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ilSapelli. Blog di una crisi 2004-2014
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ilSapelli. Blog di una crisi 2004-2014

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ilSapelli è un oggetto da collezione. Contiene più di 300 articoli e saggi di Giulio Sapelli scritti tra il 2004 e il 2014, dieci anni melmosi che hanno cambiato il mondo. Giulio Sapelli collega a modo suo i puntini dispersi, tra gli eventi e tra le varie discipline, ormai disperatamente separate, a ricomporre un affresco del mondo contemporaneo percorso dalla crisi. Dall’economia alla storia, alla sociologia, all’antropologia, alle idee, alla filosofia e al mondo classico: un continuo rimando intrecciato che richiama certe costruzioni di Gary Becker, il grande scienziato sociale, premio Nobel scomparso da poco. Le analisi di Giulio Sapelli spalancano voragini di riflessione e domande infinite: riflessioni sull’oggi, che si concentrano su ciò che l’ha appena preceduto, che è accaduto “appena ieri”.
LanguageItaliano
PublishergoWare
Release dateSep 12, 2014
ISBN9788867972180
ilSapelli. Blog di una crisi 2004-2014

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    ilSapelli. Blog di una crisi 2004-2014 - Giulio Sapelli

    © goWare

    settembre 2014, prima edizione digitale

    ISBN 978-88-6797-218-0

    Copertina: Lorenzo Puliti

    Redazione: Giacomo Fontani, Elisa Pozzana, Stefano Cipriani

    Sviluppo ePub: Elisa Baglioni

    goWare è una startup fiorentina specializzata in digital publishing

    Fateci avere i vostri commenti a: info@goware-apps.it

    Blogger e giornalisti possono richiedere una copia saggio a Maria Ranieri: mari@goware-apps.com

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    Presentazione

    ilSapelli è un oggetto da collezione. Contiene più di 300 articoli e saggi di Giulio Sapelli scritti tra il 2004 e il 2014, dieci anni melmosi che hanno cambiato il mondo. Giulio Sapelli collega a modo suo i puntini dispersi, tra gli eventi e tra le varie discipline, ormai disperatamente separate, a ricomporre un affresco del mondo contemporaneo percorso dalla crisi. Dall’economia alla storia, alla sociologia, all’antropologia, alle idee, alla filosofia e al mondo classico: un continuo rimando intrecciato che richiama certe costruzioni di Gary Becker, il grande scienziato sociale, premio Nobel scomparso da poco. Le analisi di Giulio Sapelli spalancano voragini di riflessione e domande infinite: riflessioni sull’oggi, che si concentrano su ciò che l’ha appena preceduto, che è accaduto appena ieri.

    * * *

    Giulio Sapelli, professore ordinario di Storia economica all’Università degli Studi di Milano ed editorialista del Messaggero, è una delle voci più originali e fuori dal coro tra gli economisti italiani. Intellettuale poliedrico, unisce storia, filosofia, sociologia e cultura umanista in uno stile personalissimo e profondo. Recentemente con goWare ha pubblicato L’attualità di Marx.

    11 marzo A Madrid un attentato terroristico effettuato tramite ordigni esplosivi piazzati su vari treni provoca 191 morti e più di 1000 feriti.

    1° maggio Entrano a far parte dell’Unione Europea Polonia, Slovenia, Ungheria, Malta, Cipro, Lettonia, Estonia, Lituania, Repubblica Ceca, Slovacchia; il numero degli Stati membri sale così a 25.

    3 settembre A Beslan, in Ossezia, terroristi ceceni sequestrano un’intera scuola; al termine delle violente operazioni di liberazione si contano 330 morti (di cui 186 bambini).

    2 novembre George W. Bush batte John Kerry alle elezioni presidenziali americane e inizia il suo secondo mandato.

    26 dicembre Un fortissimo terremoto al largo di Sumatra provoca uno tsunami potentissimo che travolge tutto il Sud-Est asiatico provocando più di 400.000 morti.

    Le élite politiche

    Le élite politiche sono un fenomeno storico composito e cangiante e debbono essere ancora studiate in tutta la loro complessità Un contributo a questo studio viene dal libro che qui discutiamo e che rappresenta un passo innanzi non solo nella comprensione della storia dell’Europa del Sud, ma anche nella ricerca empirica internazionale sulle classi politiche. Un argomento che ha finalmente riacquistato, dopo circa un secolo di silenzio, se si escludono i lavori pionieristici ma passati sotto silenzio, di Meynaud e di Farneti, il posto che merita nell’analisi dello sviluppo politico. Speriamo lo riacquisiti anche nella teoria della rappresentanza politica e delle poliarchie. Da questo punto di vista è significativo che gli autori usino il termine élite e studino la composizione dei gabinetti ministeriali.

    Questo approccio fa riferimento alla tradizione tutta italiana della scienza politica di inizio secolo: Pareto, Mosca, Michels, ne sono gli esponenti più illustri. Esso ha, di fatto, il significato di dare rilevanza – nei processi di nations building e di consolidamento democratico – più al ruolo delle minoranze che detengono il potere politico che alle maggioranze degli elettori. Tali elettori, con le loro volizioni e i loro spostamenti di opinione, sono troppo spesso sopravvalutati nell’analisi della formazione dei meccanismi di decisione.

    Questo libro, continuando la linea teorica bene espressa recentemente da Jean Blondel, inizia a far luce su ciò che sta alla base dei reali processi di formazione delle decisioni: la formazione delle classi politiche, delle minoranze che decidono, siano i sistemi politici, a suffragio ristretto liberale, dittature più o meno totalitarie o autoritarie o intermittenti (come è stato il caso dell’Europa del Sud), oppure democrazie sociali. Il testo, nel complesso dei saggi che lo compongono, soffre tuttavia della mancanza di un preciso quadro concettuale e di una profondità teorica che dovrebbe sempre far compagnia allo sconfinato lavoro di ricerca empirica che fonda tutti i saggi.

    Le fonti sono sia quelle secondarie delle pubblicazioni, coeve e non, sia quelle primarie degli archivi delle burocrazie e dei parlamenti nazionali, di cui gli autori fanno un ottimo uso. Questo è un primo punto di grande interesse di questo libro Esso si articola attraverso quattro studi di caso: Portuguese Ministers, 1851-1999: Social Background and Paths to Power, di Pedro Tavares de Almeida e Antonio Costa Pinto; Ministers and Regimes in Spain: From the First to the Second Restoration, 1874-2002, di Juan J. Linz e Miguel Jerez con la collaborazione di Susana Corzo; Ministers in Italy: Notables, Party Men, Technocrats and Media Men, di Maurizio Cotta e Luca Verzichelli; Ministerial Élites in Greece, 1843-2001: A Synthesis of Old Sources and New Data, di Dimitri A. Sotiropoulos e Dimitris Bourikos. Conclude il libro un saggio di Nancy Bermeo: Ministerial Élites in Southern Europe: Continuities, Change and Comparison.

    I risultati a cui si giunge in questo libro, comparativamente intesi e benissimo sintetizzati da Nancy Bermeo, sono una importante tappa raggiunta nel lavoro di comprensione dello sviluppo politico sud europeo. Proviamo a sintetizzarli. Interessanti sono le conclusioni sul grado di istruzione dei componenti dei gabinetti ministeriali: si riscontra una impressionante continuità, in Grecia, Spagna, Portogallo.

    Tanto nel lungo periodo e in primo luogo nel passaggio più recente dalla dittatura alla democrazia la grande maggioranza di essi ha un’istruzione universitaria e tra di essi prevalgono sempre le professioni che fanno capo all’avvocatura. Fa eccezione l’Italia, dove questa sovra rappresentazione dell’istruzione universitaria non emerge, come è tipico, del resto, delle nazioni come il Regno Unito, la Germania e la Svezia. Anche in queste nazioni i processi di selezione della classe politica direttiva (le élite ministeriali) sono fortemente appannaggio di partiti radicati nella società da lunghi periodi e dal profondo collegamento con le organizzazioni sindacali. Questo processo non è avvenuto recentemente in Portogallo e Spagna per la relativa giovinezza delle loro democrazie e dell’implementazione partitica che ne consegue. E questa sovra rappresentazione era tipica di queste nazioni anche tra Ottocento e Novecento. L’Italia e la Grecia condividono, per parte loro, il radicamento partitico, radicamento che in Grecia neppure la guerra civile, il regime maccartista dopo il 1949 e poi la dittatura hanno potuto sradicare. Questo spiega, come aveva bene posto in risalto Legg, il ruolo dei partiti greci, assai simili a quelli italiani per il ruolo di agenti del patronage che fonda la selezione delle élite a ogni livello di responsabilità governativa, centrale e periferica, così come accade più che altrove in Italia. Naturalmente l’avvento delle democrazie sposta dall’esercito e dall’alta burocrazia al parlamento il bacino di reclutamento delle élite ministeriali, mentre rimane sempre ristretto quello delle istituzioni rappresentative locali, se si fa eccezione per la Spagna a causa della recente rilevanza che in essa ha assunto il processo federalistico.

    Solo l’Italia si avvicina ai livelli europei in relazione al reclutamento delle élite dopo un percorso di rappresentanza e di amministrazione a livello locale, a riprova del ruolo svolto dai partiti nella selezione delle élite medesime. Mentre la stessa Italia spicca nella sua solitudine se si considera il peso che ha sempre avuto, ma che si è recentemente accresciuto, la provenienza delle élite dall’apparato burocratico dello Stato a ogni livello. Scarsa sempre, in ogni nazione, la provenienza dal mondo degli affari dei componenti dei gabinetti ministeriali. I casi che si rendono manifesti sono pochi e sono simili a quelli che fanno rilevare in tutti i Paesi un aumento del ruolo dei tecnici. Ossia di coloro che non hanno un corsus honorum nelle file di partito prima di accedere a incarichi di governo per via dell’accesso ai meccanismi decisionali. Processo, questo, che si è accresciuto quando i singoli Paesi entrano a far parte dell’Unione Europea. Ovunque questa forma di integrazione sociopolitica richiede capacità tecniche rilevanti e apre un nuovo spazio alle élite tecnocratiche in una misura prima sconosciuta, anche nelle dittature e negli Stati liberali. È questa una tendenza comune a tutte le nazioni qui considerate, Così come sommamente significativa è la tendenza di più lungo periodo riscontrata: a differenza di quanto avveniva un secolo fa e sino ai recenti anni Settanta (salvo che in Italia per le ragioni prima dette), non è più il censo a determinare in misura rilevante il grado di inclusione possibile nelle élite. Sempre più lo diventa, come aveva previsto Karl Mannheim circa cinquanta anni or sono, il grado di istruzione, che si rivela essere il più potente strumento di superamento delle barriere all’entrata che le oligarchie politiche costruiscono incessantemente attorno a sé nella loro circolazione. Infine vorrei notare da ultimo, un aspetto di grande intere. Questo libro rappresenta più di altri l’emergere sulla scena internazionale dell’eccellenza del lavoro scientifico dell’accademia portoghese. Essa è una comunità troppo poco conosciuta e valutata per quel che vale.

    2004

    * * *

    L’attualità della questione nucleare

    I cicli energetici sono secolari. Nell’Ottocento la fonte primaria era il carbone, la forma di utilizzazione la macchina a vapore. Nel Novecento le fonti energetiche divennero tre: il petrolio, il gas naturale, l’energia nucleare e la forma di utilizzazione fu la dinamo e quindi l’elettricità. Vale la pena di ricordarlo. Soprattutto oggi che si discetta di energie alternative e si prepara una politica energetica europea.

    L’idrogeno non è una nuova fonte energetica, è un vettore di energia che per esistere ha bisogno di altre fonti primarie: gas naturale, carbone, nucleare, acqua. È ancora incerto se il suo uso ridurrà in proporzione l’uso delle fonti primarie a parità di potenza erogata e di costi di produzione.

    In ogni caso si deve sempre ricorre ad altre fonti primarie oppure a dei vettori, come l’elettricità, con la quale è possibile ricavarlo dall’acqua per elettrolisi. L’energia elettrica ha il grande vantaggio della flessibilità dell’uso e del trasporto ed è insostituibile, così come le centrali che la producono, a differenza dell’idrogeno. Voglio ricordare questi dati perché mi pare che i governi europei abbiano bisogno di una massiccia dose di realismo, in primo luogo quello italiano.

    Nel nostro Paese non esiste la possibilità di produrre elettricità tramite l’energia nucleare: siamo l’unico Paese europeo e dei g7 in queste condizioni. Si va dalla Francia che produce il 78% della sua elettricità con il nucleare, alla Slovacchia e all’Ungheria con il 65%, al Belgio con il 47%, alla Svezia con 45%, alla Germania con il 30%, alla Spagna con il 26%, al Regno Unito con il 22%. Insomma, per rimanere in Europa, in questo continente operano 164 reattori nucleari che producono il 28% dell’energia elettrica. È una situazione molto precaria, se si considera che i consumi di energia elettrica sono destinati ad aumentare esponenzialmente, come quelli di gas naturale. Occorre scegliere, ma con la consapevolezza, per esempio, che per produrre con energie cosiddette alternative (pensate all’idrogeno e vedrete che alternativo non è...), per esempio, 1000 megawatt, come si fa con una normale centrale, sono necessari 50 chilometri quadrati di pannelli solari, che non potrebbero essere installati che nell’Africa sahariana o nei deserti nord americani.

    Se si guardano i trend pluridecennali si osserva che senza dubbio è aumentato l’uso delle energie alternative, anche se i danni acustici e paesaggistici si fanno già gravi per quanto riguarda l’eolico... e del solare si è detto. Ma se si osservano con attenzione tali trend senza pregiudizi ideologici si osserva che l’unica energia che a livello mondiale ha compensato la riduzione del peso relativo del petrolio e dell’energia idraulica è il nucleare, che supera di gran lunga il gas naturale nell’opera di compensazione. Un trend che non potrà non aumentare in futuro dinnanzi all’emersione dell’Asia come baricentro della politica economica mondiale.

    Per rimanere all’Europa e agli usa, la produzione di energia tramite il nucleare ha avuto sempre, sin dal 1951, quando venne costruita negli usa la prima centrale nucleare, ritmi elevatissimi di crescita, arrestatisi solo per l’avvento, nel ventennio Settanta-Ottanta, di un regime di bassi prezzi del petrolio e del gas naturale e per le preoccupazioni politiche che insorsero quando iniziò la proliferazione nucleare per usi militari. Del resto, anche Jean Monnet, uno dei padri fondatori dell’Europa e il costruttore della Comunità europea dell’energia atomica – fatto che è completamente dimenticata dalla retorica europeista – se ne rese conto allorquando affermò che l’energia atomica è l’essenza della politica di potenza nazionale.

    Per questo, quando ho letto le recentissime dichiarazioni dei presidenti degli usa e dell’India sulla necessità di una politica nucleare comune mi sono venute alla mente le parole di Monnet: ora il nucleare è un segmento della politica di potenza internazionale.

    Ebbene, ora che i prezzi del petrolio sono alle stelle e se è vero che l’Europa deve riprendere il cammino della crescita, è necessaria una politica energetica che riaffronti con forza la necessità di costruire nuove centrali nucleari, ora che i problemi di sicurezza sono stati irreversibilmente superati. È in questa prospettiva che deve muoversi anche il governo italiano, affrontando la questione con una ricerca di collaborazione internazionale e una riattivazione delle potenzialità scientifiche e tecnologiche che le università e le imprese – in cui il governo ha ancora importanti partecipazioni azionarie – ancora fortunatamente possiedono. E ciò nonostante tutte le mortificazioni e le umiliazioni a cui sono state sottoposti coloro che di quei patrimoni scientifici sono stati e sono i detentori potenzialmente creativi.

    6 giugno 2004

    16 febbraio Entra in vigore il protocollo di Kyoto sull’emissione di gas tossici; vi aderiscono 141 Paesi, esclusi gli USA.

    2 aprile Muore papa Giovanni Paolo II; il conclave elegge papa il cardinale Joseph Ratzinger, col nome di Benedetto XVI (19 aprile).

    7 luglio Un attentato terroristico a Londra, con esplosivi piazzati su autobus e metropolitane, provoca 55 morti e 700 feriti.

    23-31 agosto L’uragano Katrina si abbatte sulle coste statunitensi provocando 1836 morti e 81,2 miliardi di dollari di danni; New Orleans è la città più colpita, con l’80% della sua superficie allagata.

    29 dicembre Mario Draghi è nominato governatore della Banca d’Italia.

    I Merzagora, una razza estinta

    Domani a Milano l’ispi organizza una tavola rotonda in occasione dell’uscita del libro Cesare Merzagora. Il presidente scomodo di Nicola De Ianni e Paolo Varvaro. Ne discuteranno, con gli autori, Boris Biancheri, Franco Bruni, Fabio Cerchiai, Ferruccio de Bortoli, Marcello de Cecco, Francesco Giavazzi e Sergio Romano. Cesare Merzagora era un gentiluomo che, con il solo suo porsi, diffondeva autorevolezza e rassicurante serenità.

    Veniva da lontano, dal mondo della Banca Commerciale, del Credito Italiano, della Pirelli, della Edison degli anni Trenta. Veniva da quella Milano ch’era il centro direttivo dell’economia italiana. E che possedeva una distinta potenza che dopo la Seconda guerra mondiale certo si ricostituì, ma non più con quel respiro internazionale che caratterizzava gli anni tra le due guerre, nonostante l’autarchia fascista. Sodale di Enrico Marchesano è con lui sconfitto nella partita che si aprì dopo la morte di Toepliz alla Commerciale. Quello scontro fu, negli anni Trenta del Novecento, durissimo e su di esso Merzagora scrisse pagine indimenticabili, raccolte in un libro di memorie che non poté, all’ultimo momento, vedere la luce per un comporsi di veti incrociati. Da quel conflitto uscì vincitore colui che conquistò per se stesso la fama di essere il migliore: Raffaele Mattioli.

    Marchesano, alla morte di Arnoldo Frigessi di Rattalma, l’uomo che rese grande la ras tra le due guerre mondiali, divenne presidente prima della stessa ras e poi dell’iri. Merzagora scelse invece, durante la bufera della Seconda guerra mondiale e gli anni della Resistenza, di lanciarsi nella lotta politica. E corse gravi rischi personali, come massima autorità economica del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia. Fu l’uomo fondamentale, con Enrico Mattei, per realizzare quella saldatura tra le brigate partigiane combattenti e il mondo delle élite economiche non solo milanesi che permise, terminata la lotta armata con il 25 aprile 1945, di iniziare la ricostruzione economica con un’estesissima collaborazione e cooperazione sociale.

    Merzagora assunse, in quegli anni, una statura tale che lo pose come un interlocutore indispensabile del mondo della politica in ogni suo rapporto con il potere economico, grazie a una ragionevolezza e a una maturità senza pari. Ma dal mondo economico si venne via via distaccando per assumere responsabilità politiche che sono emblematiche, nel loro comporsi e nel loro svolgersi, della configurazione del sistema di potere degli anni Cinquanta e Sessanta. Il rapporto tra politica ed economia veniva allora gestito, infatti, governando un equilibrio continuamente instabile, dinamico e pieno di conflitti tra proprietà privata e proprietà pubblica, come dimostrarono la fondazione dell’eni nel 1953, la nazionalizzazione delle società elettriche del 1963, la scalata di Cefis alla Montedison, la crescita che pareva irreversibile dell’iri e della proprietà pubblica. Merzagora svolse un ruolo di cerniera tra un centrismo democristiano che guardava a sinistra e un mondo economico spaccato in due: fiat, Olivetti, eni da un lato, protesi a rinnovare il capitalismo italiano e consapevoli della necessità di un’area pubblica che sostenesse la crescita di una industria dei beni strumentali per i quali il capitalismo privato non intendeva impegnarsi; Edison, Montecatini dall’altro, convinte, queste ultime, che da quel rinnovamento non sarebbero giunti che iatture e disastri e che era più opportuno lasciare l’Italia pencolante nel suo equilibrio agro-commerciale da cui si traevano enormi rendite monopolistiche.

    Merzagora per due legislature fu presidente del Senato della Repubblica e svolse un ruolo decisivo per impedire fratture insanabili, conflitti irresolubili, per trovare sempre una soluzione istituzionale che consentisse la mediazione e il compromesso e che ebbe il significato, di fatto, di consentire all’ala modernizzatrice del capitalismo italiano di vincere la sua battaglia. Il suo ruolo fu importantissimo, decisivo: rappresentò l’acme di quell’azione svolta da una classe dirigente di elevato livello morale, di grande indipendenza di giudizio, di maturo rispetto per la cultura e per quella separazione tra ricchezza economica e potere politico che è il sale di ogni democrazia, ampia o ristretta ch’essa sia. Una classe dirigente alla quale l’Italia deve il suo inserimento nel novero delle potenze mondiali. Merzagora fu un campione di una razza che, tuttavia, tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento andava estinguendosi. E che pare ormai definitivamente estinta, con la crisi della grande impresa, la decadenza della classe politica, il dilacerarsi dello Stato e il frantumarsi della sua unità giuridica senza che sorga una nuova alternativa istituzionale e culturale. Terminato il suo mandato al Senato, Merzagora non si ritrovò più né nel mondo dell’economia né in quello della politica. Entrambi erano lontani, ormai, dal suo stile e dalla sua innata indipendenza di giudizio. Quest’ultima lo consegnava alla solitudine.

    È questa la cifra degli anni che trascorse, sino alla sua fine terrena, alla presidenza delle Generali. Trieste – e io giovane professore lo ricordo ancora, lassù, nel suo studio che spaziava su piazza dell’Unità d’Italia – era un’isola sospesa tra i mondi dell’Ovest e dell’Est ed egli ci si trovò benissimo, con una naturalezza senza pari. S’impegnò a fondo per l’indipendenza delle Generali, in una sorta di ritorno a quei fasti internazionali che l’avevano visto giovanissimo protagonista negli anni Trenta, negli anni della gioventù, quando Trieste era una terra di conquista per il nazionalismo economico italiano e, insieme, un esempio di civiltà nei confronti di un mondo oscuro e minaccioso. Sino all’ultimo, del resto, difese i principi di una libertà d’impresa che, per esser tale, deve fondarsi su grandi ideali civili. E questo è il suo inattuale, ma quanto mai fecondo, imperituro, messaggio che lascia a noi, testimoni del suo e del nostro tempo.

    14 marzo 2005

    * * *

    L’industria automobilistica di fronte alla globalizzazione

    L’industria automobilistica nord americana è in una crisi profonda. Pochi anni or sono essa sembrava, invece, essersi levata in piedi dinanzi ai giganti giapponesi che ne insidiavano il primato mondiale financo sul suo stesso territorio. Quello di elezione e per eccellenza: quell’immenso mercato interno che era stato la sua patria e il centro irradiatore di un potere mondiale. Testa a testa giapponesi e nord americani si erano confrontati e, così come pareva dovesse accadere nell’informatica distribuita e nelle telecomunicazioni, i secondi parevano soccombere dinanzi ai giganti del Sol Levante. Vennero poi, nel decennio Novanta, gli anni della globalizzazione finanziaria dispiegata e della competizione a pelle di leopardo su scala planetaria. Essa aveva alcune notevoli novità rispetto agli anni della grande crescita seguita alla Seconda guerra mondiale.

    La competizione, per le grandi multinazionali, significava competere sì sul segmento finale dell’offerta al consumatore, ma, nel contempo, cooperare industrialmente, nella fabbricazione si badi bene, dove vi sono sì i robot, ma anche viti e bulloni, sudore e sangue che scorre, intelletto e resistenza fisica che si fondono e che non si vedono ma che esistono. Occorreva cooperare, del resto, nelle grandi strutture componentistiche di tre grandi industrie mondiali: l’aeronautica, la petrolifera, l’automobilistica. Questo perché la globalizzazione apriva immensi mercati e i volumi dovevano essere giganteschi per far fronte alla legge dei rendimenti decrescenti e alle perdite di efficienza che la grande scala imponeva inesorabilmente, mentre altrettanto inesorabilmente imponeva se stessa. I mercati nord americani finanziariamente molto meno imperfetti di quelli giapponesi, occulti e collusi, diedero un aiuto straordinario all’industria nord americana che rapidamente recuperò il terreno rispetto a quella del Sol Levante. Tutto pareva ritornato come prima. Ma la crisi, invece, minava alle radici l’industria nord americana. E le radici erano là dove si stava formando quello che io anni or sono chiamai il capitalismo dell’alleanza, che, mentre competeva, appunto, cooperava. Cooperava con i fornitori in primo luogo e cooperava con essi mentre doveva esternalizzare funzioni che un tempo costruiva da sé e che ora erano nelle mani, invece, di quegli stessi fornitori che via via acquisivano sempre più potere erodendo margini di guadagno. Le sinergie e le interconnessioni con essi divenivano e divengono a questo punto fondamentali. È il problema che vive l’industria aeronautica e soprattutto quella petrolifera che non fa più nulla senza un’integrazione complessa tecnologica e finanziaria tra più soggetti societari. La stessa cosa capita alla Ford e alla gm.

    Razionalizzare i costi implica razionalizzare i costi dei rapporti con questi fornitori e collaboratori su grande scala e dominarli anziché esserne dominati, innanzitutto sul piano tecnologico. Il prezzo diviene spesso ininfluente rispetto alla rapidità e alla sicurezza della consegna dei prodotti. In questo campo i giapponesi e gli europei sono più efficienti dei nord americani. Il fenomeno Nissan-Renault è lì dinanzi a tutti a dimostrarlo.

    È in questo cruciale snodo dell’industria che quella nord americana perde terreno. E perde altresì terreno sul segmento finale della consegna del prodotto al consumatore. La legislazione antitrust impedisce la razionalizzazione dei concessionari, che sono troppi e che castrano all’origine ogni tentativo di rifondare le reti di vendita secondo criteri di efficienza e di efficacia. I problemi sono quindi assai più ampi e profondi dei costi previdenziali dei dipendenti dell’industria automobilistica. Occorre un ripensamento complessivo della struttura industriale e una razionalizzazione che inizi dai processi di fabbricazione. Processi che troppo spesso, erroneamente, crediamo che non esistano più.

    1° aprile 2005

    * * *

    Ma quale italianità

    Si discute molto, di questi tempi, di patriottismo economico, di italianità, in economia e oltre. Si discute del rapporto, insomma, tra agire del mercato e agire della società. Dove questa ultima appare come un’entità che possa essere separata dal mercato medesimo e, intatta, conservare tradizioni, pulsioni emotive, secolari patrimoni culturali. Il mercato viene visto come una potenza estranea alla società, che è destinata a frantumarsi dinanzi all’erompere dei rapporti monetari dispiegati e della forza dirompente del più importante e decisivo dei mercati: quello dei diritti di proprietà. È questa visione delle trasformazioni in corso tra economia e società che sembra prevalere tra i più, anche se si tratta di osservatori attenti e consapevoli delle cose di un mondo che sta cambiando dinanzi a noi. L’angoscia li pervade e con l’angoscia la visione dell’essere è sempre meno limpida e precisa di quanto non sia in una personalità assertiva, serena, pur nei dubbi e nelle incertezze.

    Una lunga catena. Naturalmente costoro sono incoraggiati dal perseguire nella loro angoscia, dalla concezione di un liberismo primitivo altrettanto dilagante, per il quale la società non esiste e tutto si può ridurre a mercato. Si dimentica in tal modo il secolare lavoro di costruzione sociale del mercato medesimo e di come esso sia soprattutto il frutto di una serie di decisioni sociali e istituzionali la cui catena costituisce il percorso infinito e impervio della vita associata. Pensiamo all’Italia.

    Nella seconda metà dell’Ottocento una nazione giovanissima inizia a costruire un mercato grazie all’apertura dei mercati mondiali, che allora era potente, così come lo è divenuta oggi, dopo il crollo del muro di Berlino e l’avvento dell’interdipendenza economica che chiamiamo, per amor di semplificazione, globalizzazione. Ma quella formazione di un mercato transnazionale a base locale avvenne simultaneamente alla creazione di una nazione, debole e divisa sin che si vuole, ma che, tramite i suoi gruppi dominanti e dirigenti, voleva affermare la sua identità nel mondo.

    Il nazionalismo intellettuale, il patriottismo, non si separava dall’apertura ai capitali stranieri, al loro giungere in Italia con forza imponente, cosicché gran parte del sistema bancario non localistico e dell’industria medio-grande furono in grande misura costruiti, fondati e rifondati, perfino nei pubblici servizi, grazie all’intervento del più avanzato capitale straniero. Stato nascente. Si può dire che quell’avvento delle forze del mercato distrussero l’italianità? Allo stato nascente in cui essa era allora, sarebbe stato assai facile distruggerla. Accadde l’opposto, invece. Quell’intervento pose le basi della crescita economica, dello sviluppo sociale, della trasformazione delle relazioni tra gruppi e strati e ceti della società dell’Italia moderna. Ma lo stesso ragionamento potremmo fare per la Spagna, per l’India alcuni decenni dopo, per la Cina costiera sin dal Settecento, per l’Oceania e naturalmente per il Giappone più o meno negli stessi anni in cui si costruiva l’Italia nuova. Ci siamo dimenticati di tutto questo perché, nonostante il gran parlare di globalizzazione, abbiamo ancora le abitudini mentali, gli stereotipi psicologici che sono stati costruiti nella lunghissima stagione del nazionalismo economico mondiale che durò dalla fine della Prima guerra alla caduta, appunto, del muro di Berlino. Un processo che non investì, tuttavia, le due grandi potenze che sono sempre state internazionali nelle loro vocazione liberista in economia: gli usa e il Regno Unito. E che per questo hanno per così lungo tempo dominato e dominano il mondo. Anche nel nazionalismo economico che ci siamo lentamente lasciati dietro le spalle su scala mondiale vigeva un rapporto tra società e mercato. Ma questo rapporto era subordinato al rapporto tra economia e nazione e la seconda condizionava potentemente la prima e su questa base definiva tutti i rapporti sociali. Ne scaturisce una società chiusa, incrostata di corporazioni, fondata sullo status, incapace di produrre eguaglianza nelle opportunità e dominata dal clientelismo e dalla corruzione, pur negli innegabili progressi che si raggiungevano nelle condizioni materiali di vita.

    Esse erano rese possibili dalla debole, ma attiva, inserzione nei cicli dell’economia mondiale. Eravamo italiani a quel tempo? «Ma certamente!», diranno gli angosciati fautori dell’italianità perduta. Un secolo fa. Lo eravamo tra la seconda metà dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale, quando il capitalismo straniero, il mercato straniero, erano così attivi e presenti sul suolo patrio? Come è possibile dir di no? Tutto lo documenta: una letteratura molto fiorente, un risveglio delle arti plastiche con pittori italiani noti in tutto il mondo, con il progresso delle scienze che fu rapidissimo e glorioso... Ecco confrontarsi, dunque, due diversi paradigmi di italianità e di rapporto tra economia e società. Quello che si sta ora delineando, culturalmente prima che economicamente, è per molti versi simile a quello che consentì la nascita dell’Italia come nazione e che ci portò nel novero delle grandi potenze, da cui, sino a oggi, non ci siamo più allontanati. Come si vede il concetto di italianità in economia non vuol dire assolutamente nulla se lo si intende in una forma polemica e contrastante con l’internazionalizzazione della società. Si può essere italianissimi ed esprimere una diversità culturale, una radicata tradizionalità rinnovatrice cosmopolita nel più dilagante dei mercati e proprio per questo trovare motivi di crescita, di sviluppo, di creazione di gobettiane energie nove di cui tanto abbiamo bisogno per rimanere, appunto, nel novero di quelle grandi potenze mondiali.

    Ben vengano, dunque, gli attori stranieri bancari, industriali a trasformare il volto del mercato e della società italiana, perché il primo non è mai separato dalla seconda. In tal modo si rafforzano i legami dell’Italia con il mondo, soprattutto con quello di un capitalismo più avanzato e incivilito dalle regole internazionali dei giochi dello scambio. Regole che, non lo si dimentichi, anche l’Italia ha contribuito a far applicare in Europa. È con questo spirito che dobbiamo guardare a ciò che sta beneficamente accadendo in questi tempi. Le opa promosse dalle banche olandesi e spagnole fan parte di un grande cambiamento in corso nella società mondiale, cambiamento di cui l’Italia è parte. Dinanzi a esso solo coloro che non sanno leggere il passato per costruire il futuro possono sprofondare nell’angoscia narcisistica, anziché gioire per le nuove occasioni di internazionalizzazione che si aprono dinanzi all’Italia. L’intervento dei capitali esteri nella seconda metà dell’Ottocento pose le basi della crescita economica e sociale dell’Italia moderna. Chi oggi piange per l’opa dovrebbe ricordarlo.

    11 aprile 2005

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    Immobilismo

    Uno dei problemi storici della crescita economica italiana è sempre stato il rapporto tra rendita e profitto. Oggi questa differenza sfuma, si confonde, non è percepita come lo era un tempo, quando gli economisti usavano queste categorie per interpretare i destini delle nazioni e dei loro protagonisti economici. Oggi si usa indifferentemente il termine valore. Produrre valore, ossia utile d’impresa, quale sia l’impresa, diviene il compito dominante ed essenziale. Ma c’è valore e valore, ossia l’utile può esser generato da diverse attività intraprese. E la differenza essenziale è appunto tra profitto e rendita.

    Il primo fiorisce tra quelle attività che generano utili in un contesto competitivo ad ampio raggio, dall’innovazione tecnologica all’attenzione ai bisogni di un consumatore esigente, sino alla relazione conflittuale ma leale con altre imprese concorrenti. È dunque il profitto capitalistico per eccellenza, dove il monopolio e l’oligopolio non sono le forme dominanti, dove la presenza dello Stato non solo è contenuta, ma soprattutto è esercitata senza creare posizioni di monopolio privato che di quella presenza pubblica si avvantaggiano a scapito di altri interlocutori.

    La rendita invece si forma in primo luogo nella sua forma cosiddetta fondiaria, ossia nel rendimento della terra per quel che riguarda l’agricoltura non capitalistica e nello sfruttamento della valorizzazione delle aree fabbricabili stimolando mutamenti nella destinazione d’uso verso utilizzazioni diverse e sempre più convenienti di quelle in essere quando se ne acquisì la proprietà. La rendita si forma allorché la presenza dello Stato nell’allocazione delle risorse si dipana, per esempio, creando condizioni di favore nell’accesso alle gare per aggiudicarsi lavori, creando condizioni di asimmetria informativa a svantaggio di taluni operatori e danneggiandone altri, creando attività che non generano profitto e occupazione in forma continuativa ma soltanto occasionale e diretta a creare opere che daranno poi ai proprietari un rendimento sicuro, svincolato da qualsiasi attività competitiva d’intrapresa.

    Alcuni Paesi sono stati studiati proprio sotto questo punto di vista e sono stati definiti per il prevalere più o meno spiccato del profitto o della rendita nei loro conti economici nazionali. Pensiamo alla Grecia e alla definizione che studiosi illustri diedero – e danno – di essa come patria del cosiddetto rentier capitalism, ossia del capitalismo fondato sulla rendita per il prevalere dei monopoli, degli oligopoli e delle attività immobiliari, che del rentier capitalism sono l’essenza moderna e che in quella nazione erano prevalenti a scapito di altre attività. Non c’è nessun giudizio moralistico in questa definizione. Ma certo un’attività che produce rendita non favorisce la crescita economica di una nazione. Anzi, se si spinge oltre ai livelli fisiologici del suo ampliamento, può produrre blocchi e strozzature alla stessa crescita. Solo il profitto capitalistico rivoluziona la società, solo il profitto capitalistico costringe gli operatori all’innovazione e alla benefica e darwiniana lotta per l’esistenza che rafforza le membra della società e rinvigorisce le menti con la progettazione strategica. La dialettica reddito-profitto in Italia deve tornare a essere un elemento di misurazione della salute della nostra economia e della nostra società. Se la rendita prevale sul profitto – diceva il grande governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi – la società si ammala, le forze dello sviluppo declinano a vantaggio del parassitario interesse che punta a far prevalere l’oligopolio e la collusione tra pubblico e privato, con conseguenze che possono introdurre tossine pericolosissime per l’equilibrio sociale. E l’Italia è una nazione dove storicamente la rendita ha troppo spesso prevalso sul profitto, con conseguenze devastanti, come oggi sta nuovamente per prevalere, nonostante gli anni delle privatizzazioni e delle inferme liberalizzazioni.

    Ecco l’allarme che sale dalla presenza dei protagonisti della rendita nelle recenti vicende economiche assunte alla notorietà giornalistica. Per carità. C’è posto per tutti, anche per i rentier. Anzi, per certi versi sono anche simpatici: un tempo avevano gusti culturali raffinati, leggevano D’Annunzio e a lui volevano assomigliare, facevano lunghi viaggi e scrivevano novelle spesso bellissime, à la Somerset Maugham. Oggi rentier di questo genere non esistono più. Ed è un peccato per la storia della cultura e dei loisirs. Per questo attirano su di loro gli strali dei vecchi snob dell’economia come il sottoscritto, che è un inguaribile nostalgico e si ostina a considerare il profitto e i capitalisti, anziché i rentier, il benefico lievito della società capitalistica. E del mercato ben regolato e ben temperato, nella chiara luminosità delle regole.

    25 aprile 2005

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    La governance, questo sconosciuto

    Le recenti vicende economiche italiane, ancora in corso, le vicende delle opa bancarie, dei timori sorti per scalate o condizionamenti su entità economiche che sono state definite istituzioni da difendere da interlocutori importanti del potere situazionale di fatto come, per esempio, Marco Tronchetti Provera, il gran discutere che si fa, insomma, di istituzioni in economia, riporta all’attualità un tema essenziale per il corretto funzionamento del rapporto tra società e mercato. Mi riferisco in primo luogo, in questa modesta riflessione, al mercato dei diritti di proprietà, senza il quale nessun sistema di mercato esistente può dirsi dispiegato pienamente e nessuna società dal mercato stesso può trarre incentivi per il suo cambiamento e neppure può darne di notevoli al mercato medesimo.

    Il problema essenziale per ben equilibrare i rapporti tra mercato e società, lo si comprende bene, è quello del sistema di governance che si vuol far prevalere in un sistema di mercato dei diritti di proprietà. La governance non è, infatti, un sistema di controlli, interni o esterni alle imprese ch’essi siano. È, invece, un meccanismo di bilanciamento dei poteri tra tutti coloro che sono interessati dalla proprietà e dal controllo delle attività economiche, così che nessuno di essi prevalga sugli altri, incrinando l’equa struttura organizzativa del sistema e la sua efficacia.

    Essa è definita dal dispensare in forme regolate e stabilite ex ante le risorse destinate a tutti i partecipanti, proprietari o controllori ch’essi siano dell’attività economica in questione.

    Si comprende bene quanto essenziali, per questi fini siano la trasparenza informativa e la tracciabilità di ogni decisione caratterizzante la performance dell’attore economico in questione, sia sul fronte della proprietà, sia su quello del controllo. Gli azionisti non dovranno agire, per esempio in condizioni di asimmetria informativa, a scapito di coloro che non condividono le informazioni che consentono di accedere alla proprietà azionaria in un momento determinato. I manager non dovranno non lasciar traccia del loro operato, affinché esso sia controllato da tutti coloro che vogliano averne contezza, a iniziare dagli azionisti per terminare con tutti i dipendenti, fatte salve le regole di riservatezza. E a tutto ciò, con la gran somma di competenze richieste, servono, appunto, i controlli, dall’accountability alle leggi.

    Ben si comprende, allora, il fatto che una buona governance presuppone, prima che un’impresa, una società libera e aperta. Libera da incrostazioni burocratiche e corporative che oppongano alla trasparenza informativa l’oscurità organizzativa e clientelare delle corporazioni e delle associazioni italiche (che non hanno a che vedere con quelle à la Tocqueville), per esempio. Società aperta perché consente il ricambio delle élite e delle classi dirigenti o aspiranti tali, in una continua circolazione delle stesse, senza inner circles gerontocratici oppure di censo senza meritocrazia: senza incrostazioni, in definitiva, di potere oligarchico, monopolistico, e via discorrendo.

    Ben si comprende, allora, come si fatichi, in Italia, a far progredire le regole di un mercato benevolente e non selvaggio sostenuto da una società aperta e non chiusa (anche se, tuttavia, molti passi innanzi sono stati compiuti, ma con immense fatiche e soprattutto per il valore di alcune identità personali). Tutto attorno a noi parla del contrario. Pensate, per esempio, alla recente opera in corsa di riforma del codice Preda: a concorrere a essa si è stati chiamati su segnalazione delle associazioni e saranno i loro tecnici a fare il lavoro di base e fondativo, saltando a piè pari il protagonismo diretto e immediato delle imprese. Tale protagonismo poteva far sorgere conflitti di interesse? Non mi pare che sia stato questo il timore, se a far parte della commissione son stati chiamati i grandi protagonisti della vita economica italiana, i quali dovrebbero appunto essere oggetto dei controlli su cui si dovrà discutere e su cui si dovrà deliberare. Non credo, quindi, che il problema sia stato quello di un conflitto di interesse, evitabile, del resto, se tutti i lavori si svolgeranno, come sarà, alla luce del sole e con grande trasparenza. Il problema è di ordine squisitamente culturale. I problemi dei mercati dei diritti di proprietà sono di troppa grande importanza per essere intisichiti in una dimensione esclusivamente tecnica. Da questo punto di vista è stupefacente l’assenza dei professionisti più preparati e più indipendenti, evitando, quindi, il confronto con l’opinione pubblica nel senso anglosassone del termine, in un dibattito scientifico e politico di cui abbiamo gran bisogno.

    Si comprende bene, in questo clima, come sia difficile far comprendere, addirittura comprendere, chi siano o chi possano essere gli amministratori indipendenti, sebbene l’ocse e l’ue ne abbiano dato più volte definizioni esaurienti. Pensate come sia difficile far comprendere che i diritti degli azionisti di minoranza non siano solo quelli di un potere di veto perché essi, anch’essi, una volta eletti nei boards, non potranno esimersi dal rappresentare tutti gli azionisti, perché dal nostro Codice Civile il mandato imperativo e la sua sottomissione a esso è severamente punito. E pensate a quanto sia difficile, a questo punto, far comprendere come il conflitto di interesse, in una società chiusa, sia endemico, ossia sempre presente, ma sempre evitabile e superabile allorché si applichino i principi della trasparenza informativa, della tracciabilità di ogni azione, della segregazione di tutte quelle procedure e quelle pratiche che possano far scaturire – per il loro sovrapporsi tra diverse persone unite da vincoli di complicità – frodi, furti, comportamenti non confacenti con la lotta contro le asimmetrie informative e per l’affermazione della credenza nella legalità.

    In merito a questi temi occorre far scaturire un grande dibattito intellettuale, un dibattito che sia la base per una vera e propria gobettiana rivoluzione liberale. Non nelle parole, ma nei fatti.

    2 maggio 2005

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    Tra New York e l’Italia dei patti di sindacato

    William Donaldson lascia la Securities and Exchange Commission di New York dopo aver svolto un lavoro eccezionale. Ha di fatto dato un potentissimo contributo alla ricostruzione della fiducia degli investitori dopo gli scandali enron e a quelli altrettanto gravi che hanno coinvolto intere coorti manageriali e gruppi dirigenti che parevano invincibili. È Donaldson che ha consentito l’applicazione della Sarbanes-Oxley Act, la legge che impone alle imprese di dimostrare con procedure documentali dalla stringente complessità di aver messo in atto tutti i meccanismi necessari per impedire truffe, raggiri, falsificazioni contabili. E questo pur tra mille polemiche per gli altissimi costi che le imprese debbono e dovranno sostenere per l’applicazione di quelle regole tanto insidiose quanto precise e stringenti, Donaldson se ne va forse proprio perché ha stretto troppo i legacci di una corda statalista che mal sopportano le imprese nord americane e meno che mai quelle straniere che si vogliono accreditare, oppure continuare ad accreditarsi, su quel mercato. E, inoltre, aveva colpito seriamente gli hedge fund, imponendo regole quanto mai circostanziate per garantire la tracciabilità contabile e la trasparenza di questi strumenti finanziari.

    Christopher Cox, che si appresta a succedergli se passerà l’esame del Congresso, viene da tutt’altra filiera professionale. Non è un uomo di finanza, ma di government e di intelligence. Si è recentemente occupato della homeland security come presidente della Commissione della Camera bassa: un’alta responsabilità che non ha nulla a che vedere con la finanza. Almeno apparentemente.

    Gli usa, mi chiedo leggendo queste notizie e riflettendo sulle vicende di casa nostra, iniziano ad assomigliare troppo all’Europa (in cui non comprendo naturalmente il Regno Unito, potenza transatlantica e non europea)? Ossia, i mercati vengono via via sempre più a dipendere dalle malefatte di coloro che dovrebbero essere i regolati, i quali, invece, catturano i regolatori, ossia coloro che dovrebbero fissare le regole e impedire il malaffare? E la fiducia nella capacità di autoregolazione del mercato e delle imprese che lo costituiscono, viene forse meno, per essere sostituita da sempre più stringenti provvedimenti statualistici che di fatto impongono dall’alto regole che dovrebbero nascere, invece, dal basso? La nomina di Cox va in questo senso, anche professionalmente, con una forte accentuazione dell’affiliazione partitica, per giunta, con una vicinanza alla politica che non si era mai manifestata prima in modo così spiccato. C’è da sperare che il processo non continui. Sarebbe fatale per gli usa. Essi non riescono più a esercitare una moral suasion sulla base delle buone regole, della bassa pervasività della politica partitica e della limitata presenza dello Stato? Molti sostengono che tutto ciò è già avvenuto – io sono assai più prudente – ed è stato necessario dinanzi al possibile venir meno della fiducia degli investitori. E questo, in un’economia che è un sistema di integrazione di immense classe medie fondato sul mercato dei diritti di proprietà, sarebbe stato fatale. Tutti investono nella borsa: le famiglie s’indebitano per investire in borsa e pagare le rette ai figlioli che frequentano il college, secondo una norma che prima che economica è culturale e che non può essere messa in discussione pena la distruzione dell’intero ordine sociale, della stessa costituzione materiale degli usa.

    Certo che siamo ancora lontani mille miglia, quale che siano le cadute di autoregolazione dei sistemi di controllo e di trasparenza del mercato nord americano, dalla situazione europea e italiana in particolare. Ma ciò nonostante è con questa prospettiva internazionale, globale, che occorre guardare, per esempio, in casa nostra. Pensiamo alla vicenda penosa dei cosiddetti patti di sindacato di cui tanto si discute sotto i nostri occhi. Ora si parla addirittura di blindare i patti di sindacato – ossia gli ordinamenti giuridici di fatto che taluni proprietari di azioni stipulano per impedire che si vendano le azioni liberamente, in forma individuale, senza aver prima l’assenso dei sodali con cui si stringe il patto, ponendo in tal modo in pericolo il controllo solidale che i soci esercitano sulla società di cui posseggono le azioni. Certo qui non sono in gioco le sorti dell’integrazione, dell’inclusione sociale di immense classi medie. Per carità, non scherziamo. Qui si discute di piccoli numeri, di un pugno di persone e di fortune che controllano, oltre alle loro imprese, preziose istituzioni, che pure sono quotate in borsa e che dovrebbero essere difese solo dalle regole di mercato medesime. E no! Tutto ciò presupporrebbe trasparenza da ogni lato, sia da parte di coloro che vogliono difendersi, sia da parte di coloro che vogliono attaccare in quella partita a scacchi coperti che è lo spazio borsistico italiano (non oso chiamarlo mercato). E tutto ciò presupporrebbe comportamenti lineari e azioni limpide ed efficaci delle istituzioni della regolazione. E, ancora, presupporrebbe l’astenersi da parte dei politici dall’alimentare manovre oscure, su cui ogni giorno che passa i dubbi si affollano e fan parlare di pesanti interventi, anche sotto le spoglie di istituti finanziari stranieri che agiscono in Italia con alcuni dirigenti – una minoranza, ma una minoranza pericolosa – che bene conoscono le regole dell’affiliazione partitica.

    Invece in Italia accade tutto il contrario. Torniamo, per inquadrare bene il problema, ai patti di sindacato. La stragrande maggioranza delle società quotate dispone, infatti, di patti di sindacato, con il blocco di circa un terzo delle azioni presenti sul mercato, un mercato già tanto sottile da essere preda di un pugno di società. Le opa che si vanno lanciando in Italia, si perdoni il linguaggio banalizzante, sono la prova del fuoco di quanto eversivo delle regole di mercato sia questo strumento. Nel 1998 pensammo che consentire il diritto di recesso in caso di opa potesse essere un incentivo per la mobilità e la contendibilità dei capitali, aprendo le porte a una crescita della fiducia nel mercato allorché si parla di proprietà. Nulla di tutto questo sta accadendo. Tutti si affrettano a costruire nuove cattedrali di cavilli giuridici in cima a quelli già esistenti (dove è finito il diritto? In mano ai padroni dei dottori del tempio?). E lo fanno per impedirlo, quel diritto di recesso, o per renderlo più difficile e ostico a chi volesse esercitarlo. E questo è un grande sbaglio. In definitiva, il modo più efficiente, anche per allocare la proprietà, è quello del mercato e non della sua negazione. Chi pensa che elevare barriere artificiali serva per impedire l’emergere delle reali forze sociali che si stanno scatenando in economia in Italia è perduto per sempre.

    E con lui il Paese, l’Italia intera, che sta per essere sommersa da forze oscure della rendita parassitaria e oligopolistica. Si dice che così facendo, con quei cavilli, si impedisce il male. E il male è senza dubbio... peggiore del bene. Ma questi sono metodi da intelligence, appunto, da uomini à la Cox (che poi si rivelerà assai migliore di quel che appare perché l’istituzione lo educherà e lo cambierà, siamone certi...) e sono metodi che rivelano un arretramento continuo dinanzi ai pericoli di stabilità che corre il nostro sistema economico e sociale. Ma l’unico modo per difendere la stabilità è accettare le sfide, porre mano alle risorse quando servono, essere galantuomini ai quali basta una stretta di mano e il rispetto della parola data.

    Tra il Sarbanes-Oxley Act e il non fidarsi dei propri soci c’è un’aurea via di mezzo: le vecchie regole dei mercati autoregolati della City e di Wall Street, dove un uomo era un uomo se non tradiva la parola data e non ricorreva al timore della pena, dell’uso della legge e quindi, via via, non faceva che dar sempre più peso all’invadenza dello Stato e dei suoi corifei, giuridici o no. Triste il Paese che invece della fiducia ha bisogno della costrizione, quale che essa sia.

    5 giugno 2005

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    La Fiat può farcela

    I colossi europei, nord americani e giapponesi, fabbricano l’80% della produzione mondiale di automobili e di autoveicoli in genere e sono i soggetti attivi e operanti, con alterne fortune, di straordinarie ristrutturazioni. La tendenza dominante è quella di effettuare colossali investimenti e di dirigere le proprie risorse manageriali e strutturali verso due aeree del pianeta. Da un lato i mercati tradizionali e tendenzialmente saturi, che sono volta a volta rianimati da trasformazioni di prodotto e di processo incessanti, dirette a mutare fondamentalmente l’uso dell’auto, intesa sempre più, dai consumatori e quindi dalle funzioni di marketing delle imprese, come un bene di culto, di status, e sempre meno come una commodity, come un bene d’uso, austero nella sua efficienza, come le quattro ruote furono ai loro albori. Una trasformazione talmente decisiva che investe anche le stesse macchine movimento-terra e gli autocarri pesanti, che sfrecciano rombando sulle strade con servizi e accorgimenti elettronici e informatici un tempo imprevedibili. Dall’altra parte ci si dirige verso i nuovi mercati emergenti: quelli dell’Est, che sono tuttavia sempre in attesa di un decisivo balzo in avanti, e in primo luogo quelli dell’Asia del Sud e dell’Estremo Oriente. India e Cina si stagliano dinanzi a tutte le altre nazioni, che seguono a ruota.

    La questione fiat (per la quale si avvicinano due importanti scadenze: l’assemblea degli azionisti e la presentazione del piano industriale) va posta in questo contesto, sia spaziale, sia economico, sia di strategie di processo e di prodotto, ricercando nel patrimonio della sua storia industriale i giacimenti tecnologici essenziali per una nuova crescita e una fuoriuscita dal declino. Far questo è possibile per la fiat? Io credo che ancora lo sia. Dobbiamo abbandonare le polemiche del passato, i giudizi severi su ciò che è accaduto e concentrarci su ciò che è possibile e necessario fare oggi per il domani. Cambiare è possibile ed è possibile invertire la rotta. Innanzitutto sul piano della governance. Le recenti nuove nomine nel consiglio di amministrazione presieduto da Luca Cordero di Montezemolo sono un segnale positivo per l’apertura verso nuovi confini e competenze ch’esse rendono manifesta. Questo è tanto più vero se pensiamo al fatto che la fiat non può assolutamente uscire da sola dalla crisi dell’auto. Non può rinunciare ad avere un partner idoneo al raggiungimento dell’obiettivo di coniugare il ritorno alla redditività e la presenza nei segmenti decisivi dei mercati mondiali. La ricerca di tale partner deve essere l’imperativo categorico del top manager e degli stessi azionisti di riferimento e quindi non solo della famiglia Agnelli. È un processo lungo, che va gestito con razionalità e con pazienza e senza cedere, come si è fatto in passato, assets tecnologici importanti come il common rail, vanto dei tecnici torinesi. Simili errori manageriali non possono più esser permessi, pena un declino senza ritorno.

    E qui veniamo al problema dei problemi: fiat Auto. Occorre vigilare affinché questa parte malata dell’impresa non contagi con le sue perdite tutto il sistema, che invece produce redditività e grandi competenze. Sarà inevitabile, quindi, un periodo di transizione, in cui va salvaguardata l’autonomia e la capacità di generare cassa dei gioielli della corona della produzione autoveicolare: iveco e cnh. Esse sono ottime aziende che esprimono un potenziale di creazione di valore ancora straordinario e per il quale la fiat è conosciuta e stimata in tutto il mondo. Una scissione è, quindi, inevitabile per salvare le parti sane e conservare un patrimonio che può continuare a progredire con le sue forze, a differenza dell’integrazione sempre più ineludibile, invece, sul fronte dell’auto. E su questo fronte, nel contempo, occorre comprendere che la malattia non è possibile guarirla solo con la riduzione dei costi: c’è bisogno di nuovi e massicci e ben calibrati investimenti. Questa operazione non è solo diretta a ridurre il debito, ma anche ad attrarre quei nuovi capitali che possono fornire i mezzi necessari per far uscire l’automobile dalla crisi e salvare il salvabile. Nuovi capitali che non è possibile attrarre senza rendere evidente questo cambiamento strategico decisivo. Anche la conversione del debito bancario in capitale azionario va vista in questa luce e in questa prospettiva di risanamento. Ma per far questo debbono unirsi, alle competenze finanziarie, competenze nel core business, di cui vi è drammatica e urgente necessità. In settimana l’assemblea degli azionisti, entro il mese il piano industriale. Per l’auto serve un partner. Per i gioielli creatori di valore, iveco e cnh, serve invece autonomia.

    20 giugno 2005

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    Ma il problema è la governance

    Come si governano le società miste, la cui maggioranza è in mano ai governi municipali e una parte minoritaria del capitale è esposta ai benefici venti del mercato? Innanzitutto c’è un problema di controlli interni, per impedire illeciti e sprechi, furti e sottrazioni di beni che possono indurre al malaffare e far lievitare i prezzi. Occorre cioè applicare una buona accountability, ossia l’autorevolezza dell’internal audit. In secondo luogo occorre dotare le società di comitati di controllo interno composti da amministratori indipendenti che verifichino il presidio delle aree di rischio. Ma questo richiama al problema della composizione dei cda. Dovrebbe valere sempre il principio basilare del Codice civile riferito agli amministratori, per il quale essi, una volta nominati, non rispondono a chi li ha indicati ma a tutti gli azionisti. La proprietà comunale non deve trattare queste imprese come appendici del bilancio di esercizio dell’ente locale, quanto, invece, come società per azioni in tutta la loro interezza, siano o no quotate. E se esse lo sono, ancor più il fine dell’impresa deve sempre prevalere anche sulle esigenze immediate del Comune: ad esempio nelle politiche dei dividendi, che non debbono aver di mira il ripianare i deficit comunali o consentire il perseguimento di fini estranei alle finalità d’impresa.

    Se la società non è quotata, così facendo, se ne mina l’autonomia progettuale; e se invece è quotata si danneggiano gli azionisti di minoranza. Il fatto che queste società forniscano beni pubblici non può indurci a non considerarle imprese da difendere nella loro integrità e autonomia: per fine hanno il miglioramento della qualità della vita e il profitto è, sì, solo un elemento regolatore, ma va rispettato integralmente. Naturalmente questo avvertimento è tanto più importante quando si passa, ahimè, da un governo economico municipale a un governo economico dei partiti municipali, com’è quasi sempre accaduto in Italia, in un processo di eterogenesi dei fini simile a quello che colpì le partecipazioni statali quando si trasformò lo Stato amministrativo in Stato dei partiti.

    La nomina degli amministratori oggi è ancor più cruciale. Dovrebbe divenire consuetudine la nomina di amministratori pubblici e privati il cui curriculum sia discusso da un organismo tecnico di nomina bipartisan che sottoponga le nomine a una tale disamina da non lasciar dubbi sulle competenze. Questo dovrebbe valere sia se si è quotati, sia se non lo si è. E ciò ancor più se si pensa, in caso di quotazione, al fatto che molto spesso i nominati dagli azionisti privati sono espressione di parti correlate, ossia in concorrenza diretta con l’impresa, oppure che pensano di trarre dalla partecipazione ai consigli vantaggi non pertinenti. La buona governance del controllo interno deve esercitarsi in questi casi rendendo trasparenti i conflitti di interesse e vietando alle parti correlate operazioni che possono porle in posizioni dominante. La governance che deve applicarsi, insomma, deve esercitarsi attraverso l’assoluta trasparenza societaria. I manager non dovrebbero essere fedeli a un padrone tra i molti, ma essere fedeli all’impresa. Ma per far questo occorrerebbe che iniziasse a esistere in Italia, come negli usa, in Germania e in Gran Bretagna, un mercato dei manager anche in questo settore. Il percorso è difficile: la buona governance non ha ancora il ruolo che dovrebbe avere nella competizione, non solo in economia, ma anche tra le classi politiche. Tuttavia è indispensabile a sviluppare il mercato, a beneficio di tutti.

    7 novembre 2005

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    Solitudine di Blair

    Un fantasma si aggira per l’Europa. Ma non è il fantasma del manifesto dei comunisti di Marx ed Engels. È un particolare e stranissimo fantasma, un essere che doveva prender forma e colore e che invece non è nato. Di lì il suo vagare. E di lui non si accorge nessuno. È quello che colpisce di più. Eppure l’inizio del semestre comunitario britannico era stato folgorante. Blair aveva pronunciato un grande discorso al Parlamento europeo e aveva acceso entusiasmi e speranze. Del resto il semestre di Blair era stato annunciato con grande clamore e aveva riscaldato i cuori di tutti i riformisti europei e internazionali. Non se ne è fatto nulla. Di sostanziale, intendo, e di duraturo e irreversibile, come molti auspicavano, in primis e in tutta modestia chi scrive.

    La battaglia più grande era quella di porre in sintonia l’Europa e la sua politica agricola con la negoziazione del commercio mondiale inserendo la questione della riforma di quella politica protezionistica in un contesto multilaterale e simmetrico, liberando energie a livello mondiale, consentendo la libera circolazione delle merci agroalimentari su scala planetaria e finendo in tal modo di penalizzare in modo sostanziale la maggioranza della popolazione mondiale. Un pugno di ricchi e satolli contadini europei costringono alle privazioni un’immensa moltitudine di poveri contadini dei Paesi in via di sviluppo. La Francia è stato il macigno contro il quale le giuste idee di riforma anglosassoni si sono infrante: essa, con gli usa, è l’unica grande potenza economica mondiale a essere insieme grande Paese esportatore industriale e grande Paese agricolo con un florido mercato nazionale e comunitario. Ha resistito con violenza a ogni spiraglio di apertura che provenisse dal riformismo mondializzante e cosmopolita anglosassone. Del resto, se c’è un filo rosso che va dal no alla Costituzione europea alle periferie in fiamme, in Francia, è appunto il nazionalismo, sempre più spiccato e virulento.

    Vi era inoltre la grande partita della liberalizzazione dei servizi. Essa si è giocata in Polonia, da dove era iniziata, con la provocatoria battuta sull’idraulico polacco. Partita sacrosanta, se si evita di provocare una concorrenza tra lavoratori dipendenti e autonomi dannosa per tutti. Ma partita sacrosanta se si collega con la riforma delle professioni liberali e con la fine della loro tutela corporativa. Ebbene, la vittoria in Polonia dei gemelli Kaczyński, neopopulisti conservatori profondamente euroscettici – uno nominato presidente della Repubblica, l’altro principale rappresentante del partito Ordine e Giustizia che non ricopre formalmente la carica di primo ministro solo per una questione di buon gusto istituzionale – ha fatto fallire ogni ipotesi di liberalizzazione e ha potentemente sostenuto la Francia in guisa antiriformatrice sul terreno della stessa politica agricola. Ecco la prima conseguenza negativa dell’allargamento.

    Si aggiunga a tutto ciò che la vittoria di strettissima misura di Angela Merkel impedisce al riformismo tedesco di operare come si sarebbe potuto se la sconfitta socialdemocratica fosse stata più netta e decisa. Il voto tedesco ha paralizzato Berlino. Solo una decisa vittoria della Merkel avrebbe potuto, con una forza autonoma, contrastare la Francia. E la terza conseguenza gravissima, che da quanto abbiamo detto deriva, è stata l’impossibilità di riformare i pesi e i contrappesi del bilancio europeo destinando risorse nuove alla politica per l’innovazione e la ricerca, di cui tanto si parla ma a cui si tarpano le ali quando si tratta di scegliere tra innovazione e progresso. Nel mentre Blair è azzoppato anche in patria, con il ridimensionamento parlamentare che è seguito al voto sulla legislazione antiterrorismo. La sinistra laburista si è come risvegliata da un lungo sonno e ha approfittato di questo appannamento internazionale del premier per colpirlo su questioni cruciali.

    Brutti tempi per il riformismo europeo. Brutti tempi per l’Europa e la sua crescita economica. Ma qui in Italia tutto ciò sembra veramente non interessare nessuno.

    5 dicembre 2005

    4 gennaio Dopo forti tensioni tra Russia e Ucraina per gli accordi economici relativi alle forniture di gas, il governo ucraino firma l’accordo con il colosso Gazprom.

    10 aprile Le elezioni politiche italiane sanciscono la vittoria dell’Unione, coalizione di centrosinistra guidata da Romano Prodi; il nuovo parlamento elegge Giorgio Napolitano presidente della Repubblica (10 maggio).

    11 aprile Dopo 43 anni di latitanza viene arrestato il boss di Cosa Nostra Bernardo Provenzano.

    20 maggio In Cina viene inaugurata la diga delle Tre gole, l’opera di ingegneria idroelettrica più grande del mondo.

    30 dicembre L’ex dittatore dell’Iraq Saddam Hussein viene giustiziato a Baghdad con impiccagione.

    Pensar male di Ben

    La nomina di Ben Bernanke a capo della Federal Reserve è un evento importante e discusso. Bernanke, ha scritto il Financial Times, dovrà essere in grado di saper dimostrare l’indipendenza della fed nonostante i presupposti teorici che guidano la sua azione e il suo pensiero teorico. Quali sono? Bernanke è un grande economista: ha studiato a fondo la Grande depressione del 1929 e ne ha ricavato la lezione che il ruolo fondamentale della banca centrale nord americana dev’essere quello di lottare contro il nemico mortale dell’economia mondiale: la deflazione, ossia il crollo dei prezzi con il conseguente disastro che ne può derivare. Di qui l’asse criticamente provocatorio dei suoi assunti teorici: è necessario operare per costruire,

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