Caro Dottor Cronin
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Il libro è dedicato ai Pazienti, alle Donne e agli Uomini del Servizio Sanitario Nazionale che si incontrano e confrontano tutti i giorni intorno e dentro la sofferenza. I proventi della vendita saranno devoluti all' “Emporio della Solidarietà” del Comune di Civitanova Marche. Si tratta di un luogo di raccolta di beni di prima necessità, che verranno distribuiti dalle Associazioni di Volontariato ai cittadini di Civitanova inviati dai Servizi Sociali del Comune che si trovano in grave situazione di disagio economico.
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Caro Dottor Cronin - ubaldo sagripanti
Nazionale
PREFAZIONE
La prima sensazione che provoca nel lettore Caro dottor Cronin
è quella di un testo intriso di amarezza, ma non cinico, lucido di una disperazione calma senza sgomento
, per dirla con Caproni. Un libro che sembra amaro perché amara, forse, è la condizione del medico ospedaliero oggi, qui disegnata e rappresentata attraverso storie di medici diversi, volti di uomini e donne accomunati dal condividere uno spazio fisico ed un umore esistenziale. Prende forma rapidamente questa singolare galleria di dottori del secondo e terzo millennio, con i loro dubbi e paure, frustrazioni e rimpianti fino alla depressione suicida, visti nei diversi spazi, anche funzionali, in cui si articola l’edificio ospedale
e si snoda il loro percorso professionale ed umano. Sembra quasi di trovarsi di fronte ad una spoon river ospedaliera, in cui la miniera prende il posto della collina e le storie di un microcosmo si rincorrono a disegnare una ideale lettera aperta ai medici
che, leggendola, non possono non ritrovarsi in una inevitabile empatia. Il libro parla di noi, di questa curiosa forma di professionista indipendente in rapporto di dipendenza
, ossimoro della modernità, di solisti che evitano il coro, di una vita che passa tra un turno e l’altro. Con uno sguardo nostalgico ai tempi in cui si lavorava in un ospedale e non in una azienda, la gerarchia del potere era disegnata in ruoli rassicuranti perché simboli di identità professionale, la libertà clinica non conosceva limitazioni di sorta.
Scorre davanti agli occhi di chi legge tutta la vita professionale, e non solo, di un medico ospedaliero dal primo all’ultimo giorno, scandita da un marcatempo testimone muto ma non estraneo, intrisa di profonda umanità, di amore, dolore fino alla morte.
Gli autori delle lettere-sospiri non sono immuni da nessuna delle criticità che lamenta il medico di oggi: spaesamento di fronte alla invadenza di logiche economicistiche che limitano la libertà clinica, crisi della identità professionale nel vedersi ridotti ad un fattore produttivo tra tanti, figlia della eclisse della dominanza professionale di un tempo che pare lontano, la sanità lottizzata dalla politica che pervade carriere e richiede compromessi mettendo nell’ombra i meriti, una organizzazione del lavoro che non lascia spazio a rapporti e relazioni. La miniera come metafora dell’ospedale, della crescente gravosità, e rischiosità del lavoro ospedaliero, dei suoi ritmi e delle sue turnazioni H24, un ufficio sofferenza che sovrasta il tempo-lavoro dei medici.
Medici che oggi si sentono soli, bersaglio privilegiato se non unico della ristrutturazione imposta dalla crisi, oggetto di mortificazione professionale ed economica. In prima linea, senza prospettive di vero cambiamento, e con risorse in diminuzione, restano loro i più esposti alla delegittimazione sociale e quindi facilmente trasformabili in comodi capri espiatori. Senza nemmeno la tutela di un CCNL, progressivamente trasformato, per via legislativa, in un simulacro vuoto, oggetto di ferite più o meno profonde, come un toro da parte dei picadores.
Il disorientamento e l’angoscia derivante dalla svalutazione di una categoria professionale è presente in tutti i personaggi, che appaiono però incapaci di percepire il legame profondo tra la loro aspirazione ad un diritto a curare in autonomia e responsabilità ed il diritto alla cura dei loro pazienti, che si intravedono solo sullo sfondo. Il servizio sanitario in cui lavoriamo rappresenta un valore fondamentale per un Paese civile, anche e soprattutto in tempi di profonda crisi economica, e potrà salvarsi solo insieme con chi le cure è chiamato a garantire o insieme crolleranno.
Solo, alla fine, in questo luogo di condanna
l’Autore vede una luce, se il libro chiude con l’ottimismo della nascita, il trionfo della vita, l’immagine della regina di Tunisi simbolo di una società multietnica in divenire.
Pochi libri come questo riescono a dare l’idea della identificazione dei Medici con i luoghi del loro lavoro, che sono luoghi di identità anche della comunità. Ed è per questo senso di appartenenza, anche fisica, in cui si esprime la fatica e la complessità del compito che essi ogni giorno si assumono, a tutela del diritto alla salute che la Costituzione riconosce ai cittadini, che meritano più rispetto e maggiore valorizzazione. La passione per questo lavoro che, nonostante i conti sulla carta non tornino
, fa capolino da ogni lettera è un buon viatico per il futuro di una professione che conserverà un ruolo speciale, al di là di aziende e spending review, finchè saranno esseri umani a prendersi cura di altri esseri umani
. Dipende anche da noi come i Medici e la Sanità usciranno dalla crisi attuale, se con più o meno aderenza ai principi costituzionali ed ai valori che da molti decenni animano la nostra passione civile e l’orgoglio di quello che siamo, nonostante tutto.
Costantino Troise
Segretario Nazionale Anaao Assomed
Prologo
"La gabbia scese.
Scese di botto, rapida, nelle oscurità abissali.
E il suono della discesa emerse fuori dal pozzo
come un gran sospiro che salì fino alle stelle."
A. Cronin
Caro Dottor Cronin, è con grande piacere che inizio a risponderle. So bene di non stupirla: dal suo punto di vista si tratta di un’ovvietà. tuttavia, credo che il particolare carattere di questa nostra corrispondenza debba essere reso noto a chi ci leggerà, se vorrà farlo. Io e lei non ci siamo mai incontrati, ho solo letto i suoi libri, ma nel riporre il volume sul comodino e spegnere la luce, ho spesso pensato di scriverle a mia volta. Cominciò molti anni fa con La Cittadella (il primo che ho letto), quando ebbi l’impulso di risponderle considerandolo una lettera aperta ai medici, tra cui quindi anch’io. Consapevole della singolarità del mio punto di vista, mi sono sempre trattenuto, provando addirittura un certo imbarazzo a questo pensiero. Ma dal sei gennaio millenovecentottantuno, giorno della sua morte, le cose sono cambiate – non so perché, ma sono cambiate – ho sentito che potevo scriverle: è stato un imperativo e una liberazione allo stesso tempo!
Comincio a essere abbastanza vecchio da non sorprendermene, anzi, lascio che gli argini crollino mentre il fiume dei pensieri sceglie la via che vuole e non quella che mi fa comodo.
Vede, caro collega, sono in una fase della vita che lei ha già conosciuto a suo tempo, quella che ha descritto nel finale di E le stelle stanno a guardare
. Dopo tanti anni di lotte, speranze e combattimenti inutili, le nuove generazioni di minatori scendono nel pozzo della stessa miniera che aveva ingoiato i loro padri senza che nulla sia cambiato. Il sospiro della discesa che dal pozzo sale alle stelle lo conferma al di là di ogni dubbio. Lei ora è tra quelle stelle mentre io sono ancora qui. Scendo e salgo senza alcuna paura di morire sepolto, annegato o bruciato come un onesto minatore, ma ogni giorno, mentre infilo la tessera magnetica nel marcatempo senza quasi rumore, ho la certezza di spegnermi una volta di più. Ė un sospiro così piccolo che non può paragonarsi a quello eroico della gabbia metallica ingoiata dall’abisso, è molto più breve e basso, come un salto di ranocchia... Come potrebbe salire alle stelle il sospiro di plastica magnetizzata strisciato nel marcatempo di noi impiegati dell’Ufficio Sofferenza? Ma anche questo non può esserle sfuggito, dottor Cronin; così, spero che mi conceda lo stratagemma di raggruppare un po’ di sospiri come fossero minatori nella gabbia. Forse in tal modo posso illudermi ancora che qualcosa di loro salga a raggiungere le stelle, anche solo le più basse.
Noi che infiliamo la scheda nel marcatempo, il camice addosso, il fonendo tra le scapole, le dita negli orifizi, lo sguardo tra i referti, le labbra nel caffè, la vita tra un turno e l’altro, poche speranze nella liquidazione, molte meno nella pensione; noi che non crediamo più alle favole, alla deontologia, alla meritocrazia, alla scienza e alla coscienza… Ma alle procedure, agli avvocati e alla tranquillità: noi siamo gli impiegati dell’Ufficio Sofferenza che ogni giorno evade la pratica della salute pubblica, ne apre i fascicoli con o senza anestesia, ne archivia la deformazione, la perdita, la qualità della vita. Ne processa fasi e tempi nei modi previsti fino a prodotto finito - come da linee guida - escludendo tutto quello che un giudice potrebbe contestare. Noi che abbiamo imparato a giocare solo in difesa perché vince chi ha perso di meno. Noi di quest’Ufficio, chi prima e chi dopo, chi a caro prezzo e chi solo a spese degli altri, abbiamo imparato a spenderci il meno possibile, a guadagnare fuori quello che non possiamo guadagnare dentro, a garantire il massimo del minimo, a evitare la passione, la compassione, le verità innegabili (si può negare anche la morte finché non è certificata), e il buon senso d’una volta poiché essendo d’una volta, non è più di adesso.
Noi impiegati di questa Azienda emettiamo microscopici sospiri quotidiani che non stanno mai insieme, siamo tutti singoli professionisti indipendenti in rapporto di dipendenza esclusiva con funzioni di dirigenti, diretti da dirigenti direttori. Noi non cantiamo quasi mai in coro, non abbiamo una voce per tutti ma ognuno di noi ha imparato ad averne almeno due: una forte coi deboli e una debole coi forti; eppure, eppure… a volte, sospiriamo ancora di fronte al marcatempo prima della discesa nell’invisibile pozzo della sofferenza.
Lei da lassù, dottor Cronin, tutto questo lo vede accadere, ma ancor prima lo ha visto da quaggiù. Sorprendente: nella sua Inghilterra degli anni trenta le cose erano molto diverse da questa nostra Italia di oggi, ma i tipi sono sempre quelli, raccolti in gruppi più o meno grandi: che comandano o soccombono, protestano o ingannano, sfruttano od offrono, abbracciano o uccidono all’infinito.
La solita storia del medico che sceglie di dedicare tutto se stesso alla professione ricavandone più danni e dolori che altro; quella del suo collega che fa carriera sfruttando posizione e persone, senza curare altri che sé stesso. Le loro compagne, amanti o avventure, dolci e fedeli, ruvide e vere, puttane e generose, aride e perbeniste, opportuniste e ferventi cattoliche. I loro falsi amici e veri nemici, ingenui traditori e assassini senza scrupoli, comandanti vigliacchi e soldatini eroici, pazienti disperati e saggi terapeuti. Gli stessi tipi della provincia inglese e di quella italiana, della miniera e