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Morto e mangiato - storie di zombie di aa. vv.
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Morto e mangiato - storie di zombie di aa. vv.

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Morto e mangiato - Storie di zombie

Un progetto benefico a favore di A.I.S.EA Onlus e AST Onlus a cura di Chiara Poli e Paolo Franchini

Lo sfacelo dell’economia mondiale costringe gli esseri umani a tornare a pensare all’essenziale. Ovvero: cibo, un riparo per la propria famiglia e ciò che serve per tenerla al sicuro. Il segreto del successo degli zombie è tutto qui. Ci fanno affrontare la paura più grande, ci costringono a riflettere sull’unico appuntamento al quale nessuno di noi, prima o poi, potrà mancare e ci spingono a chiederci: come vogliamo viverlo il tempo che abbiamo a disposizione prima di quel momento? La vita è preziosa. Vivere intensamente, dando valore a ogni singolo giorno, è quanto di meglio possiamo fare. E quanto di più difficile.

Attraverso cento e più racconti brevi, altrettanti autori ci restituiscono il loro sguardo sul tema “morto e mangiato”. Con ironia, provocazioni, riflessioni sul senso di una vita che va vissuta fino in fondo. Giorno dopo giorno.
LanguageItaliano
PublisherChiara Poli
Release dateDec 11, 2013
ISBN9788868851118
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    Morto e mangiato - storie di zombie di aa. vv. - Chiara Poli

    www.chiarapoli.it

    1. Due dita di vino

    Gustave adora apparecchiare la tavola, anche con pochi elementi a disposizione. Quattro foglie di banano appoggiate sulle rocce, posate in legno incise, decorazioni con fiori di ibisco e bambù.

    François è un maestro in cucina, rinomato chef del ristorante Jules Verne, al secondo livello della Tour Eiffel. La sua specialità è l’arrosto mantecato con salsa di arance, capperi e pepe.

    La cena di oggi è speciale, perché è l’ultima.

    «Ho preparato anche un'insalatina di nervetti come antipasto e un po’ di tartare, giusto un avanzo», dice François all’amico Gustave.

    «Apro subito la bottiglia di Vin Jaune di Arbois: è l’occasione giusta». Gustave allunga la mano nell’acqua fresca della sorgente ed estrae la bottiglia conservata con cura.

    «Che dire… A noi, alla fine del viaggio», brinda Gustave. «A noi e alle nostre deliziose mogli», chiosa François. I due bicchieri tintinnano.

    Gustave è un chirurgo di fama mondiale, un luminare del bisturi che si è concesso una vacanza in Birmania con la compagna Camille. In viaggio ha conosciuto François e sua moglie Mélanie e assieme hanno noleggiato un Piper per un volo panoramico a nord del lago Inle.

    «Adesso tocca a uno di noi due, ma che importanza ha?» chiede Gustave assaggiando la tartare. «Se non fosse stato per te, per le tue strabilianti capacità culinarie, saremmo già diventati vegetariani, peggio che morti».

    François si compiace, mentre addenta una fetta di arrosto: «Bravo a te, che sai usare il bisturi come un fioretto e ricami filetti, costine e magatello dove non avrei nemmeno immaginato». Sorridono.

    «Sei un uomo fortunato, Mélanie è eccezionale», decreta Gustave pulendosi la bocca con una foglia.

    «Già... Un brindisi alla mia Mélanie, che ci ha tenuto compagnia in questi ultimi giorni. Anche alla squisita Camille, amica generosa e compagna di viaggio. E tu, saprai essere così buono? E io?».

    François versa due dita di vino nei calici e guarda il sole al tramonto. Sullo sfondo la carcassa del Piper con accanto i corpi sventrati di Mélanie e Camille. I due uomini si alzano e incrociano i bisturi. Ha inizio l’ultima battaglia.

    Stefano Albè

    2. L’ottuagenario

    Il medico legale stabilì che Gianni era morto di infarto. L’età e l’afa asfissiante di quei giorni gli erano stati letali. Gianni sarebbe entrato nelle statistiche che, durante ogni estate, i giornalisti snocciolano nei notiziari quando raccomandano ad anziani e bambini di non uscire nelle ore più calde, di vestirsi leggero, di mangiare frutta e verdura di stagione...

    Il corpo di Gianni poggiava nudo sul tavolo dell’obitorio. Era gonfio e violaceo. Il ventre rientrava, deforme, e le vene rigavano la pelle come fanno i fiumi sulle carte geografiche.

    Il patologo, in silenzio, compilava i documenti in un angolo della stanza. Accanto a lui, l’infermiera. La donna era impegnata a sistemare il materiale impiegato per l’autopsia. I ripiani degli scaffali occupavano una parete intera.

    «Anna, scusa... Controlla che la porta in fondo al corridoio sia chiusa, per cortesia. Sento un sibilo davvero fastidioso.»

    «Certo dottore, subito.»

    Anna uscì. I passi della donna echeggiavano secchi in quell’ala dell’ospedale di solito estranea al rumore. La porta, effettivamente, era aperta e Anna la chiuse senza esitare.

    Fu appena dopo quel suo gesto che percepì anche lei uno strano sibilo. Si voltò di scatto per osservare la corsia appena percorsa. Le pareti, illuminate dai tubi al neon, riflettevano uno sterile candore.

    L’urlo del medico, improvviso, la disorientò per un attimo. Anna corse ciabattando verso la stanza, senza quasi respirare, mentre il sibilo si faceva più forte sino a tramutarsi in stridio. Sentì un tonfo e altre grida strazianti, infine un trambusto indecifrabile.

    Quando giunse all’ingresso, Gianni era in piedi, accanto al lettino d'acciaio inox, gli occhi opachi spalancati davanti a sé, nel vuoto. Dalle labbra livide dell'uomo colava una bava giallognola, vischiosa quanto gli schizzi di sangue che imbrattavano il muro piastrellato.

    Silvia Albrizio

    3. Dranika

    Si fermò ancora un momento davanti allo specchio. Le sembrò che il look fosse quello giusto per affrontare quella serata difficile. Guardò l’orologio: le undici. Ora di muoversi. Guidò con prudenza e, in poco più di mezz’ora, aveva già imboccato la stradina che conduceva al piccolo cimitero. Il giorno era quello annunciato: il primo plenilunio dopo l’equinozio di autunno. A mezzanotte. Sentiva freddo, ma non aveva paura, solo l’attanagliava un’invincibile inquietudine. Si udiva solo lo stridio dei pipistrelli che saettavano sullo sfondo del disco lunare, tra i cupi cipressi. Pochi attimi e percepì i primi segni della mutazione. La luna parve velarsi di nubi rossastre e un cupo sospiro si levò dalla terra, come un gemito. Ombre sempre più corporee e riconoscibili iniziarono a sorgere dai sepolcri. Infine, nell’oscurità, lo scorse: «Yuri!» esclamò, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime.

    «Dranika!», rispose l’ombra. «Finalmente sei qui!»

    «Yuri, amore… Quanto tempo abbiamo?»

    «L’Arconte delle Tenebre mi ha concesso tremila battiti del tuo cuore.»

    «Con sessanta al minuto, fan cinquanta minuti da passare assieme...»

    «Sei precisina come un ingegnere.»

    «Meglio precisi che distratti, per poi andare a sbattere con la moto...»

    «Mi stai dando dello stupido? Cinquanta minuti con me ti sembrano troppi? Hai di meglio da fare?»

    «Ricorderai, forse, che le ragazze, al sabato sera, hanno di meglio da fare che passare la notte in un cimitero.»

    «E cosa, per la precisione?»

    «Per la precisione, mi sono già stufata di questa discussione idiota. Me ne vado in discoteca.»

    Lui allungò le sue mani ossute e aprì la zip del giubbotto della ragazza. Vide che portava una maglietta scollata, senza reggiseno.

    «Sei sempre la solita zoccola!»

    «E tu il solito stronzo! Beh, ciao. E buon eterno riposo!»

    In discoteca, la giovane incontrò la sua amica del cuore.

    «Dranika, che faccia... Sembri incazzata nera!»

    «Ma no, niente di serio… Ho solo dovuto imparare una lezione.»

    «Sarebbe?»

    «Che gli amori morti è meglio lasciarli sepolti.»

    Carlo Alfieri

    4. Lo zombie raffreddato

    In vita era stato il tenore più famoso di tutti i tempi, non aveva eguali.

    La sua potente voce era un dono per cui aveva sempre ringraziato e, allo stesso modo, aveva sempre maledetto la vita che lo condannò a un raffreddore perenne.

    Il malanno, combinato con le sue abilità da tenore, gli rendeva la vita un vero inferno: doveva sempre stare attento quando starnutiva, per non sbattere la sua testa. A volte si era anche sbilanciato, addirittura, cadendo rovinosamente.

    Nonostante questo stato di perenne malattia, non abbandonò mai la passione per i sigari, cosa che peggiorava solo la sua salute e rendeva la sua vita ancora più complicata.

    Solo il momento della morte fu quello in cui trovò la tanto agognata pace. Il raffreddore, finalmente, l'aveva abbandonato. Tutto questo faceva parte del passato, però, di quando era vivo. Delle ore prima che lo riportassero in vita.

    Si mise a sedere nella tomba, guardandosi intorno. Gli tornò alla mente lo stregone sulla Quinta strada, il tizio che gli aveva promesso una cura il suo malanno. L’incantesimo, fino a quel momento, non aveva avuto effetto, ma adesso si sentiva diverso. Immortale, forte, insaziabile.

    Felice del suo nuovo status di non-morto, si rialzò dal terreno e si pulì il panciotto dal fango, mentre qualche pezzo di carne marcia cadeva dal suo viso verdastro.

    «Guarda come mi hanno combinato: sembro un pinguino andato a male... Etciù! Maledetto stregone, mi hai ingannato. Etciù! Sarai il primo che divorerò! Etciù!», strillò nel perdere l'equilibrio e sbattere la testa contro la sua lapide di marmo nero. Su cui morì. Di nuovo.

    Domenico Attianese

    5. Chicken zombie

    Dalla cucina di Guillome Roger si sprigionava il profumo del miglior coq-au-vin che fosse mai stato preparato. Con il polletto della Bresse che lui stesso aveva cresciuto, le verdure dell’orto e il vino di un’annata speciale, l’allevatore in pensione si apprestava a dar vita a un trionfo di piacere per il palato e per lo spirito. Juliette sarebbe arrivata a breve e sarebbe stata inebriata dai profumi della sua terra.

    Poco distante, nell’azienda di allevamento intensivo di volatili Liverat, si stava per consumare una terribile tragedia. Il giovane Bertrand aveva appena finito di nutrire i suoi seimila polli, stipati in minuscole gabbie, anchilosati nel corpo e costretti ad accovacciarsi gli uni sulle feci degli altri. Riposto il sacco di mangime, il ragazzo uscì nel cortile.

    L’ultima sera del giovane Liverat era ormai calata.

    Nel bosco poco distante, la terra lanciava insolite grida.

    Qualche settimana prima, l’allevamento di Bertrand era stato colpito da un’infezione virale, causata dall’incuria che lo stesso riservava ai suoi animali e che aveva, in poche ore, provocato la morte di centinaia di volatili. Seicento polli, che l’allevatore aveva seppellito di sua mano per occultare il corpo pennuto del reato, si preparavano al riscatto. Dalla terra umida della notte, un’ala putrefatta si levò in segno di vendetta e, in men che non si dica, seicento corpi di pollo dilaniati dai vermi iniziarono a barcollare verso la casa di Liverat. Chichì, la prima gallina morta, con un occhio penzolante fuori dall’orbita, iniziò a infierire sul corpo addormentato di Bertrand che, trivellato di beccate, spirò poco dopo le dieci.

    Dalla finestra di casa Roger intanto, si brindava al succulento polletto allevato con amorevoli cure che Guillome e la figlia avevano appena gustato.

    Federica

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