Palla di fucile: romanzo
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Palla di fucile - Michele Zuccante
Palla di fucile
romanzo
Michele Zuccante
Meligrana Editore
Copyright Meligrana Editore, 2014
Copyright Michele Zuccante, 2014
Tutti i diritti riservati
ISBN: 9788868151072
Copertina a cura di Marco Crestani
Meligrana Editore
Via della Vittoria, 14 - 89861, Tropea (VV)
Tel. (+ 39) 0963 600007 - (+ 39) 338 6157041
www.meligranaeditore.com
info@meligranaeditore.com
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INDICE
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Licenza d’uso
Michele Zuccante
Copertina
Palla di fucile
Prima parte
Seconda parte
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Michele Zuccante
Michele Zuccante è nato a Schio, in provincia di Vicenza, il 7 gennaio del 1988. Nel 2007 consegue la maturità scientifica. Grande appassionato di sport, pratica per molti anni il pugilato a livello agonistico. Attualmente frequenta la facoltà di Lettere e Filosofia presso l’Università di Trento.
Nel 2011 ha pubblicato Acuti di un tenore stonato (poesie e racconti), Rupe Mutevole Edizioni. Per Meligrana ha già pubblicato Il piede di Dio non lascia impronte sulla sabbia (ebook - 2012).
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michele.zuccante@yahoo.it
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Prima parte
I
Eravamo ancora in autunno, ma già faceva freddo. Quel mattino, poco dopo l’alba, fui svegliato da un soffio d’aria fresca che entrava da uno degli spifferi della mia finestra, ghiacciandomi il naso. Mi girai e rigirai nel letto, crogiolandomi nel pesante e umido calore della notte che persisteva sotto le coperte. Anche per quel giorno mi aspettavano ore e ore di duro lavoro, perciò non avevo molta voglia di alzarmi. Con l’obiettivo della mia sopravvivenza, durante quegli innumerevoli attimi di fatica, avrei messo in campo tutto lo spirito di sopportazione che avevo.
Alla fine mi alzai, dopo vari tentennamenti. Mi stirai per bene la schiena e le braccia. Immaginavo i miei muscoli che si allungavano tutto d’ un colpo, completamente traumatizzati da quello spiacevole risveglio. Poi, vuotata l’acqua della brocca dentro al catino sopra al comodino di fianco al mio letto, mi risciacquai il viso. Tutto il mio essere fu pervaso da una bruttissima sensazione: l’apocalisse in liquefazione, il male assoluto in formato trasparente, la paura di non arrivare a sera. Quell’acqua era freddissima. Lame d’acqua che, dalla pelle della mia faccia, si insinuavano dentro di me fino a raggiungere la porta della mia anima. Sbuffai. Riempii di nuovo d’acqua le mani messe a coppa, e mi accinsi a ributtarmi di nuovo in faccia quel dannato liquido gelato. Questa volta quella sensazione non arrivò. O meglio, mi giunse più attenuata, più sbiadita. Era come se la mia pelle, dopo la violenza che le avevo fatto subire, si fosse temprata, rinforzata sviluppando una coriacea barriera resistente al freddo e al dolore. Ci si abituava a tutto.
Poi mi vestii. Sopra ai mutandoni indossai le spesse brache di fustagno, la camicia scolorita e, infine, il maglione di lana pesante. Quello pareva fatto di bave di ferro. Impossibile metterlo a contatto diretto con la pelle; fortuna che possedevo una camicia.
Scesi le scale piano per non svegliare quelli che ancora dormivano. Misuravo i miei passi. Quei vecchi scalini in legno cigolavano e scricchiolavano al mio passaggio, quasi come si lamentassero del mio peso, di quella abominevole e sublime arroganza che mi portava a credere che un tempo fosse esistito un albero nato solo per essere abbattuto, tagliato e trasformato in assi destinate a sorreggermi.
Entrai in cucina. Maddalene stava accendendo il fuoco nella stufa.
«Riesci ad alzarti sempre prima di me» le dissi.
«Sei tu che ti svegli sempre tardi» rispose lei senza voltarsi e senza smettere di buttare legna sul fuoco, che intanto si era avviato.
Io tacqui e rimasi fermo, lì in piedi in mezzo alla stanza. Lei, chiuso lo sportello della stufa con un movimento controllato ma preciso e veloce, mi guardò con quei suoi occhi color nocciola un po’ sbiaditi. Viveva qui da quando era solo una bambina, con i suoi genitori che erano stati anch’essi dei lavoranti lì alla tenuta. Sua madre in cucina e suo padre nei campi. Purtroppo, qualche tempo fa, poco prima che arrivassi io, erano morti entrambi. Non so bene in quale circostanza. Da allora Maddalene aveva preso il posto della madre.
«Sbrigati ad andare a strigliare i cavalli, – proruppe lei con fare secco - che poi arrivi in ritardo per la colazione. Sai che non ci metto molto a prepararla.»
Aveva solo sedici anni ma già la sua autorevolezza sfiorava quella di un’antica matrona.
Uscii in cortile. Fui investito da una folata della stessa aria fredda che mi aveva svegliato pochi minuti prima. In quello spazio aperto, però, la sua forza era aumentata esponenzialmente e io rabbrividii dentro ai miei vestiti consunti. Mi sentivo come un germoglio di grano, piccolo e solo in mezzo a un ettaro di terra incolta e bruna, impegnato in una lotta disperata contro forze primordiali e spietate che cercavano di scoperchiare le sue radici ancor tenere e bianche e di farlo volare in uno sconfinato aere decorato da tenebre. Avevo venticinque anni e, per un attimo, ebbi voglia di singhiozzare.
Mi diressi verso la stalla. I pesanti scarponi calzati dai miei piedi calpestavano il fino ghiaino del cortile.
La stalla era il tempio dell’ordine e dell’efficienza. Un vecchio e solido edificio di pietra, con il poderoso sistema di travi in legno del soffitto in bella vista. Le travi erano tutte annerite. Qualche tempo fa, durante una notte di una torrida estate, era scoppiato un incendio. Ricordavo chiaramente il bagliore delle fiamme che illuminava quasi a giorno per un raggio di parecchi metri. Fortunatamente i pompieri erano arrivati in tempo e l’edificio non aveva riportato danni molto gravi. Eravamo riusciti a risistemare tutto. Il tetto era coperto di tegole, anche se un tempo doveva essere stato in paglia. Lì dentro niente era fuori posto. Le brusche, le striglie, le briglie, i morsi, tutto a portata di mano, ordinatamente disposto in modo da poter prendere ciò di cui si aveva bisogno senza perdere tempo. Non appena entrai, le mie narici vennero solleticate da un sano odore di sterco.
I cavalli se ne stavano tranquilli entro i loro spazi delimitati da assi e travi di un legno un po’ tarlato. Davanti a ognuno di loro c’erano una mangiatoia e un abbeveratoio in latta.
Afferrato il forcone, incominciai a riempire le mangiatoie di fieno, prendendolo dal mucchio che, ovviamente, si trovava a pochi passi dai box. Una volta, una sera dopo una festa in paese, ci avevo anche disteso una ragazza sopra a quel soffice mucchio.
«Allora, come va oggi, ragazzi?» dissi disponendo per bene il fieno con il forcone.
Non si mossero, non nitrirono nemmeno. Erano del tutto indifferenti al suono della mia voce. Ogni tanto qualcuno di loro agitava un po’ la coda.
«Dormito bene stanotte?»
Un cavallo emise un suono, una specie di sbuffo sommesso. Io lo presi come un sì e non parlai più. Mi chiedevo se la natura avesse creato quelle bestie con la consapevolezza che noi le avremmo impiegate per arare i nostri campi, trainare le nostre merci, portare a spasso le nostre signore nelle pigre domeniche d’estate.
Il padrone della tenuta possedeva otto cavalli, tutti affidati alle mie cure. Sette di questi erano tozzi e forti e mansueti animali da tiro di color marrone chiaro. Bestie votate alla fatica e all’abnegazione, addomesticate e del tutto sacrificabili su quell’altare del progresso sopra al quale il figlio dell’uomo aveva deposto le sue uniche, traballanti speranze. L’ottava era una cavalla, una bella e snella cavallina impiegata per trainare il calesse utilizzato dal padrone e dalla padrona per fare il giro del podere o recarsi in città.
Presi la striglia, entrai nel box del primo cavallo e incominciai a strigliarlo con rapidi movimenti circolari. Partii dal collo, poi mi dedicai alla schiena e infine passai i fianchi e la parte posteriore. Eliminavo il fango, lo sporco e il sudore incrostato, residui sgradevoli di quel processo di produzione che, come una veloce e folle corsa a occhi bendati, ci avrebbe portati alla salvezza o alla rovina, a seconda del caso. Com’ebbi finito con la striglia, completai la pulizia dell’animale con la brusca. E anche per fare questo eseguii un insieme metodico di movimenti regolari e controllati.
Passato al secondo cavallo, mi accorsi che aveva una zecca a una zampa, un po’ più sopra dello zoccolo pesante e grosso. La presi tra le unghie del pollice e dell’indice della mano destra e, con un movimento secco, la strappai dalla sua attività di suzione del succo vitale dell’animale dell’uomo. Poi la schiacciai e, per un istante che avrebbe potuto benissimo anche essere un’intera esistenza, rimasi estasiato a osservare il sangue che andava via via solidificandosi sulla punta delle mie dita.
Finito con brusca e striglia tornai in cucina per la colazione.
Dopo il freddo della stalla, entrare in quella stanza, scaldata dal fuoco di Maddalene, fu quasi come far ritorno al ventre materno. Il calore era accogliente, salvifico, un po’ soffocante.
Come al solito Maddalene aveva preparato una colazione abbondante. Latte caldo, caffè, pane tostato con la marmellata, burro e biscotti. Attorno alla tavola, seduti come avvoltoi in procinto di scarnificare una carcassa abbandonata nel bel mezzo dell’inferno, sedevano Antoine e Gaston. Antoine, il padrone. Molle, grasso e compiaciuto come soltanto chi non aveva un grammo di consapevolezza di quanto pesasse il proprio corpo sulla bilancia dell’universo sapeva essere. Gaston, il figlio di Antoine, il figlio del padrone. Solido e ben piantato e gongolante nella prospettiva di cibarsi dei frutti della terra e del sangue dei popoli.
Stavano già mangiando. Come mi videro, si disegnarono, sui loro volti ancora assonati, due sorrisetti sforzati, e Antoine, con un cenno della mano, mi invitò a sedermi e a fare colazione. Sedetti alla loro mensa.
«Oh, Beppe, – disse Antoine – come va oggi, ragazzo? Dormito bene?»
«Tutto bene, grazie. Dormito proprio bene» risposi.
Maddalene mi portò una tazza di caffelatte, io imburrai una fetta di pane e poi ci spalmai sopra la marmellata.
«Hai preparato i cavalli?» mi chiese Gaston. «Stamattina me ne servono giusto un paio per portare giù in città quelle zucche che abbiamo raccolto ieri. I grossisti pagano bene, adesso.»
Qualche istante prima che finisse di parlare io addentai la mia fetta di pane e marmellata e burro. Il morso avido di chi aveva fame da sempre. Non feci in tempo a rispondere.
«Tu non vai da nessuno parte» sbottò Antoine. «Oggi dobbiamo andare a caccia. Vengono due miei amici gendarmi. Ci devi essere anche tu.»
«Tu staresti tutto il giorno a tirare alle lepri. Vuoi vendere quelle zucche quando saranno marcie, forse?» ribatté Gaston.
Il padrone si scaldò un po’. «Ma allora tu non capisci proprio niente. Quella è gente con cui si deve rimanere in buoni rapporti. Sarebbe uno sgarbo nei loro confronti se mio figlio non fosse dei nostri per la caccia.»
Gaston grugnì e rimase a fissare, col suo sguardo bovino, il contenuto della tazza che aveva davanti. Non era mai stato un tipo sveglio.
In quel momento entrarono Americo e Nuvola, due braccianti che vivevano nella casa del padrone. Americo era un uomo dai radi capelli bianchi, che aveva passato da poco la cinquantina, dall’aria saggia e pacata. Suo figlio Nuvola, invece, era un ragazzetto sui diciotto, dagli occhi sempre in movimento, e con un sorrisetto, tra l’ironico e lo strafottente, perennemente stampato sulle labbra.
«Mandaci Americo, invece, a