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Il coraggio degli italiani
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Il coraggio degli italiani

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“Il coraggio degli italiani” avvince ed affabula il lettore fin dalla prima pagina.In una consueta serata, nell’Italia fiaccata e al crepuscolo della seconda repubblica, un’incursione armata nello studio televisivo di Santoro, proclama radicali cambiamenti. D’un tratto pare giunta la fine delle istituzioni repubblicane, anacronistiche ed ostaggio di uomini privi di virtù, mediocri ed inadatti al comando. L’obiettivo degli incursori è riaffermare i meriti ed i primati di una nazione, che ha perduto la conoscenza e l’orgoglio del proprio valore. Quella dei rivoltosi non è prevaricazione rozza, o facile sberleffo ad una cialtrona casta politica, ma volontà di risvegliare un popolo, riaffermando identità e punti di riferimento ideali.E’ veramente sorprendente come l’autore riesca a mantenere viva l’attenzione del lettore, costruendo una trama, dove più che personaggi e colpi di teatro, i protagonisti veri della narrazione sono le idee, reinterpretate, di concetti quali: democrazia, libertà, progresso, sentimento del bello, bisogno del sacro ed esistenza dell’anima.E alla fine il segreto per saldare la morale alla politica, o al comportamento di ogni cittadino, è quello di prendere consapevolezza del mistero della vita, del dolore sempre in essa presente e della sua finitezza. Su queste basi spirituali dell’essere la corruzione non alligna e s’afferma la virtù e il bene comunitario.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateApr 4, 2013
ISBN9788891108005
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    Il coraggio degli italiani - Antonio Pardo Pastorini

    ITALIANI

    UN CUORE MALATO

    La solita faccia sardonica di Santoro, nel solito litigio parolaio e modesto dell’approfondimento politico italiano, restò ancora con la stessa espressione beffarda, per cinque o sei secondi, prima di mutarsi in stupore incredulo, di fronte all’irruzione armata di alcuni gagliardi incursori.

    Intimorito, riuscì a proferire un interlocutorio: «E allora? Che scherzo è questo?!».

    L’azione degli occupanti era veloce e calcolata. Tre di essi con decisione, prontamente, si sostituirono agli addetti alle telecamere.

    Che la sala di regia fosse già sotto il loro controllo, così come il centro di trasmissione nazionale, apparve evidente dopo i vani, timidi, inascoltati inviti, dello stesso Santoro e parte dei suoi ospiti, a interrompere il programma.

    Alcuni preoccupanti colpi di pistola, provenienti dalle quinte, amplificarono lo scompiglio. Nessuno tra il pubblico tentò la fuga per le ancora accessibili uscite d’emergenza.

    Il brusio divenne sofferto silenzio nel momento del tentativo di opposizione di La Russa, il quale, alzatosi deciso dalla cavea in legno, affrontò l’uomo di muscolatura massiccia, ma non altissimo, che pareva essere il comandante.

    «Fermatevi! Siete ancora in tempo. Non andate oltre. È già gravissimo tutto ciò…».

    Quasi all’istante La Russa crollò con impeto sull’impiantito, incapace di resistere all’eccessiva forza di un manrovescio, assestatogli da un incursore tra la scapola e il collo. Gianfranco Fini si alzò di scatto, trasparendo nello sguardo veementi sentimenti, suscitati alla vista umiliante dell’amico prono e impotente. Fu decisamente afferrato e costretto a sedere, scaraventato sulla poltrona.

    Maximo l’arguto, ma supponente, storico capo dei democratici, ancora per molti compagni il lider maximo, era come assente: lo sguardo perso a fissare un punto del pavimento. Dondolava la testa a diniego con automatismo.

    Né il prelato, tanto meno Epifani, seppure avvezzo a focosi scontri sindacali, riuscivano a governare, riducendola a ragione, la sopraffazione in atto.

    Le uscite d’emergenza, l’ingresso principale e l’intero perimetro della cavea erano, ormai, presidiati da austeri Miliziani. Uscire dallo studio televisivo non era più concesso. Il pubblico interdetto non fiatava. All’iniziale, timido, zittio di disapprovazione si era sostituito un silenzio querulo, muto richiamo ad un gesto di coraggio risolutore. La preminenza degli occupanti, però, era soverchiante. Lo stesso Marco Travaglio, animoso cavaliere di molte simil-eroiche giostre verbali, nell’ossessivo (e interessato) torneo di antiberlusconismo, se ne restava taciturno, impettito, come docile pavone, che, naturalmente, non avrebbe potuto, di fronte ad antagonisti imponenti e veri, ruggire minaccioso.

    Anche il vociare accapigliato, confuso, trapelante dalle quinte, si era smorzato.

    Il calpestio, prodotto dall’ordinato e rapido ingresso in studio dei rivoltosi, si era spento. Al centro dell’arena padroneggiava enigmatico, ma risoluto, il capo degli insorti. Senza parlare, con lo sguardo scrutava gli astanti e pareva ordinare il da farsi ai propri seguaci.

    Tutti aspettavano un proclama o, quanto meno, il palesarsi di intenzioni e scopi. Ma l’uomo taceva, incupendo con quel mutismo, ancor più, il silenzio che era calato nello studio.

    «Incipit vita nova! Siamo venuti a staccare la spina. All’uscita da questo studio (se uscirete… se mai usciremo!) faticherete a riconoscere le strade di casa. Molto vi sarà estraneo. Finalmente l’autentica legge dell’eticità spodesterà l’inadeguata leggerezza del vostro esistere. E l’Italia guiderà il cambiamento. Tra le Alpi e Capo Passero albergherà nuovamente il primato. Il rispetto del mondo, questa volta, non giungerà da falangi italiche ben addestrate alla conquista, bensì dall’ineluttabilità di una visione. E il peso della responsabilità con passione sarà sostenuto da uomini incuranti della morte».

    Apparve ermetico il preludio. Ma con sonorità vocale il personaggio ruppe il silenzio e, alzato il braccio, con cenno perentorio additò Maximo.

    Uno degli occupanti piazzò una sedia al centro dello studio televisivo, dove con rudezza e modi sbrigativi il politico fu immediatamente messo a sedere.

    Guardingo, insolitamente sommesso, girava, di tanto in tanto, lo sguardo intorno a sé, non sostenendo la fissa attenzione che, da alcuni secondi, gli riservava il rivoltoso.

    Un miliziano, sollecitato dal capitano con un rapido movimento degli occhi, avvicinatosi con scherno al malcapitato, gli versò in testa un liquido oleoso. I corti capelli, completamente impiastrati, divennero ancora più laschi, incapaci di arrestare o, quantomeno, di rallentare i rivoli giallastri che lordavano il viso, occludevano la vista, e, goccioloni, venivano filtrati dai distintivi baffetti del lider maximo. L’umiliazione crebbe, quindi, per la ridicola, successiva, doccia di leggere, piccole piume di gallina. Di colore bianco, verde e rosso, attaccatesi fitte sul capo del meschino, parevano parodia comica di bandiera oltraggiata.

    Intanto sugli ampi monitor, che coprono quasi per intero la parete centrale dello studio, ai primi piani ora del politicante, ora del giornalista, a volte dello sconosciuto ospite, si andavano sostituendo immagini di esterni: bellissime piazze d’Italia, di maggiore o minore notorietà, dove gruppi di cittadini, qui più numerosi, là più sparuti, comunque in costante aumento, con animazione seguivano appassionati su megaschermi le vicende di Santoro.

    A tratti, ancora confuse, apparentemente senza filo conduttore, scorrevano miscellanee di riprese: piazza San Pietro, stranamente deserta; le finestre del palazzo pontificio tutte illuminate; facciate, interni di chiese e musei, non sempre distinguibili, con dettagli su dipinti, affreschi e sculture; residenze storiche e palazzi reali, unici capolavori architettonici; scorci di pittoresche coste e sublimi paesaggi italiani.

    Dal Campidoglio s’ergeva a cavallo l’imperatore Marco Aurelio, che col braccio alzato, proteso in avanti, era come incitasse all’azione i rivoltosi.

    La Venere del Botticelli dagli Uffizi, il Giudizio Universale di Michelangelo dalla cappella Sistina, l’Ultima Cena di Leonardo dal convento di Santa Maria delle Grazie a Milano, gli affreschi di Giotto della basilica di San Francesco ad Assisi, quelli di Cimabue in Santa Maria Novella a Firenze o le fontane del Moro e dei Calderari in piazza Navona a Roma erano per notorietà riconoscibili, ma nulla toglievano in grazia a decine di altri capolavori e monumenti italiani meno famosi. Il filmato era una straordinaria collezione del bello, che abbacinava gli spettatori dentro e fuori lo studio di Annozero. A qualcuno l’elevata densità delle armonie pittoriche, scultoree e monumentali, insieme a composita musica ora sacra, a volte barocca, ma anche di corale solennità verdiana, inducevano stati di delirio, quasi di allucinazione. Probabilmente, complici tecniche di ripresa del dettaglio e della prospettiva, che regalavano un’incredibile coincidenza tra il reale e il virtuale, taluni principiavano ad essere preda della sindrome di Stendhal. Lo scrittore francese, visitando i tesori artistici fiorentini nel viaggio in Italia del 1817, ancora scosso, riferì in una lettera ad un amico:

    «Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti e dai sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce ebbi un battito del cuore insostenibile. Quasi in deliquio la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere. Ad ogni passo mi sembrava di sprofondare nel pavimento, così mi convinsi di essere approdato al cospetto di Dio».

    Ad un certo punto le trasmissioni s’interruppero. Alla musica si sostituì un fracasso tremendo, come di costruzioni che rovinano per crolli drammatici. Dagli schermi apparve, ormai irriconoscibile, quanto restava del Duomo di Milano. Una nebbia, fatta di polvere finissima, non ancora s’era del tutto posata, ma diradata a sufficienza consentiva di intravedere solo sfacelo. Da una collinetta di macerie si distinguevano, qui e là, tronconi di guglie e, quasi intatta, sulla sommità giaceva bocconi la bella Madonnina.

    Appresso altre scene di disfacimento venivano mostrate da una inquietante regia.

    Ormai il Colosseo era per metà crollato. La Reggia di Caserta aveva salvato solo la facciata, mentre l’interno era collassato, come imploso su se stesso. La Mole Antonelliana di Torino, la chiesa di San Marco di Venezia, Palazzo della Signoria di Firenze e la basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Roma apparivano irrimediabilmente perduti. Piazza del Campo a Siena una landa di calcinacci. O almeno così pareva. Il dubbio che fossero immagini elaborate con moderne tecniche di cinematografia digitale si volle insinuare tra gli esterrefatti spettatori, sempre più bisognosi di esorcizzare le sciagure in cui, non per loro volontà, si stavano ritrovando.

    Misteriosi ed enigmatici, alla fine, anche i rintocchi, subito vicinissimi, poi flebili, come attenuandosi per rapido allontanamento, di un orologio a cucù.

    «Il mio vero nome non conta… Libero. Questo il mio nome. Siamo gli emersi dal sottosuolo. La silente materia oscura che viene da lontano. I capitani coraggiosi che, nocchieri capaci, hanno sospinto la barca italiana, nonostante le tante chiassose zavorre e le formidabili tempeste. Siamo angeli di luce dal volto arcigno. È giunta l’ora dei radicali mutamenti. È il tempo di domare il fortunale!».

    Con inattesa mansuetudine, ma gagliardia, il comandante così si presentò a Maximo ed agli altri ospiti di Santoro. A volerne immaginare l’identità, probabilmente non si sarebbe fatto errore nel credere che fosse uno dei rappresentanti di quell’Italia, che da qualche parte pur doveva esistere, mai vissuta di favori, né di ambigue conoscenze ed a sicura distanza dalla politichetta di casa nostra. Quindi, con disprezzo, dopo una breve pausa sentenziò:

    «La vostra festa è per sempre finita! Avete fallito. Ma ormai non è più festa per nessuno. Ora a noi tocca vincere non poche battaglie. E non soltanto per l’Italia. Anche per questo mondo che si è perso».

    Inaspettatamente, in quel mentre, l’uomo fu interrotto da un commilitone, appena entrato in studio. Torvo in volto, gli si era avvicinato e gli aveva bisbigliato qualcosa di poco rassicurante. Libero, sbuffò preoccupato, poi sembrò dare un ordine al camerata, che svelto si dileguò, quindi, riaccostatosi a Maximo, riattaccò:

    «Noi siamo la nostra Patria, la nostra lingua e il nostro cuore! Pensavamo che sarebbe stato sufficiente smontare il falso mito della democrazia e dello sviluppo infinito, darvi una lezione e mandarvi in pensione, ma, ahinoi, nonostante che molti lutti adduceste agli Achei, sembra proprio che voi non siate che l’ultimo, il meno temuto, dei nemici da combattere!».

    Libero parve chiudere ironico. Invece, senza rispetto, afferrò i radi capelli dell’uomo. Con stizza gli sollevò la testa bisunta, gli mise in mano una vecchia rivoltella Beretta e seriamente lo esortò:

    «Pensa. Rifletti. Datti un voto. Tira le somme e mira l’obiettivo giusto, Maximo!».

    Il lider, o meglio, quel pennuto tricolore, che, fino a poco prima, nel pollaio di Santoro soleva assumere un atteggiamento di altezzosa superiorità e che, con quella sicumera, s’illudeva di mettere in soggezione il mondo intero, non rispose. Restò interdetto per dieci lunghissimi secondi, poi, più per tentare di distogliere da sé l’insopportabile attenzione degli spettatori in studio e degli italiani in subbuglio nelle piazze, articolò un debole:

    «Non capisco!».

    E, impugnando l’arma per la corta canna, la riporse a Libero.

    «Nessun dubbio! Abbiamo consapevolezza che molto non capiate. A nostre spese da troppo tempo ci è nota quest’irritante insipienza».

    L’iniziale tono sarcastico di Libero, che subito pareva ironia mordace, si trasformò velocemente in amarezza. Chiuse la frase con dire minaccioso, soprattutto su quell’ «irritante insipienza». Afferrò, quindi, la mano protesa di Maximo, che ancora reggeva l’arma, e con violento trasporto, esercitando forte pressione, la puntò alla tempia dell’uomo. Ormai a tutti appariva come l’imputato, preso probabilmente per caso, a simbolo di tutte le colpe della casta politica italiana.

    «Senza una pistola puntata alla tempia non diverrete virtuosi. Dubito anche che ciò sia sufficiente. Anzi sono certo del contrario. Ma io non sporcherò le mie mani col sangue rappreso d’un morto! Fra non molto lo potrebbe fare qualcun altro. Ho questo sospetto. Vedrete! Purtroppo, vedremo».

    Con sdegno, urlandogli in faccia, Libero spintonò Maximo, che ruzzolò giù dalla sedia. Quindi, rivolgendosi ai politici e giornalisti, ospiti di Annozero, continuò:

    «Siete foglie morte, senza più alito di vita, che si ostinano a restar attaccate al ramo ancora vivo. Avete suicidato da un pezzo, se mai per un solo istante fosse vissuto in voi, lo spirito libero. Il coraggio d’emulare Davide contro Golia non vi sfiora!».

    L’uomo si zittì qualche istante, lanciò uno sguardo vendicativo a Santoro, e riprese, questa volta fissando negli occhi Fini:

    «In questi anni avremmo voluto dire ai figli: Ecco, prendi a modello la vita di questo o quell’altro rappresentante della nazione. Ammirane le imprese, il coraggio, la generosità e l’altruismo. Imitalo e fatti onore. Non temere rischi. Non farti abbattere dalle difficoltà. Procedi se necessario controvento. Resisti a tutte le intemperie. Però, rimani nella via, che, tracciata da necessità arcana all’inizio del tempo, immutabile resta (e sempre resterà) per ogni esistenza. Non vi volevamo eroi. Ci bastava foste onorevoli: sì, semplicemente, degni d’onore. E siamo costretti a seppellirvi meschini, pavidi, goderecci, ricattabili, troppe volte ladri, rinunciatari, inadatti. Dannosi. Privi di stima. Omarini antinazionali, senza passioni. Dei mozzi a cui è stato messo in mano il timone della nave in un insidioso fondale con scogli affioranti. Intanto il mondo, là fuori, va peggiorando. E la catastrofe già si avverte nell’aria».

    Il comandante si fermò. Quasi uscì dal campo visivo delle telecamere. Sembrò guardare gli ingressi dello studio, come se da un momento all’altro dovesse entrare in scena qualcuno o potesse accadere qualcosa d’importante. O semplicemente volle provare a captare un qualche segnale preordinato o, forse, la persistenza di sonorità minacciose, provenienti dal di fuori. Nessuno ne comprese, però, le ragioni. Ritornò, allora, ancora più incupito, sui propri passi e senza esitazioni riprese l’invettiva. Ma questa volta il bersaglio della reprimenda non erano più i politicanti, ma il pubblico di parte, selezionato, come d’abitudine, da una faziosa conduzione del programma con criterio di convenienza.

    Buona parte della società civile e la politichetta, che la rappresentava, erano per i rivoltosi le due facce della stessa moneta del degrado morale. Gli eletti nel Parlamento impersonavano per niente affatto i migliori italiani, che pur esistevano, ma che avevano scelto di agire concretamente nell’ombra, rischiando di tasca propria, nelle imprese, nello sport, nella cultura, nelle professioni e sui campi di battaglia. Lontani dalle miserie del politichese. Da troppo tempo Montecitorio e Palazzo Madama erano affollati, per lo più, da fancazzisti arrivisti, demagoghi corporativisti, gaudenti incolti, senza slanci di coraggio. Tutti ignoranti della grandezza del popolo che erano chiamati ad onorare. In fondo simboleggiavano soltanto il dilagante impoverimento del carattere individuale del cittadino medio. Ed era a questi italiani che, ora, si rivolgeva il comandante Libero:

    «Avete applaudito partigiani e, facilmente, un sorriso denigratorio vi è spesso comparso sul volto. Altre volte vi siete indignati, gridando allo scandalo. Ma vi può bastare confidare nelle grottesche sceneggiate di un branco di scimmie democraticamente elette? Non sospettate di avere voi stessi un corpo villoso e munito di coda? Insieme ai faccendieri, che puntualmente rieleggete dentro le cabine elettorali, costituite, poveri noi, un’unica famiglia di nasiche! Vi è mancata la mente sgombra da idee preconfezionate più di un secolo fa. Il giudizio era già stato scritto, non l’avete più pensato, ma recitato a memoria come le frasi dei cioccolatini…».

    Libero si fermò solo per scolpirsi in faccia la rappresentazione del dolore, poi proseguì:

    «E in strade, piazze, case e portici, di gran lunga più larghi di questi studi televisivi, senza bussola milioni di miserabili, che han perduto la testa e l’ultima briciola di verità, si ritrovano per deserti esistenziali. Spesso d’inopportuna leggerezza vanno consumando tempo. Neanche cercano l’impresa. Non sfidano oceani impossibili. Temerari non sentono il richiamo di Giasone a solcare acque aliene alla ricerca del Vello d’oro. Giammai Argonauti. Sopravvivono consumatori, in ripetitive, ossessive giornate perse. Carnalità massicce su cui stanno per incombere tragedie mai sopportate. Non sanno cosa farsene della vita. Chi può l’abusa con piaceri che non danno gioia. Di bottiglie vuote sono lastricate le strade. E ansiosi navigano a vista, giorno dopo giorno. Senza senso e senza meta, ogni vento per loro è inadatto: solo variazione sul tema di un assurdo quotidiano. Chi fronteggerà ora i mostri terribili alle porte di Roma?».

    Il legionario fece una pausa. Si girò e, chinandosi, abbrancò Maximo, ancora malamente accomodato per terra. Costui se ne stava accovacciato in una posizione simile a quella fetale, con la testa abbassata, la fronte appoggiata sulle ginocchia e le braccia allacciate alle gambe. Libero lo sollevò con malgarbo e lo mise nuovamente a sedere.

    Quella sera evidentemente il mondo non era più lo stesso. Che un personaggio con un consenso nazionale come Maximo, ex Presidente del Consiglio, ex capo, prima dei comunisti, poi degli ex-comunisti (gente, questa, notoriamente sanguigna, pronta a scendere in piazza con faccia feroce a difesa del capo oltraggiato) fosse ridotto a pietosa caricatura, senza che nessuno si sollevasse, pareva proprio irreale. Pur se negli ultimi tempi l’uomo si era abbastanza defilato, questo non spiegava l’assenza di uno scatto di partigianeria.

    Ormai, nel susseguirsi fitto degli accadimenti, fino al giorno prima impensabili, l’abitudine alla sorpresa stava rendendo il pubblico immune alle emozioni. Ma nessuno di certo poteva immaginare lo straordinario evolversi degli eventi, che tanto cambiamento avrebbero generato.

    La pubblica filippica di Libero, denuncia di soprusi a danno del buon nome dell’Italia, proseguì per lungo tempo.

    A straccio da scarpe, per magnificarne l’esecrazione, fu preso di volta in volta il politicante, indifferentemente se di destra o di sinistra, il sindacalista di uno dei rami della triade e il giornalista capitato male.

    Colpiva nell’agire e nel dire del miliziano la convivenza, a tratti di sapore vagamente schizofrenico, dell’iracondia e della beffa. Allo strattone rabbioso, s’alternava la costrizione quasi scherzosa. Così ad Epifani, ex capo del sindacato comunista, a dir il vero, uno dei pochi che aveva opposto una onorevole ritrosia ad

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