I racconti di Civita
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I racconti di Civita - Gabriele Damiani
I racconti di Civita
racconti
Gabriele Damiani
Published by Giuseppe Meligrana Editore
Copyright Meligrana Editore, 2013
Copyright Gabriele Damiani, 2013
Tutti i diritti riservati
ISBN: 9788868150488
In copertina:
Jacob Peter Gowy, da bozzetto di P. P. Rubens, La caduta di Icaro (1636-1638),
olio su tela, Madrid (Spagna), Museo del Prado
Meligrana Editore
Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV)
Tel. (+ 39) 0963 600007 – (+ 39) 338 6157041
www.meligranaeditore.com
info@meligranaeditore.com
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INDICE
Frontespizio
Colophon
Licenza d’uso
Gabriele Damiani
Copertina
UN CASO FACILE
SENZA RISPOSTA
UNA SETTIMANA PRIMA DI NATALE
CAPITALI FRESCHI
TRAMONTO D’AUTUNNO
MEDAGLIA AL VALORE
LA VISITA
CRONACA NERA
IL MOVENTE
CITTÀ DI PROVINCIA
IL PIPISTRELLO
UNO DI QUELLI
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Grazie per il rispetto al duro lavoro di quest’autore.
Gabriele Damiani
Gabriele Damiani (L’Aquila, 1956) a diciassette anni era già cronista del quotidiano ‘‘Il Mezzogiorno d’Abruzzo’’. In seguito è stato imprenditore, professore di metodologia della scienza economica, dirigente e consulente d’azienda, diventando infine ufficiale del corpo militare della Croce Rossa Italiana. Tra un’avventura e l’altra non ha mai smesso di scrivere, attività che per lui rappresenta la più seria e avvincente esperienza di vita, pubblicando dozzine di racconti su un gran numero di riviste. Nel 2010 ha pubblicato il romanzo ‘‘Il destino, forse’’ (Autodafé), nel 2011 l’e-book ‘‘Un buon sapore di morte’’ (Meligrana Editore) e nel 2012 l’e-book Commedia all’italiana
(Meligrana Editore). Cura il blog gabrieledamianiscrive (gabrieledamiani.blogspot.it).
Contattalo:
gabrielinodamiani@gmail.com
Seguilo su:
https://google.com/+GabrieleDamiani
UN CASO FACILE
Dissi: «Mi dispiace, ma per lei non posso far nulla, credo».
Corrugò la fronte. «Perché?».
Mi strinsi nelle spalle. «Vede, noi ci occupiamo soprattutto di informazioni commerciali», e di corna; ma questo lo tenni per me. «Qui si tratta di scoprire un assassino». Allargai le braccia. «E’ al di là della nostra portata».
Si mordicchiò un labbro. Sembrava delusa.
«Mi dispiace», dissi ancora.
«Non c’è nessun altro al quale potrei rivolgermi?».
«Qui a Civita?». Scossi il capo. «No».
«A Roma?».
«A Roma sì, quanti ne vuole».
«Me lo indica lei qualcuno?».
«Certamente. Io però le consiglierei di affidarsi a un avvocato. Se riceve un esposto, la procura magari le indagini sull’incidente le riapre».
«E’ stato il mio avvocato a indirizzarmi da lei».
«Ah».
«Prima di agire, dice, preferisce avere in mano qualcosa di concreto».
«Capisco». Mi sforzai di sorridere, senza riuscirci. «Be’, non ha tutti i torti».
Col citofono pregai la signora Franca di trascrivere su un foglio nome, recapito e numero telefonico di quelle tre o quattro agenzie investigative di Roma con le quali avevo, o avevo avuto in tempi più o meno recenti, rapporti di collaborazione.
La signora Franca si sbrigò in pochi minuti e venne a portarmi l’elenco battuto a macchina.
Lo porsi alla mancata cliente. «Tenga. Ci vada pure a nome mio. Qualunque sceglie, sarà in buone mani».
La giovane donna piegò il foglio in due, lo ripose nella borsetta e si alzò. «Grazie».
«Di nulla».
Anch’io mi alzai e ci stringemmo la mano. Ci salutammo con un arrivederci che aveva tutta l’aria di un addio e la signora Franca l’accompagnò alla porta.
Sapete, aveva gli occhi viola. Un colore mai visto
***
Passarono una decina di giorni e un pomeriggio, mentre redigevo un rapporto per un cliente, arrivò un piccoletto. L’appuntamento l’aveva fissato per telefono la sera prima, combinandolo con la signora Franca. Già al mattino ne avevo letto il cognome sull’agenda, senza che mi dicesse niente.
La signora Franca lo introdusse nella mia stanza.
Fisico asciutto, viso latino dai lineamenti virili, sui quaranta, quarantacinque al massimo, e abbronzato con parecchie settimane di anticipo sulla stagione. Indossava un principe di Galles a tre bottoni vendutogli, secondo ogni evidenza, da un sarto che conosceva il mestiere, anziché dalla Standa. La cravatta regimental di seta blu, a righe diagonali verde inglese, se l’era annodata con arte sapiente. Mi tese una mano di proporzioni ridotte, sì, ma energica. Al polsino della camicia che gli spuntava dalla manica della giacca vidi un gemello d’oro con monogramma a lettere nere.
«De Paulis», disse con voce dura.
«Alesi», dissi di rimando, e improvvisa mi tornò alla memoria la giovane vedova dagli occhi viola da me ricevuta dieci giorni prima.
«Giorgio De Paulis?».
Sgranò leggermente gli occhi castani. «Sì», rispose sussiegoso, quasi seccato che il suo nome destasse tanta meraviglia.
Era quel De Paulis.
Tentai di dissimulare la sorpresa con un: «Molto lieto», che immagino non dovette suonargli troppo convincente. E in verità non ero lieto; ero incuriosito: peggio di una pettegola al tè delle cinque. «Si accomodi, prego».
Lo fece, tirando i calzoni sui ginocchi per non rovinare la piega. Si sbottonò la giacca e appena la falda si aprì notai che anche sulla camicia bianca, a un lato dell’addome, era ricamato il suo monogramma. Non mi sarei stupito, a quel punto, vederglielo sulle mutande e sulla canottiera.
«E’ stato mio cugino a mandarmi da lei», disse con il tono dell’uomo che ama scansare subito gli equivoci e mettere i puntini sulle i.
«Suo cugino?».
«Mio cugino, sì. Il barone Mattei».
Sbottai mio malgrado in una risatina divertita. «In questura, almeno finché c’ero io, nessuno lo chiamava in quel modo».
Mi guardò come se avessi insultato in chiesa Gesù Bambino durante la messa di Natale, e cioè con un misto di scandalo, disprezzo e compatimento.
«Non si è mai offeso, ch’io sappia, se lo si chiamava dottor Palmieri», dissi a mo’ di giustificazione.
Sopportai ancora a lungo quello sguardo tanto carico di brutte cose.
«Mio cugino mi ha parlato molto bene di lei», disse infine, mostrando però, con una piega scettica delle labbra, seri dubbi riguardo alle capacità di giudizio dell’altolocato parente.
Diedi un colpetto di ciglia, per ringraziare il questore della stima dichiarata nei miei confronti. «Il dottor Palmieri è una persona squisita. Pardon... il barone Palmieri Mattei».
«Sì», disse, con l’atteggiamento di chi pensa il contrario. «Spesso mi chiedo come faccia a lavorare in quella fogna. Come ci resista».
«Fogna?».
Assentì. «Fogna».
Capii che bisognava cambiare discorso, altrimenti... «Signor De Paulis, perché è venuto da me?».
«Perché negli ultimi giorni mi sono successe cose piuttosto strane».
«Quali? Le dispiace essere più preciso?».
«No, non mi dispiace», disse aspro. «In due parole, una donna mi ha accusato di averle ucciso il marito; mi ha denunciato, addirittura, e poi...».
«Poi?».
«Quando l’ho affrontata per avere una spiegazione è scoppiata in lacrime, come una bambina. Chiedendo perdono, s’immagini. Ha dato la colpa di tutto al dolore per la perdita del marito, dicendo che ne era rimasta sconvolta al punto da accusarmi ingiustamente, eccetera eccetera».
«Come si chiama questa signora?», domandai, pur conoscendo la risposta.
«Splendiani. Gaia Splendiani, è la vedova di... Avrà letto i giornali, no?».
Ammiccai. Mi strofinai l’unghia del pollice contro il mento. «L’ha denunciata, sicché», dissi pensoso.
«Sì».
«E lei come l’ha saputo? Una soffiata di suo cugino?».
Mi schizzò in faccia un’occhiata al vetriolo. «Certo che no. Ma cosa crede?».
«Scusi, non volevo offendere nessuno, ma sa...».
Negò con robusti cenni del capo. «Ho saputo che Gaia, la Splendiani, mi aveva denunciato perché l’altroieri si sono presentati in casa due questurini, chiedendomi se avessi un alibi per la notte di sabato cinque giugno. Solo dopo di ciò mi sono permesso di interpellare mio cugino».
«E lei l’alibi ce l’ha?».
Schizzò di nuovo veleno dalle pupille. «Signor Alesi, io non sono un assassino».
«Questo è uno slogan, scusi, mica una prova».
«Prova? Divertente. Nel nostro sistema non vale la presunzione d’innocenza?».
«In linea di massima. Soltanto in linea di massima. Ma mi dica, per quali ragioni la Splendiani sospetta di lei? Cioè, ha sospettato di lei?». Le conoscevo, ovviamente, dal momento che era stata la giovane vedova in persona a spiegarmele a fondo. Volevo però sentire la musica della sua campana.
«A causa del mio lavoro».
Simulai un interesse perplesso: «...?».
«Io dirigevo lo stabilimento della Tecnoscai Avio, qui a Civita. Probabilmente lei lo sa».
«No», mentii, «so