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Andrai e tornerai
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Andrai e tornerai

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Il libro di Umberto Castagna mi è giunto sulla via di FB, attraverso un’amicizia virtuale con l’autore, che adesso non è più virtuale, non nel senso che ci siamo incontrati di persona, ma perché chi legge il libro a cui l’autore si affida – mente, anima, passato, sentimenti, travagli – non può non dirsi suo amico.
Ben presto però – alla terza riga o giù di lì - il dovere amicale ha lasciato il, passo al piacere sublime di una lettura profonda e “seduttiva”. Sul secondo aggettivo ho riflettuto a lungo, poi ho deciso di adoperarlo perché, dal mio punto di vista, nulla è più seduttivo della mente e nulla scava meglio una traccia dentro di noi. E dunque ho anch’io adottato nella lettura il passo narrativo dell’autore, uno zigzag nel tempo e nei fatti, scoprendo ad ogni svolta, ad ogni apparente retournez un aggancio che mi teneva avviluppata al racconto.
Umberto è un uomo coltissimo e ciò traspare dalla sua scrittura, mai appesantita da una passerella di saccenteria, ma fluente e convincente. In questo libro-confidenza (volutamente scarto il termine “confessione”) scritto per i suoi figli, ogni lettore si sente suo figlio e prova gratitudine per la fiducia nella comprensione dei motivi profondi che lo hanno mosso verso decisioni davvero individualmente rivoluzionarie.
Confesso che io non amo raccontare nelle recensioni le trame dei libri, ma le emozioni. Mi sembra di sottrarre al lettore qualcosa, il gusto della scoperta e della conquista della vicenda. Per Umberto dirò, molto stringatamente, che è la storia di un uomo che, quasi per espiare un lutto fortissimo, si è auto costruito una prigione tale da tarpare le ali alla propria piena realizzazione. Una prigione che lo ha portato, soltanto intorno ai quaranta anni a prendere consapevolezza di sé, col supporto di una psicoterapeuta che s’intuisce non sia stata prevaricante ma che con mano leggera lo abbia guidato verso l’evoluzione e l’accettazione di sé. Qualche sfumatura di Bernanos riecheggia nella memoria, ma, mentre nel “Diario di un curato di campagna” a prevalere è la disperazione, la solitudine, il buio, in “Andrai e tornerai”, malgrado si narri (anche) di una coercizione del voto sacerdotale (ecco, mi sono fatta scappare un indizio) c’è luce ed ispirazione.
LanguageItaliano
Release dateApr 2, 2012
ISBN9788866900054
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    Andrai e tornerai - Umberto Castagna

    Umberto Castagna, Andrai e tornerai. Quasi un romanzo.

    © Umberto Castagna

    Collana Esperienze e Testimonianze

    Tutti i diritti riservati

    www.edizioniesordienti.com

    Prima edizione Napoli, Graus Editore, 2007

    Seconda edizione EEE-book ottobre 2011

    ISBN: 9788866900054

    Il presente file può essere usato esclusivamente per finalità di carattere personale. Tutti i contenuti sono protetti dalla legge sul diritto d’autore. EEE-book declina ogni responsabilità per ogni utilizzo del file non previsto dalla legge. I diritti di riproduzione e traduzione sono riservati. Nessuna parte di questo e-book può essere utilizzata, riprodotta o diffusa con qualsiasi mezzo senza autorizzazione scritta dell’Autore.

    In copertina: Mare del ritorno, di Ezio Castagna, tecnica mista (acquerello, penne, inchiostri su carta).

    UMBERTO CASTAGNA

    Andrai e tornerai

    Quasi un romanzo

    11 settembre 2006

    Ibis et redibis

    non morieris in bello.

    Sibilla Cumana

    Il percorso

    non è mai perfettamente rettilineo.

    Ci sono avanzate e arretramenti,

    alti e bassi. Questo è il ritmo

    della vita quaggiù, il ritmo

    anche di ogni vita spirituale.

    André Louf

    Dedica o premessa, a scelta.

    La piana campana, luce pura e verde smeraldo, si allarga sotto i miei occhi, i lecci e i pini mi hanno accompagnato lungo il vialetto che porta alle rovine dei templi, l’antro della Sibilla mi aspetta ancora laggiù…

    Vi ricordate quando, insieme a mamma, vi portai in quell’antro e, attraversato il lungo corridoio scavato nel tufo e tagliato a tratti dai singolari alti lucernai che, per la luce spiovente, già traspiravano suggestioni arcane, arrivammo nella stanza dell’oracolo? Io volli allora farvi provare il brivido dell’ignoto (c’erano altri due o tre ignari visitatori lungo la galleria, e una coppia) e d’improvviso — ero vicino all’ara di Sibilla — con voce di profeta (tutti sanno com’è la voce di profeta) alzando le braccia e gli occhi e quasi vaticinando gridai come la vergine gridava a Enea: Deus! ecce deus! Il dio! ecco il dio! e mi guardaste stupefatti, e poi vi faceste quella gran risata: ma sei matto? Stupiti mi guardavano anche gli altri visitatori.

    Io invece non ero affatto imbarazzato.

    Se sapeste che sono qui, sull’Acropoli di Cuma, seduto su di un masso, scomodo anche, e che, forse perché inebriato da quest’orgia di colori, vaneggio di scrivere un racconto per voi, per te Massimo, per te Ezio, un racconto, che so? una specie di favola, buttata giù come viene dai sogni e dai desideri, ma sì, anche dal cuore e dalla memoria, vi fareste due risate: papà è andato proprio fuori di testa.

    Che bisogno c’è? direste, guardandomi meravigliati, proprio come se io, inviandovi questo inatteso messaggio, improvvisamente mi rimettessi a gridare come allora: il dio! ecco il dio!

    Che bisogno c’è?

    Il bisogno è mio, mica vostro.

    Devo alzarmi da questo masso, duro e che rifiuta il mio peso, come il mio sedere rifiuta ormai lui e le sue asperità.

    Torno sulla Via Sacra, tra i lauri e i lecci che la fiancheggiano. Torno tra i resti sparsi di basi e di colonne. Oggi sono solo. Oggi siamo io e Sibilla.

    Lontane risplendono di verde e bruno Ischia e Procida. Più vicina manda bagliori la superficie del Fusaro e intorno a me riluce quest’azzurro magico nel quale risento le voci millenarie dei devoti di Apollo che sorreggono il mio delirio nel narrare…

    …salivano a questo tempio i devoti a sacrificare ad Apollo, o a Giove, salivano, millenni fa, dal non lontano porto della magnifica Putéoli, la nostra Pozzuoli, che Lucilio chiamava Delus minor per l’inquietante vicinanza del lago misterioso, l’Averno bocca degli Inferi. Entravano negli antri abitati da Sibilla, l’antichissima veggente, e ansiosamente le chiedevano: tornerò a casa? tornerò dal mare tempestoso alle sponde libiche o egizie o dell’Ellade? tornerò dalla guerra?

    Il porto puteolano accoglieva a quei tempi navi provenienti da tutto il mondo conosciuto, e le sue banchine erano affollate di gente cosmopolita e poliglotta, uomini d’affari, commercianti, banchieri, armatori, schiavi, lenoni, contrabbandieri, imbroglioni. Molti salivano fin qui, ai famosi templi di Cuma, e interpellavano la grande maga, la vaticinatrice, colei che sapeva. E tra i fumi delle droghe che riempivano l’antro ottundendo la mente dell’ orante di turno, si levava la voce (più adatta a vaticinare della mia) della profetessa:

    Ibis et redibis non morieris in bello,

    che si perdeva spegnendosi in onde sonore o veleggiando su fragili foglie portate dal vento nella lunga cavità trapezoidale dell’accesso, e nella sua penombra.

    L’eco intanto ripeteva beffarda:

    Ibis et redibis non, morieris in bello!

    e ancora: Ibis et redibis, non morieris in bello!

    Ma le parole non avevano punteggiatura e il vaticinio ingannevole lasciava all’ingenuo interpellante il dubbio su di una ipotetica tregua della voce o sul friabile scritto, e insomma come prosaicamente diremmo noi, sulla virgola: andrà messa prima o dopo il non? Andrai e tornerai, non morirai in guerra, oppure Andrai e non tornerai? Astuta profezia.

    Io, per me, or ora, passando a ritrovare la vecchia amica Sibilla, ho udito una confortante pausa nella sua (un po’ appannata) voce. Perché con me parla. Come Enea, le ho chiesto: "che i tuoi carmi s’odan per la tua lingua, e non che in foglie sian da te scritti." E, vi giuro: la pausa l’ha fatta prima del non.

    Dunque, ho tempo ancora per parlarvi e per scrivere.

    Sbrigati, però, m’è sembrato di sentir sussurrare mentre uscivo dall’antro. Era un soffio profetico o un fastidioso spiffero proveniente dagli alti lucernari traversi?

    "Così la neve al sol si disigilla,

    così al vento nelle foglie lievi

    si perdea la sentenza di Sibilla."

    Ebbene, sì, lo faccio, parlo. Anzi, scrivo: Il dio, ecco il dio!

    Voi ragazzi non sapete come è cresciuto con voi un mio intimo riserbo nel comunicare con voi, nel confidarmi, nel raccontarvi di me e dei miei pensieri e delle mie speranze per voi e su di voi.

    Attenti, non vi sto accusando di niente, non ho nulla da rimproverarvi, sono io che — man mano che sono passati gli anni e che vi siete fatti uomini — ho acquisito per voi un rispetto che vi strappa alla mia patria potestà. Il crescere della vostra autonomia, cioè il vostro crescere come uomini liberi, padroni di voi stessi, capaci di scelte e di opinioni personali, mentre da un lato mi fa felice perché è così che deve essere e perché per questo abbiamo lavorato mamma e io, dall’altro mi blocca interiormente e mi dice che il mio tempo di docére è finito.

    Salire lassù, adesso, appoggiandomi al mio bastone e trascinando lungo la Via Sacra queste protesi che mi hanno reso parzialmente bionico, è faticoso quasi come scrivere il mio senile racconto.

    Salire lassù, presso le rovine del tempio di Giove, ed immergermi nel godimento della vista di Capo Misero fin là, dove ha inizio la gran curva del Golfo di Gaeta?

    No, ci rinuncio. Non rinuncerò a scrivere, però: credetemi è come conversare con voi. E sarà un andare e tornare continuo, un passare dai cieli puri della mia innocenza ai cieli turbinosi della consapevolezza, un incessante andare verso i giorni della memoria e un inevitabile tornare verso gli attimi fuggenti del nostro presente.

    Attenti, però, voi che leggete.

    Il racconto che segue avrà questo continuo sottinteso: sarà la favola che io racconto ai miei ragazzi, e sarà d’ora in poi, quasi un romanzo che fingerò di avere scritto per un’altra platea, una platea di lettori più vasta, ugualmente attenta, perfino curiosa, forse divertita. E, di tanto in tanto, commossa.

    Lo so, ragazzi, se vi dicessi: devo dirvi qualcosa, voi vi mettereste a sentire, con serietà, annuendo e ascoltandomi rispettosamente, mentre io acquisirei la definitiva debilitante certezza che lo state facendo, appunto, per rispetto, per affetto, forse un po’ con ironia verso questo papà incorreggibile predicatore, e che, insomma, quando la finisco!

    Quando la finisco?

    Ma io non ho ancora cominciato.

    Io devo ancora dirvi delle rondini.

    PARTE PRIMA

    RONDINI

    Rondini.

    Nelle sere di primavera imparai ad amare la loro presenza aerea. Il cielo scolorava, il crepuscolo era ancora lontano, ed apparivano.

    Avevo sette anni, abitavamo in un appartamento al quarto piano sulla collina del Vomero, la nostra casa era il mio mondo, il balcone della sala da pranzo la mia terrazza sulla vita.

    Si lanciavano in stormi immensi da destra e da sinistra, garrendo, le rondini. Partivano da chi sa dove, le vedevo arrivare in schiere apparentemente disordinate in alto nel cielo, oscurandolo parzialmente.

    Lassù componevano geometrie sempre diverse e di certo preordinate da un istinto nativo, si tuffavano verso le case (no, verso di me, capite? verso di me!) da altezze che mi apparivano enormi, riempivano la mia anima di bambino di grida gioiose, ripartivano.

    Ripartivano verso l’alto e verso sinistra, le vedevo veleggiare verso la cupola della chiesa di san Gennaro, circondarla di nuove figure, danzando, e poi lanciarsi a disegnare contro l’azzurro del cielo forme complesse e rigorose, cantando di gioia.

    Quanto mi hanno donato, quanto hanno contribuito ad impastare la mia anima di amore per la vita, di gusto per la bellezza, di ammirazione per la natura, quei voli di rondini? Sono così vivi dentro di me i loro garriti che, se lo voglio, posso, anche senza chiudere gli occhi, senza immergermi nel passato, sentirli ancora.

    Porto nella mia anima i voli di rondini che s’intrecciavano su di me e sulla mia casa settant’anni fa.

    E voi, le conoscete? No, forse no, forse non avete mai avuto l’esperienza di un volo di rondini, la città le ha cacciate, forse le ha uccise. E voi forse avete perduto una delle più umili e inebrianti conoscenze del mondo.

    I loro voli furono invece tra le prime impressioni che si stamparono dentro di me, al mio arrivo, in quel lontano maggio del 1937 quando papà portò a Napoli la nostra famiglia, e io non avevo ancora compiuto sette anni.

    Era maggio, le rondini avevano ripreso i loro voli primaverili e mi accolsero tra di loro. Mi accettarono.

    Credo che avessero i nidi tra i rami degli alberi di via Scarlatti, di via Cimarosa e — più sicuramente — della Floridiana. Erano troppe per non aver bisogno di decine di alberi e di migliaia di rami.

    Mentalmente le conto. Pensate: oltre settant’anni dopo sono in grado di rivederle. Però non posso contarle davvero, non avrei potuto farlo neppure allora, ma erano centinaia. Forse erano diversi stormi, che andavano, venivano, creavano le loro perfette geometrie celesti, nere com’erano contro il cielo, perfetto anch’esso nel suo azzurro struggente, e imprimevano nella mia anima un’indelebile immagine di bellezza.

    LA LIBRERIA DI PAPÀ

    In quella stanza, quella del balcone delle rondini, c’era un grande armadio di legno chiaro, con le ante di vetro martellato verde, che noi ragazzi chiamavamo la libreria.

    Papà l’aveva comprato per raccogliervi tutti i libri che, nella nostra famiglia modesta ma di appassionati lettori, si erano accumulati negli anni. Una delle scansie accoglieva ormai anche i nostri libri scolastici, su quella stavo per dire ad altezza d’uomo, ma lo era anche alla mia…

    I più numerosi, i più importanti, in un certo senso i più esclusivi, erano appunto i libri di papà. Che viaggiatore dello spirito era l’onesto maresciallo maggiore Giuseppe Castagna!

    Leggeva. Leggeva le grandi opere in grandi volumi che, durante anni che non so calcolare e molto prima che io nascessi, acquistava nelle edicole in fascicoli settimanali: l’Iliade e l’Odissea, il Don Chisciotte e L’Uomo che ride, La Divina Commedia e la Storia dei Grandi Navigatori e Viaggiatori… Li faceva accuratamente rilegare e noi cominciavamo a sfogliarli per vedere le figure prima ancora di avere imparato a leggere. Leggeva e raccoglieva i romanzi dell’Ottocento (così congeniali a lui, che era nato nell’’88!), Dumas e Victor Hugo, e i romanzi d’appendice. Aveva presto pensato a noi, però, e al suo immenso mondo di cultura classica e di narrativa popolare, essenziale quella e ingenua questa, si erano aggiunti L’Enciclopedia dei Ragazzi di Mondadori e il Novissimo Melzi, così: Novissimo, vetusto e scorticato ormai, invece, e prezioso e inevitabile, libro di lettura prima che vocabolario.

    Questo era il mondo delle letture di mio padre.

    Dio, com’è grande la sua presenza dentro di me!

    Eppure la sua modesta esistenza scorreva quasi silenziosamente vicino a noi.

    Non che fosse taciturno o — peggio! — scorbutico. No. Non era un chiacchierone, ma era piacevole sentirlo parlare. Raccontava volentieri episodi della Grande Guerra, la prima, la sua, quella nella quale avrebbe avuto la sua piccola parte di eroismo, di cui però non ci aveva mai parlato, e che ho scoperto oltre vent’anni dopo la sua morte, casualmente.

    Gli piaceva scherzare e ridere, ma con una specie di pudore, quietamente. E gli piaceva leggere.

    Quei libri non erano lì per caso, lui li amava, li aveva letti prima di noi, e ce li offriva silenziosamente, com’era nel suo stile. Chi sa quali sacrifici dovette imporre al suo macilento stipendio di maresciallo per comprare quell’armadio, ma fu il suo modo di offrirci la cultura, senza forse sapere che si chiamava così. Leggeva poi di tutto, e amava i romanzi.

    Quando Saro fu cresciuto, e cominciò a portare a casa i romanzi della nuova generazione che si faceva prestare dagli amici, papà non se li faceva sfuggire mai. E quella volta che Saro ne restituì uno prima che lui l’avesse finito, come ci rimase male! Sento le sue parole, il tono deluso, L’hai restituito!, era curioso di sapere come era andato a finire, ma non gli fece scenate. Solo quel rimprovero implicito. Che signore che eri, papà.

    I suoi libri avevano, nella libreria, una collocazione singolare: i grandi volumi dei classici stavano in basso, sul ripiano più capiente. Perfino io, così, potevo prendere La Divina Commedia e, presto, appena ne fui in grado, leggere, sotto il turbine di anime nude e tormentate scaturite dalla convulsa fantasia di Gustavo Doré:

    "Amor, ch’a nullo amato amar perdona,

    mi prese del costui piacer sì forte

    che, come vedi, ancor non m’abbandona…

    …Quando leggemmo il disiato riso

    esser baciato da cotanto amante

    questi, che mai da me non fia diviso,

    la bocca mi baciò tutto tremante"

    .

    Perché, mi chiedo, i romanzi d’intreccio e d’amore erano nascosti sull’ultimo ripiano, in alto, inaccessibili a noi più piccoli e — del resto — espressamente proibiti, se potevamo dissetarci a queste terzine appassionate? Per quanto tempo furono inaccessibili e proibiti?

    Credo che per Saro e per Maria — i due figli grandi — siano stati proibiti, sì, ma subito furtivamente accessibili. Per Pina e per me — i due piccoli — rimasero per un tempo più lungo lontani anche dalle mani e dalla curiosità. Poi il loro stesso carattere di tabù li rese desiderabili e infine — centimetro dopo centimetro di crescita in altezza — anche per noi furtivamente fruibili.

    Com’era casto l’amore vietato di papà e mamma! I romanzi che Saro cominciò a portare a casa a diciott’anni erano già ben altra cosa.

    Ma poi.

    Avevamo imparato presto a leggere, Pina e io. E, oltre ai casti romanzi della libreria paterna, continuavamo a sfogliare Dante e le golose illustrazioni di Doré. Ma, Dio mio, cosa c’è di più stimolante di quell’anime ch’eran lasse e nude, e del disiato riso baciato da cotanto amante e di Paolo che travolto da passione la bocca le baciò tutto tremante? E cosa c’è di più eloquente della dolce nudità di Francesca, di quella curva del suo pube accarezzata dalla matita indiscreta, di quella Mirra scellerata che divenne al padre fuor del diritto amore amica?

    Non voglio contrabbandarvi per vero che io, dai sette ai quindici anni leggessi Dante. L’ubriacatura di lui venne dopo. Ma presto presi ad accarezzare con occhi diversi le splendide drammatiche nudità sognate da Doré e a leggere le didascalie che rimandavano alle terzine e a chiedermi cosa mai…

    Papà leggeva i romanzi che Saro portava a casa, né mi risulta che abbia fatto mai opposizione od obiezione a che il figlio grande li leggesse. A noi piccoli, sì, era vietato, e, da qualche pagina frettolosamente rubata di nascosto, oggi riconosco che era giusto che lo fossero. Dolce stil novo.

    Invece Dante, Dante era casto. Io a quattordici anni non lo ero già più.

    Il libro era oggetto di culto, in casa nostra. Ma di un culto schietto, senza idolatrie.

    Era la passione per la lettura che dominava, e che mi nacque dentro con spontaneità e naturalezza, circondato com’ero di libri e di instancabili lettori. Il libro non ne era che il tramite.

    È sintomatico il fatto che non io non abbia mai cercato di possedere libri preziosi, per antichità e per fattura, ma sempre e solo libri. Libri interessanti, importanti, curiosi, esilaranti, illustrati o solo ricchi di contenuto, libri di pensiero e di pensieri, di pura narrativa o spazianti a indagare i grandi e i piccoli perché, raccolte di detti e di frasi famose, dizionari ed enciclopedie, di storia e di storie… Libri anche belli, ben curati tipograficamente, rilegati e solidi, e che, infine, conservati, mostrando il dorso impresso magari in oro, facessero una bella figura, là sugli scaffali traboccanti.

    Ma sempre senza che quest’ultima caratteristica — il libro bello — divenisse più importante del libro stesso.

    Mi sembra di lasciare un’eredità importante, con quella massa incontrollabile di libri di cui ho riempito ogni angolo di casa nostra, spero che i miei ragazzi non me ne vogliano se non troveranno un granché di altro, quando me ne sarò andato.

    Papà comprò l’Enciclopedia dei Ragazzi quando io non sapevo ancora leggere. Ma c’erano, oltre me, Saro e Maria e Pina. Giovanna sarebbe venuta anni dopo. I tre potevano cominciare a goderne, intanto che io crescevo.

    Erano dodici volumi e, prima che entrassero di diritto nella libreria, avevano un mobiletto tutto loro. Io cominciai a sfogliarli e a divorarne le illustrazioni e a capire quello che significavano quando ancora non ero in grado di compitarne neppure i titoli in tutto maiuscolo.

    Sono stati la base della mia cultura, quei volumi.

    Il libro della natura,

    Il libro della scienza,

    Il libro della narrativa,

    Il libro delle favole,

    Il libro delle donne e degli uomini grandi,

    Il libro della storia,

    Il libro dei

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