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L'ultima alba - Il sonno del guerriero
L'ultima alba - Il sonno del guerriero
L'ultima alba - Il sonno del guerriero
Ebook276 pages3 hours

L'ultima alba - Il sonno del guerriero

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Primo volume della trilogia fantasy-medievale de L'ULTIMA ALBA

Un monaco benedettino.

Un amore impossibile.

Un libro maledetto perso da secoli è stato ritrovato.

L'ultimo sigillo dell'apocalisse sta per essere spezzato.

Un uomo, una donna, una profezia, uno spettro fuggito dagli inferi e una spada.

Il destino dell'umanità è nelle mani di un giovane monaco. Riuscirà ad impedire la venuta del quarto Cavaliere dell'Apocalisse? Che la battaglia abbia inizio.

Una delle più belle storie d'amore di tutti i tempi.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateApr 9, 2013
ISBN9788891108296
L'ultima alba - Il sonno del guerriero

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    L'ultima alba - Il sonno del guerriero - Cassidy McCormack

    Cassidy McCormack

    Dall’autrice di TI SENTO e TEMPTATION

    L’ULTIMA ALBA

    Il sonno del Guerriero

    Copyright: Cassidy McCormack 2012

    Edizione I 2012

    Volume I

    Copyright © 2013

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Roma 73 - 73039 Tricase (LE)

    info@youcanprint.it

    www.youcanprint.it

    Titolo | L’ULTIMA ALBA - Il sonno del Guerriero

    Autore | Cassidy McCormack

    ISBN | 9788891108296

    Prima edizione digitale 2013

    Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

    Mio - per diritto della bianca elezione!

    Mio – per sigillo regale!

    Mio – per segno della rossa prigione che le sbarre non potranno occultare!

    Mio – qui – nella visione e nel divieto!Mio – per l’annullamento della tomba – interstato e ratificato – delirante contratto!

    Mio – nel trascorrere dei secoli.

    Emily Dickinson

    Nota dell’autrice

    Marzo 2004, località Cerreto di Vallerotonda, 650 metri sul livello del mare.

    Tipico paesello pastorale: un pugno di case in pietra anteguerra, una manciata di vecchietti paffutelli intenti alle loro spensierate attività quotidiane, nell’aria il pungente profumo di sottoboschi umidi e violette appena sbocciate a salutare il timido sole di primavera. Tutt’intorno riecheggia il pianto tenero di qualche agnellino in cerca di sua madre che bruca margherite al pascolo, il suono sordo delle campane delle grasse vacche bianche lungo i pendii della Pineta che si erge in lontananza come il sacro monte degli dèi.

    Ovunque, che sia a nord come sud, piuttosto che a est o ovest, solo monti dipinti di verde dalle foglioline appena spuntate sui rami nudi dell’inverno, o in varie pallide tonalità di grigio con la vetta ancora candida di neve, a ricordare che l’inverno non li ha ancora abbandonati.

    Le prime lucertole fanno capolino dai ciocchi di legno rimasti, sistemati ad arte come fondamenta di una muraglia degna delle maestose e invalicabili mura di Troia. Le carriole sono già pronte ad ospitare il prossimo carico di combustibile per la sera che si avvicina. Le ore passano e il freddo di marzo inizia a farsi sentire.

    I comignoli sbuffano profumo di faggi, nuvole di respiro si mescolano alla nebbiolina umida che si deposita goccia dopo goccia sul metallo freddo del paracarri sul lato della strada.

    I primi lampioni si accendono, le imposte delle finestre si chiudono per assicurare l’intimità che una luce calda nella sera non ti può garantire. I pastori rientrano per la cena, le madri richiamano i due tre bambini che sono ancora fuori a giocare. Il suono della campana della chiesa annuncia la fine della giornata.

    Non si sente più il tonfo della zappa sul terreno, gli animali sono tornati a riposare con i loro piccoli nelle stalle, le donne non si raggruppano più a chiacchierare sui gradini di un complesso di vecchie case disabitate, perfino i cani hanno smesso di gironzolare e se ne stanno sdraiati sull’uscio di casa ad aspettare la cena. Al massimo si ode la sigla del telegiornale di un televisore col volume alzato di proposito per udire al meglio cosa succede nel resto del mondo. Il mondo meschino e corrotto abitato dalla gente comune, quella frustrata, la gente stressata e meschina del ventunesimo secolo.

    Millecinquecento anni fa quelle case di pietra erano ancora lì, magari avevano una dimensione diversa, le finestre non avevano i vetri, il televisore era sostituito dai racconti di un veterano o un viandante attorno al fuoco, ma erano lì. Gli uomini e le donne erano uomini e donne come quelli che si vedono oggi lungo queste strade, vestiti in modo diverso, questo sì, ma se li aveste conosciuti vi sareste stupiti di quanto simili siano ai vostri vicini di casa, vi sareste meravigliati di quanto le loro menti siano state oppresse dalle vostre stesse preoccupazioni di tutti i giorni.

    Era solo un altro tempo, un’altra era.

    ANTEFATTO

    Da quando, nel 410 d.C., Roma venne invasa e messa al sacco per la prima volta dai barbari VisiGoti, l’Impero d’Occidente si trovò nella condizione di vedersi scivolare di mano l’agiatezza e la quiete della vita classica a cui l’avevano abituato secoli di grandi uomini al comando, per dar spazio a discriminazioni razziali, saccheggi, persecuzioni religiose, espropriazioni, vandalismo, morte...

    Roma messa a ferro e fuoco dai barbari di Alarico, perse il suo titolo di Capitale in favore di Ravenna, una città costiera più semplice da difendere dalle turbolente invasioni di popoli barbari che occupavano ormai gran parte del territorio Italiano.

    Con l’ascesa al comando di Attila nel 445 d.C. in pochi anni il nord Italia vide sbriciolarsi anche gli ultimi rimasugli di civiltà. Pagheranno il prezzo della brama di conquista del feroce Unno: Aquileia, Padova, Vicenza, Verona, Brescia, Bergamo e in parte anche Milano.

    Il tradimento di Genserico ora a capo a Cartagine dei pirati Vandali e la morte di Ezio, generalissimo della guardia imperiale, assassinato dallo stesso Imperatore d’Occidente Valentiniano III, innescarono la miccia che condusse il regno italico alla disfatta.

    I soldati tramarono contro l’Imperatore e non lasciarono passare più di un anno prima di vendicare il loro Generale.

    È il 16 marzo 455 d.C, quando due ufficiali assassinano l’Imperatore.

    Con la morte di Valentiniano III, il collasso dell’Impero d’Occidente è ormai alle porte.

    Il repentino forzato passaggio di comando del Regno italico – da Petronio Massimo prima ad Avito, Maggioriano, Libio Severo, Antemio, Oliario, Glicerio, Giulio Nepote, Romolo Augusto e Odoacre infine –, il violentissimo accanimento sulle coste Italiane e il sacco di Roma da parte dei Vandali di Genserico, e la pessima strategia politica dei più, decretarono in soli vent’anni la disfatta definitiva dell’Impero romano d’Occidente.

    Con il barbaro Odoacre iniziò inoltre l’espropriazione al popolo romano di un terzo delle terre italiche in favore dei suoi soldati barbari.

    Il suo regno di dittatura costrinse presto, Zenone, Imperatore d’Oriente a volgere la sua attenzione sulla sorte della popolazione italiana, che lo inondava di suppliche d’aiuto.

    Tuttavia, né gli Italiani quando chiesero il suo aiuto, né Zenone quando lo accettò, immaginavano minimamente che la decisione di deporre il Tiranno Odoacre sarebbe stata la miccia che avrebbe scatenato una delle guerre più devastanti dell’alto Medio Evo. La guerra Gotico-Bizantina.

    L’Italia intera, impreparata e stanca, stava per assistere allo sgretolamento del suo essere a colpi di ordini, rappresaglie e persecuzioni.

    Era l’anno 488 d.C. quando il Sovrano dei VisiGoti, Teodorico, ricevette il messo dell’Imperatore Zenone con la richiesta d’aiuto contro Odoacre.

    Solo cinque anni dopo, nel 493 d.C., Teodorico veniva acclamato nuovo Re d’Italia.

    In principio il governo di Teodorico non fu dei più tolleranti per gli italiani. Il popolo si aspettava un liberatore, ma troppo presto scoprì d’aver aperto le porte a un nuovo tiranno.

    Dopo aver assegnato ai suoi uomini le terre italiane che erano già state sottratte da Odoacre, Teodorico emanò una serie di leggi che miravano a mantenere ben distinte le due popolazioni.

    - È assolutamente vietato… - leggevano i banditori Goti nelle varie città e villaggi -… a qualunque italiano l’uso e il possesso di armi. Chiunque sarà trovato in possesso di queste sarà arrestato e soggetto alle severe leggi del nuovo Regno. L’ordine è di consegnare subito le armi agli ufficiali VisiGoti, pena la morte.-

    Nelle piazze, su un palco di travi o nei vecchi teatri e anfiteatri, il banditore affiancato da quattro soldati, lesse ripetutamente, per tre giorni l’editto del nuovo Re.

    - È assolutamente vietata l’unione matrimoniale tra Goti e Italiani.- e ancora - È severamente proibita la conversione dall’arianesimo al Cristianesimo.-

    Uno per volta, gli italiani si ammassarono attorno ai soldati per consegnare le armi. Qualcuno si rifiutò, provò a sottrarsi all’arresto, ma venne catturato e ucciso in pubblica piazza come monito per altri smaniosi ribelli.

    Nonostante tutto, Teodorico portò benessere e ricchezze ai romani.

    Nel 500 d.C. infatti, il nuovo Re fu così colpito dalla calorosa accoglienza che gli manifestarono il Senato, il popolo e il Clero romano durante la sua visita alla vecchia Capitale, che decise di stabilire il suo quartier generale proprio a Roma.

    Da quel momento provvide al restauro dei monumenti e al mantenimento della città, ristabilendo perfino l’usanza di distribuire cibo al popolo gratuitamente.

    Diversamente dai precedenti regnanti, Teodorico era un grande uomo politico, forse uno dei più grandi della sua epoca, se non il più illustre.

    Tenne a bada le altre popolazioni barbare conducendo una politica di alleanze attraverso matrimoni combinati.

    Pur se in possesso di un Re barbaro, l’Italia per un lungo periodo sembrò iniziare pian piano a riemergere dalle ceneri delle precedenti devastazioni.

    Erano passati oltre venti anni dall’incoronazione di Teodorico e da allora i suoi territori non erano più stati vittime di attacchi nemici.

    Le città avevano ricostruito le proprie mura, i contadini avevano permesso alla terra di rifiorire, i greggi si erano ripopolati, le strade tornavano ad essere sicure grazie all’azione militare contro il brigantaggio voluta dal Re. Le paludi Pontine venivano bonificate a spese della corona e le nuove terre, così ottenute, egualmente distribuite.

    Teodorico aveva regolato i prezzi delle merci, aveva annullato i sussidi statali alla chiesa per tenere basse le tasse, ma soprattutto, aveva riscattato i cittadini romani ridotti in schiavitù da altri popoli e li aveva stabiliti in Italia, affidando loro delle terre come contadini piccoli proprietari terrieri.

    Con questi minuti ed efficaci accorgimenti, Il Re riuscì a farsi amare e rispettare dal suo popolo. L’economia italiana cominciò a rianimarsi e la vita urbana tornò a un regime di normalità.

    Grazie a Teodorico, l’Italia tornò ad essere esportatrice di vettovaglie in tutto l’Impero.

    Eppure, i giorni di pace stavano per finire.

    Fu una pessima mossa, probabilmente studiata per scatenare una nuova guerra dalla quale sperava di rimpossessarsi di un regno al massimo della sua maturazione economico, quella del successore di Zenone, Giustiniano, che nel 523 d.C. pretese da Teodorico la restituzione di tutte le chiese ariane in favore del culto Cristiano.

    Questa assurda richiesta risvegliò l’assopito animo violento e vendicativo di Teodorico. Il Re infatti, rispose all’arroganza dell’Imperatore con una campagna di persecuzione dei Cristiani e dell’intera popolazione italiana, sospettata di tradimento in favore dei Bizantini.

    Teodorico regnò per altri tre anni, periodo in cui, le scorribande violente dei suoi soldati demolirono nuovamente lo spirito di un’Italia appena tornata con fatica al suo antico splendore.

    Le cittadine si ridussero a piccoli borghi ai quali seguirono perfino lunghi periodi di abbandono e desolazione. Gli uomini del Re si diedero al saccheggio incontrollato. I campi non furono più coltivati e gli edifici, dati alle fiamme, andarono sgretolandosi.

    Quasi l’intero paesaggio italiano divenne disagevole e inospitale.

    Teodorico morì a Ravenna il 30 agosto del 526 d.C.

    Aveva regnato rettamente per oltre trent’anni, ma prima di morire riuscì a restituire all’Italia quell’aspetto selvaggio che aveva trovato al suo arrivo.

    La morte del Re e le suppliche d’aiuto di una Regina maltrattata, convinsero L’imperatore d’Oriente di poter riconquistare l’Italia e ricacciare una volta per tutte l’orda barbarica che aveva invaso la penisola e che, soprattutto, non aveva alcuna intenzione di lasciarla. Giustiniano sapeva bene che i Goti si sarebbero battuti con le unghie e con i denti pur di assicurarsi il controllo del Regno, ma l’ennesima presunzione dell’Imperatore, che inviò il suo esercito alla conquista dell’Italia, diede il via a una Guerra di sangue senza fine.

    Nel 535 d.C. iniziò la fatale guerra al nuovo regno d’Italia. Al comando del Generalissimo Belisario, l’esercito Bizantino iniziò la sua opera di riconquista dalle splendide coste della Sicilia, proseguendo poi la risalita - villaggio dopo villaggio, città dopo città - contro gli uomini del nuovo Re Goto, Teodato.

    Belisario aveva con sé quattromila soldati tra federati e romani. Completavano l’esercito tremila Isaurici, duecento Unni, trecento Mori e altri soldati muniti di scudi e lance. Circa ottomila uomini in tutto. Aiutato nel comando, Belisario si circondava di fedeli e prodi comandanti: i due traci Costantino e Bessa; Peranio, principe degli Iberi; Valentino, Magno e Innocenzo, ufficiali della cavalleria; Erodiano, Paolo, Demetrio e Ursicino, capitani di fanteria; Ennete a capo degli Isauri.

    Questo era l’esercito che salpò da Costantinopoli per approdare e occupare la Sicilia prima di toccare le coste della Penisola.

    Nel frattempo, Mondone, ufficiale barbaro a capo della milizia bizantina nell’Illirico, ricevuto l’ordine di assalire i Goti in Dalmazia, riuscì a riprendere Solona.

    La Sicilia capitolò facilmente agli assalti Bizantini, le città presidiate dai Goti capitolarono una dopo l’altra, e con la presa di Palermo, la più fortificata, Belisario si vide nel palmo della sua mano l’intera isola.

    La caduta di Palermo diete vita a tutta una serie di negoziati fra Teodato e l’Impero.

    Teodato era disposto a cedere il regno per evitare una guerra contro i greci, ma la sconfitta di Mondone in Dalmazia, trucidato dai Goti di Grippa, Asinaio e di altri comandanti Goti, rafforzò l’animo timoroso del Re che rifiutò le trattative con l’Impero e si preparò a muovere battaglia contro il nemico.

    Per contro, Giustiniano inviò Costanziano in Dalmazia a riconquistare Salona una seconda volta, occupata da Grippa e i suoi uomini. Come sperato, questi riuscì a mettere in fuga il nemico e a rimpossessarsi di tutta la Dalmazia e la Liburnia, assoggettando all’Impero gli abitanti Goti di quelle terre.

    Ricevuto poi ordine di scacciare i Goti dall’Italia, Belisario lasciò un presidio a Siracusa e Palermo e sbarcò col resto dell’esercito a Reggio, che fu consegnata senza combattere da Ebrimuth, genero di Teodato, spedito poi a Costantinopoli, dove il titolo di Traditore gli fu abilmente mascherato con quello di Patrizio. Gli abitanti delle terre vicine, le cui città erano sguarnite di mura, o che avevano in odio i Goti, si diedero anch’essi spontaneamente a Belisario, lasciando che proseguisse indisturbato nella sua avanzata fino in Campania.

    Solo Napoli arrestò la sua corsa.

    E mentre due grandi eserciti si affrontavano per sconvolgere una nazione, un solo uomo aveva già sconvolto quasi un’intera regione.

    Un giorno quest’uomo portò la cultura in quei villaggi di pastori, che spaventati e stanchi vedevano ormai ad occhio nudo l’alba del giorno del giudizio e tremavano al pensiero dello squillo delle trombe degli angeli di un Dio che sembrava averli abbandonati. Quest’uomo, credendo di far bene, portò regole, leggi e divieti. Sconvolse il loro credo, le loro abitudini, i loro costumi.

    Voleva plasmare le loro anime, invitandoli ad uno stile di vita privo della corruzione di un Mondo al tramonto del suo essere, e fece di questo ideale la sua missione di vita.

    Il suo nome era Benedetto.

    PARTE PRIMA

    Ti sento... nelle note del canto del gallo,

    nella rugiada del mattino che calpesto,

    nella nebbia scostata col viso.

    Ti sento... nella neve che cade in cortile,

    nelle fronde accarezzate dal vento,

    nello scoppiettio della legna sul fuoco.

    Ti sento... nel pianto lontano di un neonato,

    nel fischio di un pastore allarmato,

    nei lamenti di un cane spaventato.

    Ti sento... nelle risa di un giovane innamorato,

    in un bacio rubato,

    in un abbraccio fugace.

    Ti sento… nella pioggia che bagna il selciato,

    nel silenzio angoscioso del chiostro,

    nei passi muti che assordano il portico.

    Ti sento... nelle preghiere che precedono il sonno,

    nei sospiri di mio fratello che mi dorme accanto,

    nella notte, nella luna, nell'incertezza della sorte.

    Ovunque, sempre, Ti sento... Dentro.

    25 Dicembre 542 d.C.

    - Padre, è ancora lì fuori!-

    L’Abate fissò la fiammella della candela agitarsi al vento invernale che penetrava nella sua cella dagli spifferi della finestra. Scosse il capo, si stropicciò gli occhi stanchi e si alzò abbandonando il suo scranno marcio consumato dal tempo e dall’usura.

    Tommaso non disse altro, mani in grembo e sguardo basso, attendeva disposizioni.

    - Lasciate che paghi per i suoi peccati.- fu la risposta dell’Abate, che stiracchiata la schiena curva e lisciata la lunga barba grigia, uscì dalla cella per recarsi in chiesa a pregare.

    La pioggia battente si riversava copiosa sul soffitto di terracotta. Alcune tegole erano rotte e lasciavano che un rivolo di pioggia si riversasse sul pavimento della cella, che in seguito scivolava oltre la porta a causa della cattiva pendenza.

    L’umidità e l’inverno ormai giunto rendevano la stanza gelida. Le pareti di pietra umide bagnavano il giaciglio di legno e paglia dell’Abate e un lieve puzzo di muffa si spandeva nell’aria.

    Tommaso, per quanto gli concedeva un’avanzata artrite, si sarebbe dovuto affrettare a raggiungere le cucine per la cena. Era martedì, toccava a lui servire a tavola i confratelli appena rientrati dal lavoro, ma qualcosa lo spinse altrove.

    9 Marzo 542 d.C.

    -Io non ho mai costruito un edificio, padre.- confessò il vecchio Tommaso al suo Abate.

    Era un eccellente fabbro, figlio di fabbri da quattro generazioni, un suo avo fu soldato con il grande Cesare, prima di essere mandato con gli altri veterani in quella pianura. Conosceva tutto su lame, pale, zappe e rastrelli, sapeva perfino costruire elmi, frecce e spade se ce ne fosse stato bisogno, ma di edifici, proprio non si intendeva. L’Abate ne era consapevole, eppure gli chiedeva l’ardua impresa di edificare un convento sulla vetta di un’alta montagna, lontana chilometri dal Monastero, intorno a gente che ancora praticava riti alla vecchia maniera di Roma.

    -Sono sicuro che, con l’aiuto di Dio, porterai a termine questo nostro progetto prima dell’estate.-

    Tommaso osservò con attenzione il foglio di pergamena e i tratti decisi della pianta dell’edificio che avrebbe costruito da lì a pochi mesi -Prego Dio che questo compito non gravi tutto sulle mie spalle, Padre.- disse con una certa preoccupazione nel volto, - Non sono più giovane e forte come un tempo.-

    -Tranquillo, mio caro Tommaso, avrai tutto l’aiuto di cui hai bisogno.- detto questo l’Abate uscì dall’officina per non ostacolarlo oltre nel suo lavoro.

    Il monaco non riuscì a chiudere occhio quella notte, il bagaglio era già pronto ai piedi del letto, sarebbe partito subito dopo l’ufficio vigilare delle due del mattino.

    Il suo primo compito sarebbe stato raggiungere il villaggio di Preta Cautata e chiedere ospitalità all’uomo più facoltoso del piccolo sobborgo, il pastore Lucio, fino all’arrivo dei confratelli che lo avrebbero aiutato nella costruzione del convento.

    Albeggiava appena quando il vecchio monaco si caricò in spalla il suo fagotto dopo aver appeso alla cintola di corda un sacchetto di monete che sarebbero servite ad acquistare l’ospitalità in casa Pomponio.

    Lucio Pomponio II, con il suo esercito di ottantatre pecore, quarantadue capre e quattro vacche da latte, godeva di un reddito tra i più alti della provincia.

    L’Abate gli aveva fatto recapitare una lettera un mese prima: gli chiedeva la cortesia di ospitare uno dei suoi figli per qualche giorno, poiché aveva intenzione di costruire un convento sulla vetta del monte alle spalle del villaggio, terreno di proprietà del Monastero, donato dalla benestante famiglia di un loro oblato.

    Lucio Pomponio era pagano, come la maggior parte delle genti appollaiate fra i boschi di quei monti. L’Abate lo sapeva, ma non smetteva di sperare che con l’arrivo dei monaci e la loro predicazione, si potesse raggiungere la conversione di quelle povere anime impure.

    La villa di Lucio non era grande come quelle che si vedevano a Roma nei tempi migliori del Regno, tuttavia, possedeva sei schiavi e due camere per gli ospiti, un vanto che non potevano permettersi le altre famiglie di Preta Cautata.

    L’arrivo di frate Tommaso al villaggio fu motivo di curiosità per tutti. Quell’uomo con i capelli rasati al centro del cranio, la barba lunga, la sua tunica grigio fumo e i sandali consumati, era in tutto riconoscibile come uno dei monaci del Monastero sul Monte Casinum.

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