di Onesimos

    Era la data per esteso del suo arrivo al convento. Qualcosa che già conosceva, anche se non ricordava esattamente come ne fosse venuta al corrente.

    Il possesso di quell'informazione le fece sorgere un dubbio. Non era frequente, infatti, che gli orfani ospitati in quel luogo conoscessero il giorno del loro arrivo, in quanto tale ricorrenza non veniva ricordata o festeggiata in alcun modo. Lei ne era a conoscenza e, per di più, con la certezza di qualcosa che si sapeva da sempre: come un'informazione che faceva parte del suo essere. Non aveva mai prestato caso a quell'anomalia.

    suor Otacilia, madre e guida suprema dell'Ordine

    Questa informazione, invece, le parve molto più utile. Non aveva mai conosciuto la precedente madre superiora e non aveva idea di come si chiamasse, pur avendo molto sentito parlare di lei. Per norma, non era consentito pronunciare il nome delle madri precedenti. Ciò che veniva menzionato spesso, però, erano le azioni di madre Otacilia: da tutti ammirate e ricordate con ardore.

    Questi atti, che le erano stati narrati innumerevoli volte, erano approvati anche da lei. Ma non avrebbero potuto, in ogni caso, affievolire l'odio che provava istintivamente nei confronti di quella donna mai conosciuta, per aver fatto l'unica scelta che non condivideva.

    Era un odio che le dispiaceva dover provare, specie per un defunto, ma che non riusciva in alcun modo a respingere. Veniva descritta come una donna infinitamente forte ma, ancora di più, umile. La saggezza e la tenacia che aveva dimostrato in ciò che aveva fatto, non smettevano mai di sorprenderla. Ma come avrebbe potuto bastarle questo per concedere a quella donna il perdono?

    attesta l'affidamento di: Lucilla Arikhantrop

    Il suo nome, per quanto odiato, lo conosceva bene. Non erano in molti a chiamarla così. Soltanto una persona, per la verità, ma sufficiente a sbatterle in faccia quel ricordo ogni volta. Quando lo udiva, il suo sangue cominciava a ribollirle nelle vene e una rabbia cieca si impossessava di lei. Ormai, non avrebbe più avuto la possibilità di dimenticarlo: era stato impresso nella sua mente con un marchio rovente. La sua cicatrice era incancellabile.

    Sollevò gli occhi dal foglio. I ricordi e le vicende legati a quel nome non avrebbero mai smesso di turbarla e per questo odiava più se stessa che la fonte di quell'inquietudine. Si odiava per non aver mai saputo contrastarla, per non avere mai saputo scacciare quell'insopportabile vigliaccheria che affiorava di tanto in tanto in lei.

    Voltò la testa. I suoi occhi incontrarono, per la prima volta quel giorno, il mondo al di fuori di quelle mura.

    Le lezioni l'avevano intrattenuta per tutta la mattinata nello studio dell'istitutrice e lei non aveva ancora avuto modo di rivolgere gli occhi verso una delle cose che più amava.

    Lo sguardo della giovane si perse nei colori accesi del paesaggio fuori dalla finestra. Le parvero spietatamente contrastanti con la serietà e la tristezza dei suoi pensieri. Il sole rifulgeva in tutta la sua luce e forza nel cielo. Il suo calore era infinitamente più insidioso di quella mattina, tanto da coprirle la pelle di un labile velo di sudore. L'atmosfera era afosa e pesante, ma le piaceva. Quel mare di luce accendeva i colori di ogni singolo particolare. Le loro gradazioni risplendevano con forza nell'aria cristallina. Ogni singola foglia, ogni ago di pino le sembrava distinguibile nella brulicante vegetazione dei boschi, mentre piccoli uccelli animavano le chiome degli alberi con il loro canto acuto e trillante.

    Il profilo delle montagne, oltre i boschi, poi, non era mai stato così netto. Le rocce aguzze delle sommità si stagliavano contro il cielo turchino e le rade, bianche nuvole parevano sfiorarle nel loro comparire da dietro le ingombranti masse dei monti.

    La limpidezza del cielo permetteva una visione perfettamente nitida. Fin troppo: la luce pura e cristallina che si espandeva nell'aria dovette farle abbassare, dopo qualche minuto, lo sguardo.

    E i suoi occhi ricaddero inevitabilmente sulla grezza superficie della pergamena che stringeva tra le mani.

    Pur costituendo, lo scritto, una fonte di grande interesse per lei, la sua attenzione si rifiutava di spostarsi oltre il punto a cui era arrivata. La giovane non riusciva a trovare il coraggio di posare gli occhi su quella parola. L'unica. La più importante. Annotata in fretta dalla sua mano rapida quella stessa mattina. Una semplice parola che rimbombava nella sua mente con il fragore di un tuono e, come un tuono, aveva il potere di coglierla sempre impreparata e vulnerabile. Ogni volta che la rileggeva, trasaliva come fosse la prima.

    Seppur malvolentieri, si costrinse a leggerla ancora. Si concesse un profondo respiro prima di farlo.

    sconosciuto

    L'importanza dell'informazione che quella parola celava era vitale per lei. Per quanto dura e difficile da accettare le risultasse.

    Sconosciuto... Si interrogò un'altra volta, carezzandosi i lunghi capelli con aria pensierosa, su che cosa significasse quella straziante ambiguità.

    Forse, pensò, la persona che l'aveva portata fin lì non aveva voluto svelare la sua identità alle suore. Un'eventualità del genere era comprensibile: molti bambini erano stati consegnati alla custodia del convento con il massimo riserbo e i motivi avrebbero potuto essere i più disparati. Ma poteva anche significare che fosse stata lasciata da qualcuno, di proposito, nei pressi del convento.

    Era inutile accumulare ipotesi. Le possibilità erano a dir poco innumerevoli. Ciò la fece sentire, un'altra volta, incredibilmente spaesata e sola.

    Poggiò i gomiti sul davanzale della finestra, dubbiosa. Il suo sguardo si perse su quel verde e ondeggiante mare di luce. La sola cosa che era in grado di fare al momento, era porsi delle domande. Inevitabili e infinite.

    Si chiese se la persona che l'aveva portata fin lì fosse stata sua madre. Molte volte aveva tentato di immaginare il suo aspetto. Probabilmente le somigliava. Forse aveva i suoi stessi capelli... Forse le sue iridi erano screziate di mille diverse lamelle brune e verdi al pari di quelle della ragazza... Sarebbe passato indubbiamente molto tempo prima che avesse potuto saperlo. Se mai l'avesse saputo.

    In ogni caso, era del tutto inutile seguitare ad avanzare ipotesi. Era poco meno di un neonato quando aveva avuto la possibilità di posare gli occhi sulla persona che l'aveva portata lì, nel convento in cui ora viveva, tra orfani abbandonati e suore. Non le restava altro da fare che abbandonare quegli inutili interrogativi e rivolgersi a qualcuno che avrebbe potuto darle delle risposte.

    Riprese la lettura. Un'unica frase da riportare alla mente mancava alla sua analitica ricostruzione.

    ritrovamento da parte di suor Euphemia

    A fatica, la ragazza tentò di dare ordine ai suoi pensieri, nell'impaziente tentativo di ricordare chi fosse quella suora. Era assolutamente certa di non conoscerla. Eppure quel nome le risultava familiare. Emergeva, seppur labilmente, tra i ricordi confusi e sbiaditi della sua triste infanzia, come un minuto sprazzo di luce in mezzo al grigiore della nebbia: le era ben visibile, ma al contempo continuava a sfuggirle.

    Probabilmente anche a questo, come ad ogni altra cosa o persona là dentro, erano legati ricordi e verità che aveva tentato volutamente di sopprimere. Nel qual caso però, sarebbe stato più verosimile che lo ricordasse. Forse con ancora più ardore.

    Dopo qualche attimo abbandonò i suoi sforzi. Nonostante il desiderio fosse forte, non riuscì ad attribuire quel nome ad un volto e il proposito finì per svanire completamente. Non perché avesse rinunciato a seguire quella pista inaspettata, ma perché una sensazione conosciuta era ritornata prepotentemente a distoglierla dai suoi pensieri: il familiare miscuglio tra la cieca rabbia e l'impotente frustrazione che rimaneva sempre in agguato nei più profondi meandri della sua coscienza.

    Il motivo per cui la sua mente non era altro che un'accozzaglia di domande senza risposta era uno solo: lei non aveva radici; non aveva un passato da ricordare e da cui partire; non aveva idea di chi maledire per averla messa al mondo, né conosceva il luogo da cui proveniva.

    Anche se, esclusivamente con le sue forze, aveva costruito solidamente la sua vita e la sua identità, si sentiva irrimediabilmente vuota. Non era riuscita a colmare quel vuoto inquietante e denso di angoscia che portava dentro.

    In fondo, lei non era niente. Non era che il solido involucro di un'anima imprigionata, rifiutata; lasciata morire lentamente fra il cupo grigiore di quelle mura fredde e spoglie.

    Il fatto di non poter rimediare completamente a quel torto subito la faceva sentire una nullità. Avrebbe voluto riuscire a colmare di persona il vuoto che la definiva come un marchio. In qualunque modo. Ma andava oltre le sue possibilità.

    Il suo sguardo corse nuovamente alla vastità del cielo interrotta dalle montagne. A suo avviso, qualcosa che avrebbe potuto levarle quel peso dal petto esisteva, ma era qualcosa di difficile da ottenere, anche se apparentemente sembrava a completa disposizione: la libertà.

    Innumerevoli volte il suo spirito sofferente l'aveva reclamata. Rifiutando la prigionia a cui era costretto, aveva abbandonato il corpo giovane e acerbo della ragazza, per vagare senza meta tra i verdi boschi e le montagne innevate. Libero da ogni vincolo, da ogni costrizione. Altrettante volte lei aveva progettato di accontentarlo, di raggiungerlo nella sua irreale e agognata libertà. Voleva allacciarsi una volta per sempre alla sua anima viva ed errante: iniziare una vita vera.

    Non aveva che da compiere una libera scelta. Aveva ormai l'età per decidere di andarsene e vivere autonomamente. La legge non la obbligava a rimanere al monastero. Poteva andarsene, sposarsi, se avesse voluto, ma comunque andarsene.

    Ogni volta che questi pensieri avevano avuto il sopravvento, però, la razionalità aveva sempre soffocato il loro concretizzarsi.

    La pacata intelligenza, il sangue freddo e l'innata prudenza della giovane emergevano sempre nel momento meno opportuno. O, forse, nel momento giusto. In ogni caso, non si sentiva ancora pronta. Il convento rimaneva pur sempre il luogo in cui era cresciuta, la fonte del suo essere. E, anche se era legata a questo tramite un'ardente fascio d'odio e ira repressa, non poteva fare a meno di considerarlo una sorta di casa: una famiglia. Anche se labilmente, non poteva non provare delle sparute tracce di affetto e riconoscenza nei confronti di coloro che l'avevano curata e mantenuta, cresciuta, accudita.

    Eppure, alla luce di tutto ciò che aveva scoperto quella mattina, non poteva trattenersi. Altre prevedibilmente sconosciute verità, di cui era venuta infine al corrente, erano giunte ad alimentare la sua sete di riscatto. Ora più che mai emergeva prepotentemente in lei la voglia di andarsene, di abbandonare ogni sua ricerca e ambizione, in quanto ogni sua scoperta in quel luogo d'inferno non faceva che ferirla. Ogni fatto di cui acquisiva la conoscenza che gli era sempre stata negata e nascosta la faceva sentire male.

    I suoi pugni serrarono la presa sul vuoto, stringendosi convulsamente. Le sue palpebre si chiusero in un lampo, come a voler impedire allo sguardo di lei di posarsi sulla cruda realtà. Non seppe esattamente quanto le occorse per rallentare nuovamente il battito rabbioso del suo cuore. Quando un fiume straripava, occorreva un forza disumana per arginare nuovamente il suo corso.

    Eppure, quando riaprì lentamente gli occhi, ogni traccia di quel focoso tormento era svanita. Le sue palpebre si schiusero, scoprendo uno sguardo duramente calmo e, per quanto possibile, sereno. Le iridi dorate della giovane parevano aver perso un po' del loro fuoco e della loro luce ardente. Sapeva che era solo una parvenza, un illusione. Quel fuoco era soltanto assopito.

    A mente sgombra, mosse qualche incerto e meditabondo passo, allontanandosi dalla finestra. Le assi del pavimento scricchiolarono familiarmente. In nessun'altra stanza del convento che frequentava abitualmente i suoi passi erano accompagnati dal lento e saporito cigolio del legno sotto i piedi. Era un suono che poteva udire, in tutta serenità e quiete, solamente lì.

    Non era molto grande come locale e nemmeno particolarmente confortevole. Ma era suo e questo era molto per lei. Nessuno aveva idea di quanto necessitasse di quel luogo silenzioso e appartato. Quello di concederle una camera singola era forse il più bel dono che avesse ricevuto in quel luogo. Era la sua remota isola di pace in mezzo al mare in tempesta. Se l'era guadagnata a suon di litigi e zuffe con gli orfani con cui aveva condiviso la camera.

    Durante l'inverno, il freddo si insinuava tra le pietre dei muri; le notti erano gelide e interminabili. In estate, invece, quella piccola e scura stanza assumeva tutto un altro volto: l'ambiente rimaneva piacevolmente fresco e il caldo non aveva la possibilità di entrare copiosamente, come succedeva in molti altri locali.

    L'unica finestra, orientata verso ovest, faceva entrare una quantità di luce più che sufficiente a rischiarare la camera. I vetri erano piuttosto sottili: caratteristica che era sempre stata considerata con fastidio dalla giovane sia per il fatto che non isolavano a dovere il freddo, sia per il rumore ritmico e sgradevole che provocavano, vibrando, quando sferzava il vento.

    Ma c'erano cose di quella vetrata che apprezzava. Come il magnifico, fine mosaico di piccoli frammenti vitrei opachi che occupava la parte superiore della finestra. Ogni singolo pezzo di vetro vantava una sfumatura particolare, differente da quella di tutti gli altri. Vi era rappresentato il rapido volo di alcune cinciallegre tra i folti rami di un albero abbondante di fiori in boccio. La luce, attraversandolo, proiettava sul pavimento un agglomerato di colori brillanti, che assumeva una particolare, calda tonalità al tramonto.

    Il suo letto era addossato all'angolo tra due pareti, distante dalla finestra. Era in legno di noce. Le ruvide lenzuola erano ancora raggrumate in un angolo del materasso consunto. Il cuscino, invece, era abbandonato poco distante, sullo schienale della sedia a dondolo. Questa se ne stava nascosta in un angolo, nell'ombra, coperta da una casacca sporca e da due paia di pantaloni sbiaditi, abbandonati malamente sui suoi sottili braccioli levigati.

    La fattura di quella sedia era indubbiamente pregiata, ma gli anni e l'usura avevano offuscato la bellezza e l'eleganza dei particolareggiati intagli, ora quasi irrimediabilmente rovinati. Non era mai stata particolarmente apprezzata. Da quando aveva fatto il suo ingresso nella stanza, la giovane non aveva saputo attribuirle funzione migliore della segregazione in un angolo, dove non desse fastidio. Nel passarle accanto urtò volutamente, con leggerezza, uno dei suoi duri spigoli.

    La sedia ondeggiò mollemente. Con essa, gli abiti che sosteneva, in un moto lento e languido. La ragazza la oltrepassò.

    Con gesti lenti, la punta delle sue dita andò a sfiorare la superficie liscia della grande cassettiera posta lì accanto. Ultimo elemento di quell'austera stanza. Era di dimensioni notevoli e, per questo, piuttosto ingombrante in quello spazio ristretto. Una grande specchiera ellittica si ergeva sopra di essa. Pareva come voler inerpicarsi, allungandosi verso l'alto, sulla scura parete, fino a raggiungere il soffitto. La cornice dipinta d'oro era grossomodo intatta. La trasparenza del vetro, invece, era offuscata da ampie macchie brune e vistosi graffi.

    La giovane distolse l'attenzione dal grande mobile davanti a sé. Al suono di un lieve sospiro, la sua mano ricadde con leggerezza dalla scura superficie della cassettiera.

    Voltandosi, la ragazza abbracciò con lo sguardo l'intera stanza e ciò che conteneva. Guardandosi quietamente intorno, riscoprì in quei vecchi mobili tutta se stessa. Il legno con cui erano costruiti era impregnato di ricordi. Dolorose rimembranze di un passato che cercava di dimenticare, ma a cui era lieta di potersi volgere in momenti come quello.

    Dopo mesi e anni, da ogni singolo oggetto fluivano esperienze e significati densi di labile e tormentosa nostalgia.

    Meditabonda, la ragazza prese delicatamente in mano un piccolo carillon, poggiato sopra l'ampia cassettiera. Era uno dei più cari tra i suoi oggetti. Ricordò di essere rimasta molto affascinata da quell'oggetto, dopo averlo ricevuto. Era stata ore intere ad analizzarne e studiarne l'ingegnoso meccanismo in ogni particolare.

    Girando la piccola chiave sporgente, una melodia lenta e triste cominciava ad espandersi con suono metallico nell'aria, riempiendola delle sue note malinconiche. Ogni volta che ascoltava quel suggestivo e inquietante motivetto, la sua mente si schiudeva. Ogni pensiero ne fluiva fuori con la cadenza dolce e accattivante della triste melodia. E c'era spazio soltanto per quel lamento malinconico e intenso. Strinse forte tra le dita il piccolo oggetto. Subito, avvertì la familiare freddezza del metallo sotto i polpastrelli.

    No, non era ancora pronta. Non avrebbe ancora abbandonato tutto ciò che era stata fino ad allora.

    Un lampo di determinazione e freddezza le attraversò lo sguardo.

    Aveva ancora parecchie cose da fare.

    Capitolo II

    Il bosco brulicava di vita. Ogni cosa era nel pieno della sua energia e vitalità. Ovunque, insetti ronzanti si sfioravano con leggerezza in voli rapidi e irregolari: il loro fluttuare lento e incantato tra l'erba del sottobosco conferiva un'atmosfera idilliaca, quasi fatata, a quel luogo vivo e rigoglioso. Il cinguettio degli uccelli riempiva l'aria di note cristalline e trillanti che si espandevano, riecheggiando, in gorgheggi di allegra dolcezza.

    L'aria era densa di un piacevole, fresco odore di muschio e di terriccio umido. Matidia se ne riempì i polmoni, prima di chinarsi nuovamente a raccogliere un ramo secco ai suoi piedi.

    Lo spezzò più volte, facendo leva sul ginocchio per poi gettare i pezzi addosso ad una piccola catasta a qualche passo da lei. Si sfregò il viso con la manica della casacca. Nonostante non stesse facendo particolari sforzi, la sua fronte era coperta da un fastidioso e sottile velo di sudore. A pensarci, quella sensazione umida e bollente sulla pelle non era così sgradevole: sapeva di vita.

    Alcune ciocche di capelli umidi aderivano al suo viso e lei le scostò con malagrazia: non aveva intenzione di interrompere il lavoro; avrebbe concluso a tutti i costi ciò che stava facendo prima che giungesse la pioggia.

    Eppure, il trovarsi in mezzo ad una natura così pura e rigogliosa costituiva per lei una distrazione quasi irresistibile. In lontananza, udiva il richiamo insistente della fresca acqua del ruscello che mormorava flebili e suadenti parole gorgogliando tra i sassi. Le sarebbe piaciuto poter seguire il suo corso tra i fitti tronchi degli alberi e camminarci dentro a piedi nudi, come faceva da bambina. Alzò lo sguardo. Sopra la sua testa, avvertiva l'allegro frusciare delle foglie: un concitato miscuglio di suoni vivaci e invitanti. I rami ondeggianti degli alberi si muovevano sopra di lei come a volerla incitare a raggiungerli, come se volessero sfidarla a toccarli.

    I boschi erano la sua casa. Li amava come si amava il luogo in cui si era nati. Era l'unico posto in cui si sentiva del tutto protetta, sicura; l'unico luogo in cui non si sentiva sola. Soltanto in mezzo agli alti alberi fruscianti, il familiare, saldo nodo che le pesava nel petto si scioglieva, con la lentezza sognante del vento che sibilava tra le fronde.

    Quel contatto era ambito a tal punto da portare la giovane a recarsi in quel luogo ogni volta che ne aveva la possibilità. Quel giorno non aveva dovuto attendere a lungo: la possibilità le si era offerta senza il minimo preavviso.

    Si rallegrò tra sé, nel rammentare che in quel momento avrebbe dovuto trovarsi in tutt'altra situazione: probabilmente, ad analizzare meticolosamente e memorizzare il contenuto di qualche testo sacro o storico in compagnia di suor Livilla. Ma la provvidenza aveva deciso di votarsi alla sua causa.

    Era stata la piccola Aelia ad informarla: l'inquietante orfanella dai capelli color del fuoco. Questa, nonostante i modi freddi e distaccati della ragazza, non cessava mai di essere pronta per qualsiasi favore nei suoi confronti.

    - Matidia...? - Fu un sussurro. Nient'altro che un ronzio indistinto in mezzo al rumore delle sue vesti che frusciavano nell'atto della giovane di infilarsi la casacca. Non lo udì.

    - Matidia! - Fu ugualmente un sussurro, ma carico di molta più enfasi e forza. La sua testa si voltò di scatto.

    - Che vuoi? - La domanda risuonò, fredda e sgarbata, con la forza necessaria perché la si udisse fuori, oltre la porta chiusa della sua stanza. Le era bastato un attimo per riconoscere quella voce.

    - Suor Livilla pensa che tu non debba parlarmi con questo tono! Non è vero? Credo di sì... E lo penso anch'io... Sai perché? -

    La sua voce risuonò fin troppo chiara e distinta dallo stretto corridoio, satura della solita, insopportabile e disarmante sincerità. Qualcosa che la ragazza trovava a dir poco inquietante e, ancora di più, sorprendente, per come usciva dalla bocca di quella bambina. Per il modo in cui la piccola orfana non era capace di temere; non temeva di fare o dire niente di sbagliato, non cercava di nascondere se stessa. Aelia non attese una risposta.

    - Perché mi fai stare male quando sei sgarbata, ecco perché! E non credo che tu abbia intenzione di farmi del male... Sbaglio, o è così? Dimmelo perché se non è così hai tutte le ragioni per farmi male con le tue parole. Lo accetterei... Ma so che non è così... -

    La porta si spalancò sotto la presa salda della giovane e il viso pallido della bambina le comparve davanti con violenza. In tutta la forza schietta e inarrestabile dei suoi grandi occhi lucidi, spalancati meravigliosamente ad incontrare il suo viso torvo. Rimase interdetta.

    Stupida!

    La maschera di collera si sciolse sul suo volto come il ghiaccio a primavera. Ogni volta, dimenticava ingenuamente di non potere niente di offensivo o sgarbato, a quella vista. Lo sguardo infinitamente addolorato e triste di quella creatura spaurita spazzava via tutto l'odio e il rancore che poteva provare un cuore umano. Con la sola forza della pura e genuina sofferenza. Con quel mare travolgente di instabilità e dolore che lo strato ghiacciato delle iridi della bambina sapeva celare così bene. Ne era colta ogni volta alla sprovvista. Stupida...

    Il capo della ragazza si abbassò; i suoi occhi fuggirono quello sguardo insopportabile e struggente. Ogni frammento di nervosismo o crudeltà venne disintegrato da quei pochi attimi infinitesimali di contatto. Si sentì nuda sotto gli occhi grandi e freddi della bambina. La voce di Matidia uscì come un sussurro. Sofferto, ma sincero.

    - Scusa. -

    Sentì gli occhi di quella bambina indagarla nel profondo, anche se non poteva vederli, e scrutarle l'anima: renderla completamente scoperta e vulnerabile.

    Volle alzare lo sguardo su colei che, unicamente, aveva il potere di scoprire completamente il suo essere celato. Lo fece. E fu un sorriso, ciò che trovò. Nient'altro. Un tiepido e spensierato sorriso su delle labbra sottili e rosee come petali inumiditi dalla rugiada. Il sorriso di una bambina.

    - Avevo ragione io! - disse Aelia con allegria – Non pensi come mi parli, quando succede come adesso! Tu non mi vuoi fare del male... -

    Quelle parole così assurde all'apparenza colpirono la ragazza come una pugnalata. Fissò la bambina che, nel parlare, aveva preso ad allontanarsi.

    Si concesse un debole sorriso nel ripensare a quelle parole, un sorriso grave e oscuro. Dopo averle pronunciate ripetutamente nell'atto di allontanarsi, Aelia era tornata indietro. Aveva solo finto, infatti, di volersene andare. Si era recata da lei per un motivo preciso: avvisarla, a nome di suor Livilla dello spostamento delle sue lezioni.

    Erano ricordi di quella mattina, ma le parvero subito molto più distanti.

    Lei e Aelia non stavano mai insieme, non passavano del tempo in compagnia né si parlavano più dello stretto necessario, ma, tra loro, c'era qualcosa che andava oltre ciò che ostentavano: una sorta di legame che le rendeva due esseri simili. Quel legame, per quanto rinnegato, ignorato, respinto, celato... rimaneva saldo da quando si erano incontrate. E, lo sapeva, così sarebbe rimasto, sempre. Un legame tra due mondi gemelli.

    Due mondi la cui unione non era avvenuta, in fondo, che pochi anni prima. Quel tempo le pareva precedente di un'eternità. Mentre procedeva con la raccolta delle legna, si abbandonò al ricordo di come quella bambina era entrata nella sua vita.

    Erano anni bui. Una violenta epidemia era giunta come una nube nera all'orizzonte, decimando la popolazione, portando il regno allo stremo e offuscandone l'incontrastato splendore. Al convento era una nottata come tante, caratterizzata, come da tempo, dalla frenetica battaglia contro la morte incombente; dai continui, disperati tentativi da parte delle suore, di strappare alla sua morsa quante più anime possibile. I locali del grande edificio erano gremiti di malati e feriti: uomini, donne, vecchi e bambini; contadini, mendicanti, pastori e mercanti; soldati. Tutti vittime dell'inesorabile contagio che dilagava come l'acqua di un fiume in piena. O delle violente e disperate stragi che si svolgevano ogni giorno nell'atmosfera tesa e oscura di quella catastrofe.

    Giunse una donna: magra, pallida e poco salda sulle gambe, le membra scosse da violenti tremiti. Stringeva tra le mani un involucro, nascondendolo gelosamente alla vista e, in questo modo, ad ogni cosa sospetta che minacciasse di portarglielo via. Il volto emaciato, stravolto da un pianto isterico. Gli occhi deliranti e, ormai, sulla strada per spegnersi. Riportava una profonda ferita all'addome. Nonostante le suore avessero tentato di condurla dentro per strapparla alla morte, non le fu dato di sopravvivere: morì nel cortile, dopo aver compiuto il disperato gesto di consegnare la sua bambina alla cura delle donne.

    Una di coloro che assistettero alla malinconica vicenda, aveva raccontato un giorno a Matidia una cosa che l'aveva scossa nel profondo. Stando a quanto le aveva detto, la bimba, ancora in fasce, aveva assistito alla macabra scena. Stretta tra le braccia di una delle suore che avevano prestato soccorso alle due nuove arrivate.

    Gli occhi della piccola erano rimasti spalancati, quasi lei avesse avuto piena consapevolezza di ciò che stava succedendo. Ma la cosa davvero straziante erano state le labbra della bambina. Piccole e piene, rosate e ricurve in una dolce, gioiosa mezzaluna: sorrideva. I suoi occhi erano rimasti fissi sul corpo straziato e morente della madre, ne avevano osservato il pallore terreo, mentre la bocca se ne stava incurvata in sorriso sereno e terribile.

    Erano passati otto anni da allora. L'età di Aelia. Il carattere e il modo di comportarsi dell'orfanella somigliavano però a quelli di una bambina molto più piccola. La sua corporatura, in aggiunta, era particolarmente minuta. Nessuno avrebbe potuto attribuirle, a prima vista, la sua vera età.

    La stranezza era che, contemporaneamente, quella creatura ambigua e apparentemente insignificante non sembrava soltanto più giovane, ma anche molto, molto più vecchia. La sua mente era giovane, inesperta, ingenua; la sua anima profonda, consapevole, matura e, per quanto strano a dirsi,... saggia. La moltitudine di aspetti e sembianze diverse di quell'orfanella dagli occhi sognanti, metteva addosso un insolito disagio. Sembrava una parvenza grottesca e irreale di benessere e serenità, una copertura volta a nascondere il suo essere sofferente.

    Chi le si doveva rivolgere, lo faceva con una sorta di sospettosa titubanza. Il sorriso radioso, che ostentava perennemente Aelia, contrastava in modo assolutamente destabilizzante con la tristezza dei suoi grandi occhi color del ghiaccio e suscitava una sorta di sottile, inspiegabile timore: come se quegli occhi chiari, limpidi come una polla d'acqua, lasciassero trasparire visibilmente tutto ciò che lei era in realtà.

    Spesso, quegli occhi vacui e persi liberavano la vera natura di quella creatura sofferente e involontariamente malvagia, sprizzando ogni scintilla del suo odio e la tristezza che serbava in petto straripava in tutta la sua forza devastante. In quei terribili momenti, la bambina era assolutamente incontrollabile.

    Per questo nessuno aveva il coraggio di avvicinarlesi. Anche quando, passati gli attacchi, tornava ad essere la assolutamente calma ed innocente bimba di sempre. Il suo sguardo spiritato e gelido, in quei momenti, le creava intorno un'impenetrabile barriera; era saturo di un'indicibile cattiveria, di un'insaziabile e violenta sete di vendetta. Vendetta... In molti pensavano fosse questo che davvero cercasse. La vendetta contro chi aveva lasciato morire sua madre. E contro il mondo intero. Era un pensiero alquanto stupido, in verità. Lei era stata troppo piccola per ricordare, ma quello sguardo, così crudele e spietato, faceva emergere i più improbabili sospetti; smuoveva qualcosa nel petto di chi era destinato ad incontrarlo.

    Matidia era una dei pochi ad esserne immune. Guardando quel volto, la giovane non riusciva a sentire la paura cieca che sembrava cogliere tutti gli altri, non trovava tracce di ferocia né crudeltà; a discapito di tutto ciò che di feroce e crudele faceva la bambina nei suoi momenti peggiori.

    E il motivo era uno soltanto: quell'orfana, così sperduta e sofferente, era esattamente uguale a lei.

    Anche la bimba sembrava averlo capito. Anzi, pareva esserne stata da sempre consapevole. Fin da quando, per la prima volta, aveva incrociato l'inquieto e sospettoso sguardo della giovane, diversi anni prima e, inaspettatamente, il suo pianto rumoroso tra le braccia di una delle suore si era interrotto. Non era stata che un'occhiata fugace, una visione momentanea di lei che passava loro accanto per recarsi ai dormitori, ma, da allora, la sola vista della ragazza aveva l'insospettato potere di calmarla.

    Aelia le era molto affezionata. Nessuno avrebbe saputo dire che cosa trovasse la bambina in lei. Quella ragazza scontrosa e selvaggia il cui sguardo fiero si piantava con durezza su tutto ciò che incontrava. Ma la cosa certa era che quella giovane era l'unica persona a cui si sentisse veramente legata. Era del tutto evidente che lei la considerava la sua più intima compagna. La sua guida, il suo modello. Nonostante il loro rapporto si limitasse a fugaci, sospettosi sguardi o a qualche dura e secca parola.

    Il distacco che cercava di ostentare la ragazza, però, non era sufficiente a scoraggiare l'altra e ciò la infastidiva. Era un pensiero meschino, ma sentiva di dover stare lontana da quella creatura così sperduta. Non si riteneva in grado di essere il suo punto di riferimento, la sua certezza. Lei ambiva soltanto ad essere indipendente, libera. Per questo guardava con sospetto e riluttanza ogni possibile vincolo o legame, ogni ulteriore catena che la tenesse unita a quel posto.

    Avvertì un dolore improvviso, acuto, penetrante. Proveniva dal basso. La gamba...

    Diede un'occhiata rapida al punto da cui proveniva il bruciore, allungando l'arto davanti a sé. Un'ampia serie di graffi paralleli e arrossati seguiva l'andamento affusolato del suo polpaccio. Si chiese come se li fosse procurati.

    A causa di un pezzo del ramo secco che aveva appena spezzato sul ginocchio, con tutta probabilità. Sì, doveva essere stato quello.

    Inspiegabilmente, pensò che, se in quel momento si fosse trovata nell'austero e accogliente studio di suor Livilla, una cosa del genere non sarebbe potuta accadere. Ma era assolutamente contenta di non dovervisi trovare e di aver assecondato la richiesta della suora. Normalmente, avrebbe fatto di tutto pur di dare ascolto il meno possibile alle indicazioni della sua istruttrice, ma quella era da lei perfettamente condivisa. Senza contare che quella mattina aveva altro a cui pensare. Qualcosa di molto più importante delle ostinate trasgressioni che era ormai abituata ad attuare in segno di ribellione.

    Inoltre, nonostante lo studio e il sapere avessero cominciato ad affascinarla, preferiva nettamente passare la mattinata nel fitto del bosco piuttosto che soffocata dalla polverosa e viziata aria dello studio di suor Livilla. In quel momento, aveva bisogno di silenzio. Di calma. Del vuoto più assoluto. Per poter dare sfogo a tutti i pensieri che attendevano di essere sbrogliati nella sua testa. Il convento non era un posto adatto per riflettere.

    Erano passati tre giorni. Tre lunghi, interminabili giorni in cerca del giusto momento, della giusta occasione. Tre giorni, da quando aveva sottratto l'importante documento dallo studio della priora, in cui era rimasta costantemente all'erta, fermamente intenzionata a cogliere l'occasione propizia. Non avrebbe mai pensato che fosse così difficile.

    Le frenetiche e interminabili occupazioni di suor Livilla le erano note. Eppure non si era mai resa conto di quanto fosse difficile fare con quella donna una delle cose più semplici in assoluto: parlare. Al di fuori delle lezioni, infatti, non ne aveva mai avuto la necessità. E non aveva mai sperimentato, dunque, la fatica che si provava nell'attendere il momento in cui non solo la suora non stesse parlando con un'altra persona, ma non stesse nemmeno svolgendo una qualsiasi mansione a distrarla e non si trovasse in presenza di altro alcuno.

    Era una donna molto occupata. E che amava esserlo. Accudire e istruire ogni singolo orfano del convento richiedeva tempo e dedizione. Cose che lei aveva a cuore di spendere per il bene degli altri. Proprio per questo, quell'impegno non le dispiaceva. Non avere mai un momento di pausa, un attimo per pensare, per stare con se stessa... Sembrava amarne il solo pensiero. Era come se il lavoro e l'occupazione fossero il suo nutrimento, ciò che la teneva in vita. Se non aveva nulla tra le mani, oppure qualche pensiero ansioso a rimbombarle in testa, non riusciva a capacitarsene. Immediatamente si offriva per accompagnare una delle sorelle al santuario o per aiutarne un'altra a zappare la terra, sradicare erbacce o legare piante.

    In tre giorni, Matidia non era riuscita a trovarsi sola con lei nemmeno per un paio di minuti.

    La sua decisione era stata semplice. Avrebbe chiesto informazioni alla suora che l'aveva trovata quasi quindici anni prima, ancora in fasce, fuori dal convento. Era una cosa piuttosto facile, a pensarci; non fosse stato per il fatto che non aveva idea di chi ella fosse.

    Nonostante i suoi sforzi, non era ancora riuscita a riportare alla mente la sua figura, o qualche ricordo di fatti o parole legati a lei; non era riuscita ad abbinare il nome della misteriosa suor Euphemia ad una rimembranza qualsiasi.

    E ne era sorpresa. La sua memoria era ottima, la sua mente acuta. Dunque perché si rifiutava di aiutarla proprio ora?

    Alla luce di ciò, la sua intenzione era diventata quella di rivolgersi alla persona con cui aveva più confidenza. La sua inopportuna, difficile da sopportare, per quanto bendisposta nei suoi confronti, istruttrice. Era certo una cosa più facile a dirsi che a farsi.

    - Matidia, bambina mia! Non ho tempo per stare dietro a te, ora... -

    Gli occhi grandi ed eloquenti della suora avevano fissato, spalancati, il volto impassibile di lei.

    - Dopo, se ci tieni, ne parleremo con calma... -

    L'ultimo. Soltanto l'ultimo dei numerosi congedi che aveva dovuto assecondare in silenzio. Osservando, con occhi gelidi, il viso acceso e lievemente infastidito della suora lasciare il posto alla sua chioma folta e grigia, nell'atto di voltarsi e andarsene. Aveva visto la sua sagoma sfuggirle un'altra volta, mentre la sua mano era ancora sollevata a sottolineare l'obiezione che lei non aveva avuto il tempo di pronunciare. Aveva osservato i larghi fianchi della donna muoversi lievemente al ritmo della camminata rapida e ondeggiante. La sua figura, scomparire completamente dietro l'angolo.

    Volendo, avrebbe potuto... Avrebbe potuto richiamarla indietro... Anche con un'unica frase, con l'opportuna quantità di maleducazione, malizia e sarcasmo che lei era così abile a dosare. Nessuno, assolutamente nessuno era in grado di ignorare il suono aspro della sua lingua affilata quando cominciava a stridere. E suor Livilla... Lei era una di quelle persone che avrebbe considerato assolutamente improponibile l'idea di ignorarla.

    Ma si era trattenuta, per il solo motivo che scatenare una delle sue sfuriate proprio in quel momento, sarebbe stato un irrimediabile passo falso. E lei non poteva concedersi errori.

    Fra quelle mura spoglie e prive di calore, nell'oscurità più completa e ammaliante della sua aura di disperazione e crudeltà, si annidava una serpe viscida e spietata. L'incombente e vigile ombra dell'incubo. Una presenza il cui unico scopo era quello di dilaniarla, umiliarla ad ogni svista, ad ogni più piccolo e insospettabile errore.

    Lei c'era sempre: all'erta, vigilante, nascosta nel suo bozzolo d'ombra, nell'attesa di iniettare in lei tutto il suo veleno.

    E Matidia non avrebbe soddisfatto la sua sete di male. No. Avrebbe aspettato. Qualsiasi animale predatore non era così ingenuo da vivere nell'illusione di poter catturare le proprie prede in pochi, semplici attimi. E non era nemmeno così avventato da balzare allo scoperto, assistendo alla fuga della preda come unica conseguenza. Nulla poteva togliergli il tempo dell'agguato. Dell'appostamento. Dell'attesa.

    Doveva saper aspettare.

    Con l'accenno di un sospiro, Matidia legò la legna che aveva raccolto in un fascio: fece un nodo stretto alla corda. Era ora di incamminarsi.

    Il cielo cominciava a ricoprirsi di minacciose nuvole grigie che giungevano imponenti da dietro le montagne. In pochi minuti si erano addensate, oscurando completamente il sole. S'apprestava a piovere.

    La giovane si caricò il pesante fascio sulla schiena, con un lieve sbuffo. Le pareva quasi di sentire il brontolio cupo delle enormi masse nere che si rimestavano sopra di lei.

    Si mise in marcia, lo sguardo fisso davanti a sé. La legna, caricata sulla schiena, prese immediatamente a sbattere e ondeggiare al ritmo deciso dei suoi passi. Quando raggiunse lo stretto sentiero che tagliava il bosco, il suo incedere si fece più regolare e la legna smise di sobbalzare, urtandole la schiena. La lunga striscia di terra battuta che si srotolava ai suoi piedi percorreva l'intera estensione del bosco e conduceva direttamente al convento. Era talmente sottile da lasciare spazio soltanto alla larghezza di un singolo piede. Per questo era costretta ad incedere con lentezza, avendo cura di posizionare i piedi uno esattamente davanti all'altro.

    Ramoscelli e sterpaglie frusciavano al suo passaggio. Venivano spostati lateralmente dal suo avanzare, per poi tornare, ondeggiando, nella posizione originale, ad ostruire il sentiero. L'erba alta le lambiva le gambe.

    Ma questo fu solo per qualche minuto. Già dopo pochi attimi, infatti, gli alberi cominciavano a diradarsi. Fiori di campo e piante aromatiche andavano pian piano comparendo al posto dei fitti cespugli di rovi del sottobosco. Ne fu grata.

    E lo fu ancor più nel momento in cui l'atteso limitare del bosco giunse a spalancarle gli occhi sulla maestosa bellezza della verde, splendente vallata circondata dai monti. Il sentiero si srotolava ancora per una discreta lunghezza, in mezzo al prato verdeggiante. Moltitudini di fiori dalle più svariate forme e colorazioni punteggiavano il morbido manto, come milioni di piccole macchie brillanti disposte a casaccio su di una tela tinta di smeraldo. L'erba folta, sferzata da un vento impetuoso e freddo, ondeggiava con vivacità in pieghe di velluto. Le spighe frusciavano, sparpagliando i loro semi. Una cupa, oscura coltre d'ombra oscurava quello spettacolo accattivante, annerendo la brillantezza del verde vivace dell'erba. Era meraviglioso.

    Il motivo per cui trovava così affascinante uno spettacolo tanto consueto era uno soltanto: il fatto che non aveva mai avuto occasione di assistere ai fenomeni ben più grandiosi che serbava la vastità del mondo. E della cui esistenza, per quanto remota e mai osservata di persona, era certa come del fatto che, un giorno, vi avrebbe assistito. Ma, per ora, a saziarle l'anima permaneva solamente l'impotente tristezza di doversi limitare alla visione della maestosità delle montagne e del fitto dei boschi, insieme alla speranza di poter provare, in futuro, sensazioni ben più grandiose della selvaggia tristezza che metteva addosso la cupa atmosfera di un temporale estivo.

    Il suo sguardo corse rapido lungo la chiara scia del sentiero che si snodava tra l'erba. Urtò brutalmente la presenza sgraziata e orribile delle alte mura del monastero. La sagoma tozza e ombrosa di questo aveva qualcosa di irrimediabilmente stonato in quell'improponibile contesto. Il modo in cui sorgeva orrendamente in mezzo a tutta la purezza di quel luogo selvaggio, le risultava quasi nauseante.

    Con occhi vacui, la giovane percorse lo slanciato profilo di ognuna delle quattro, alte guglie che si innalzavano in corrispondenza degli angoli dell'edificio principale. Il suo sguardo si perse nel cielo, quando giunse alla sottile punta dell'ultima: la più lontana da dove si trovava.

    S'incamminò. Man mano, i contorni dell'alto cancello, tramite cui si accedeva al cortile interno dell'edificio principale, andarono a definirsi. Come andò ad acuirsi la sensazione di disagio che le aveva sempre gettato addosso la visione inquietante di quelle sbarre dure e gelide.

    Matidia affrettò il passo. Come anche sembrarono fare le nuvole sopra di lei, ansiose di gettare sulla verde vastità della valle una prima sferzata di pioggia fitta. I capelli le incorniciavano il volto in preda ad una danza sfrenata, sospinti dal vento, quando la giovane giunse finalmente ai piedi del maestoso cancello del convento. Al centro del cortile, tra l'erba falciata di fresco, sorgeva la nera sagoma del pozzo da cui le suore attingevano l'acqua.

    Il suo profilo le parve stranamente tetro. Non più familiare. Come se durante la sua assenza un velo di oscurità avesse alterato le sue sembianze. Il secchio, appeso alla corda, ondeggiava ritmicamente trasportato dal vento. Fatalmente sospeso sulle spoglie, nere profondità del pozzo. Le sue oscillazioni lente, erano puntualmente scandite dall'inquietante, secco sbattere del legno contro l'arco di ferro battuto. Il rumore era graffiante, sgradevole. Nell'aria agitata, presenziava l'insidiosa sensazione che vi fosse un male prossimo a compiersi. L'ombra di un presagio.

    E fu solo quando il primo, rombante tuono giunse a manifestare tutta la fiera possanza del suo ruggito, che la tensione finalmente si sciolse. Un fresco scroscio di pioggia cadde su ogni cosa, spezzando l'ansiosa attesa con il suo giungere improvviso e inaspettato.

    Rassicurata da quei suoni, da sempre amati per la loro selvaggia e fiera manifestazione, la ragazza riprese a camminare. I suoi passi cominciarono ad echeggiare, sicuri e rilassati, tra le mura di pietra del portico colonnato. Non aveva fretta. Voleva godersi il profumo della pioggia.

    Fu con un sereno, lieve accenno di sorriso sul volto che, coperto dal rombo di un secondo tuono, alla giovane parve di sentire l'eco spaventoso di un urlo disumano. E il sorriso immediatamente scomparve.

    Le spesse mura di pietra sembrarono tremare al pari del suo cuore, quando un secondo grido infranse orribilmente il silenzio.

    Il fascio di legna cadde, sbattendo, sul lastricato di pietra. In un lampo, le poche decine di metri che separavano la ragazza dall'atrio interno, furono colmate.

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1