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Io ricordo
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Io ricordo

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“Io ricordo” è il racconto schietto del miracolo della vita che si appropria del suo senso. L'intera vicenda segue il percorso senza cronologia di uno spirito ribelle e ragionevole allo stesso tempo. Chi ricorda è una figlia tanto cercata che viene al mondo quasi insperata, finendo per incarnare il riscatto di generazioni vissute ai margini dell'Italia. Volti e nomi sono quelli di persone nate dal nulla, perse ai margini dell'Italia che risorge nel secondo dopoguerra delineato dai contrasti e intriso di speranze nel miracolo. L'equilibrio di pancia e cervello, la ragionevole armonia tra le contraddizioni del passato e quelle del presente che induce a credere nella vita.
LanguageItaliano
Release dateDec 2, 2013
ISBN9788868850333
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    Io ricordo - Paola Carriera

    253

    Io ricordo.

    Ricordo quasi tutto.

    Ricordo per me e, sempre più spesso, per chi dimentica.

    Mi raccomando, non morire prima di me! ho sorriso quando ti ho sentito dire questa frase ed ero divertita: strana sensazione quella di essere una memory card vivente, veramente strana.

    In realtà, l’archiviazione è un po’ difettosa: facendo le giuste ricerche, utilizzando le parole chiave appropriate, tutto riaffiora ma la cronologia non è sempre perfetta e, soprattutto, non la controllo io.

    Spesso un ricordo mi assale quando meno me lo aspetto: la sua attualità e realtà sono spesso difficili da gestire.

    A volte è un ricordo che avevo sepolto in quelli che si chiamano file zippati (le analogie informatiche aiutano in questi casi): era lì, era sempre stato lì, solo che io lo avevo seppellito in un punto talmente profondo della mia mente che sembrava essere dimenticato. Solitamente è un ricordo doloroso.

    Un tale tipo di ricordo tornò alla luce una notte di qualche anno fa. Sembrava un sogno o meglio un incubo, al risveglio la conferma: era un ricordo. Orrido. Da dimenticare. Infatti, razionalmente, non era esistito per quasi trenta anni. Nei giorni successivi mi resi conto che tutta la mia vita fino a quel giorno invece ne era stata brutalmente invasa e avvelenata. Tutta la mia vita, in tutte le sue declinazioni. Nulla era sfuggito. Non fu un bel periodo, non volevo più dormire, avevo paura che altri ricordi riaffiorassero. Se ho dimenticato questo, cos’altro può esserci?. Chiesi aiuto, le strade erano due: la terapia o la chimica. Pragmaticamente, scelsi la chimica, non ero pronta a fare i conti con quel passato ed avevo paura di scoprire altri ricordi che mi potevano ferire ancora di più. Andò bene. Gli orchi non sono più tornati, anche se io dormo tranquilla solamente se qualcuno veglia su di me.

    E’ stato un incidente di percorso.

    Non possiedo alcuna verità assoluta, ma solo una memoria che non mi dà mai tregua e che non è ancora corrotta dagli anni: sono in quella stagione della vita che riesce a guardare lontano nel passato senza idealizzarlo, ma solo vedendolo com’era percepito in quel momento.

    Ricordo ciò che ho vissuto e quello che mi è stato raccontato: senza volerlo, ho conservato ogni confidenza, ogni sfumatura, ogni minimo dettaglio, ogni odore, sapore e colore.

    E i miei ricordi potrebbero anche non essere i tuoi o quelli di altri che passavano di lì. Poco importa, questa è la mia storia, la mia genesi, la mia vita.

    Così l’ho vissuta, così me la ricordo.

    Per definizione: io ricordo.

    PAURA DI PERDERE TUTTO

    Non so se tu l’abbia mai provata, tento di spiegarti cosa vuol dire per me.

    Mia madre era povera. Non nel senso che non poteva comprarsi un vestito o fare una vacanza: questa è la povertà che intendiamo noi, oggi.

    Mia madre nacque e purtroppo crebbe in una lontana Provincia dell’Impero.

    Lo è ancora oggi, ma pare se la passino meglio.

    Non ricordava esattamente quanti fratelli e sorelle fossero: i nonni erano piuttosto prolifici e dai racconti pare fossero sei, forse sette fratelli e sorelle, lei ne ricordava solo alcuni. Quelli morti, intendo. Quelli sopravvissuti sono arrivati sino a me, ma questa è un’altra parte della storia.

    Non so dove vivessero.

    I racconti erano talmente confusi che una volta arrivata nel Paese, non ho trovato la casa: dai suoi racconti non si capiva dove fosse.

    So che era fredda d’inverno, talmente fredda che sui vetri si formavano i cristalli di ghiaccio.

    So che le porte erano basse, mi narrava di suo nonno, talmente alto da doversi abbassare per passare da una stanza all’altra…... ma io non so quanto fosse alto.

    I miei nonni avevano dei nomi letterari: Paolo e Virginia. Ne conservo qualche foto presa sul Pacher con la mia mamma giovane e bella e vestita con un abito a pois che mi perseguiterà tutta la vita (ammetto di andare pazza per i tessuti con qualsiasi tipo di pallino).

    Andava a scuola, non so quale: ricordava di aver fatto la sesta quando a Milano ci si fermava alla quinta elementare.

    La colazione era polenta e latte. La scuola. Il pranzo di polenta e latte e poi nei campi. In alternativa, a prendere le foglie di gelso per i bruchi dei bachi da seta.

    NEI CAMPI.

    Mia madre non capiva la mia volontà di gioco, la mia leggerezza di bambina: lei non lo era stata. I suoi giochi erano rubati al lavoro, fatti di gessetti per terra e di risa quasi colpevoli. Faceva buio presto nella lontana Provincia dell’Impero: cena con polenta e…uova, sì uova, perché la nonna dal lavoro dei campi portava le uova come pagamento.

    Una bella vita, davvero.

    Natale pare arrivasse anche da quelle parti e si usava mettere gli zoccoli (sì, gli zoccoli, mia madre conobbe le scarpe solo molto più tardi) sul camino per attendere qualche dono. La mattina dopo avrebbe trovato "un mandarin e due coculis", un mandarino e due noci e sarebbe stata contenta. Sarebbe stata contenta di questi doni.

    E così fu, fino a tredici anni.

    Nel 1935, fu messa su un treno. Non ho mai saputo se abbia pianto o no. Lei non me l’ha mai detto. Dalla lontana Provincia dell’Impero, dove ancora oggi si parla in modo strano, salì su un treno che si fermò a Napoli.

    La bambina di tredici anni diventò una bambinaia.

    La trasformazione sta nelle parole: da bambina a bambinaia. La bambina non fu mai più una bambina.

    La SIGNORA (lo scrivo così perché la mamma parlava in maiuscolo delle sue SIGNORE) veniva da un’altra Provincia dell’Impero, solo un poco più a sud. A differenza di mia madre, lei era ricca e aveva due bambini: due bambini veri, di quelli che giocavano e strillavano e facevano i capricci. Le serviva una bambinaia giovane e forte.

    Quella bambinetta di tredici anni non era particolarmente forte e sana e per di più non la capiva quando parlava e allora…quando non capiva bene, c’era la punizione: in ginocchio sui ceci Così impari!. La mamma cominciò a mangiare, ne aveva bisogno e con il suo lavoro si mangiava anche a casa, dove erano rimasti gli altri. Accettare tutto è facile quando hai veramente bisogno. E’ una legge universale e la mamma lo capì alla svelta. Ho ancora le sue foto della trasformazione: appena arrivata a Napoli, si vede una bambina smilza e frastornata, dopo pochi mesi il suo viso si trasforma in una luna e la vedo sorridere mentre abbraccia dei bambini sconosciuti. Partì da Napoli, qualche anno dopo e diversi chili in più. Si diresse verso Milano.

    Era una tappa di avvicinamento verso la lontana Provincia dell’Impero da cui era partita. Forse. Sarebbe stata la sua casa per sempre.

    Ho paura della fame, degli zoccoli, dei ceci, della sopraffazione dei bisognosi: oggi come ieri e penso che l’avrò per sempre. E’ una paura che non perdi mai, fa parte del tuo patrimonio genetico: sai da dove sei arrivato e sai che lì potresti tornare. La Storia è fatta di corsi e di ricorsi, non solo quella ufficiale, anche quella dei singoli: mia madre mi ha insegnato a stare attenta a non ricadere nell’inferno da dove era venuta.

    ODORE DI SAPONARIA

    Ho visto molte case, troppe mi viene da dire.

    In questa si entrava da un atrio enorme, nella luce un tavolo: a seconda delle ore o dei giorni, non l’ho mai capito, ci trovavi un signore enorme e rubizzo oppure una piccola, anzi una piccolissima signora. Entrambi, salutavano gioviali la mia mamma: Buongiorno Tina. Lei, educatamente, rispondeva. Nell’atrio luminoso c’erano due ascensori. Noi passavamo da una porta con il vetro smerigliato, un pianerottolo all’aperto e un altro ascensore. Questo non si apriva automaticamente come gli altri 2, schiacciavi un bottone, si accendeva la luce, aprivi la porta e ti trovavi in un cubicolo blu. Senza specchi. La luce fioca. Il personale di servizio non aveva bisogno di luce, evidentemente. A distanza di anni, se chiudo gli occhi, sento l’odore: un misto di biscotto stantio e muffa. Per me era un odore familiare, quasi amico. La mamma schiaccia il bottone. Due o tre piani, non credo fossero di più. La porta si apre su un piccolo balconcino ed entriamo. Ho quattro anni, forse cinque. La stanza non è grandissima, la mamma mi fa sedere a terra, contro il muro. C’è un tavolo contro, ma proprio contro la parete, che ne prende tutta la larghezza: un tavolo coperto da un panno bianco e sopra c’è un ferro da stiro.

    Io sono seduta a terra in una stanza piena di luce. Sopra di me pendono dei vestiti, stoffe che avrei capito più tardi essere bellissime: sete di abiti da cocktail, da sera e…una nube di saponaria.

    Oggi non si usa più.

    La saponaria: polvere magica contro le macchie. Non ricordo esattamente la sequenza, ma la mamma la usava. La macchia, la saponaria e poi un altro liquido dall’odore acre, trielina credo, o forse la sequenza era inversa: serviva per togliere le macchie dai tessuti preziosi. Le tintorie si usavano con parsimonia, allora. Odore buono. Un po' più del sapone. Polverosa.

    Siedo a terra con la saponaria che mi cade sul capo dall'alto: gli abiti sospesi ondeggiano con l’aria e la saponaria cade. La mamma prende gli abiti e li stira.

    MAMMA Mamma!

    SHHHH!!! SHHHH: la signora riposa, non fare rumore!

    La mia attenzione va all'altra stanza, dove, di notte, dorme la tata (povera donna si chiamava Maria e barcollava sotto un peso improbabile per le sue gambe) là dentro ci sono due mensole, una sorta di minilibreria che nel tempo è anche arrivata a casa mia, che raccoglie in realtà cose che libri non sono: SCARPE! Ce n’è un paio per ogni vestito! Ne ricordo color prugna ma, soprattutto, color smeraldo! Tra gli abiti che ondeggiavano sulla mia testa, perdendo molecole di saponaria, ce n’era uno con un fondo smeraldo, di seta, altri colori gli facevano da contorno. E sulla mensola, le scarpe DELLO STESSO COLORE!

    La mamma aveva scarpe nere d'inverno, con le stringhe e con la punta un po’ quadra, per far contenta la sua cipolla sul pollice ed esotici sandali bianchi con suola di sughero d'estate… ma che cos’erano quelle scarpe color SMERALDO! E con il tacco! Mica quello quadrato delle scarpe della mamma, il tacco vero, quello alto, fine! Come mi sarebbe piaciuto provare a mettere il mio piedino in quelle scarpe e con quel vestito, poi!

    Mi sono svegliata con questa immagine nella mente, in una strana penombra pomeridiana: non è un sogno è un ricordo. Ho risentito l'odore buono della saponaria; ho sentito la radice della mia smania di abiti e scarpe da accumulare; ho compreso il desiderio di riscatto di mia madre, mai raggiunto.

    Mi sono svegliata piena del dolore di una vita che non mi appartiene e che neppure io sono riuscita a riscattare.

    Mi sono svegliata per andare a stirare a mia volta.

    Senza saponaria.

    Non si usa più.

    L’INGEGNERE E LA SIGNORA

    Mi raccontano che si sono conosciuti al Cinema Capitol: non so se fosse un giovedì di libera uscita od una domenica.

    I giorni hanno un peso relativo per le servette: la liberà, per la mamma, è comunque e solo di giovedì o domenica.

    Giorni liberi da quelle prigioni dorate.

    Essere a servizio è una garanzia ed una prigione: per la mia mamma è soprattutto una garanzia.

    Al Cinema Capitol, in via Manzoni, proiettano il Cucciolo.

    Storia lacrimevole con anche un capriolo per protagonista, mi pare.

    Non vorrà mai più vederlo, neanche quando lo danno per televisione: si innervosisce, sicuramente ha i suoi buoni motivi.

    Vestita per bene, con i vestiti smessi della Signora di quel momento, incontra quel giovane uomo, anche lui ben vestito.

    Gli abiti fanno i monaci.

    La mamma è una giovane donna, ha 30 anni: forse non è bella, nel senso classico del termine, ma ha un aspetto sano ed un sorriso che apre il cuore.

    Il mio papà è bello, alto, con il cappotto di cammello con quella cintura alta che solo le nostre gambe lunghe riescono a portare con un minimo di stile…la cintura appena stretta, quasi fosse lì per noia.

    La sigaretta tra le mani.

    Gli occhi pieni di pioggia ed un trench che lo avvolge fino a farlo scomparire.

    Un uomo, vero e concreto, in questa Milano difficile.

    Una speranza.

    Non mi raccontano per quanto si sono visti dopo quel cinema.

    La mamma, un giorno, mi svela un segreto

    Sai, la mia famiglia era lontana e poi… non capivano niente, non valevano niente. Mi avevano mandata a servizio a 13 anni: non potevano scegliere il padre dei miei figli. L’Ingegnere mi era così affezionato…

    In quel momento la mamma è a servizio dall’Ingegnere.

    Guardarobiera fissa.

    C’è una Signora, ma la mamma ha sempre parlato dell’Ingegnere.

    La Signora è l’archetipo di tutte le Signore: è quella che, due volte all’anno, colma il tavolo di abiti smessi, pronti per la scelta della servitù.

    Una Signora giustamente capricciosa in quegli anni di ottimismo sfrenato.

    E’ la fine degli anni 50…l’inizio dell’opulenza.

    Sono gli stessi abiti che la mia mamma prende e manda al Paese ed ai Feles.

    L’Ingegnere è un buon padre di famiglia.

    Non solo della sua, ma di tutto quel circo fatto dalla servitù che lo circonda.

    Un universo femminile che comprende anche la bella moglie dalle mille velleità, la figlia timida e bellissima, la servitù che lo adora.

    La mamma lo sceglie come arbitro della sua scelta: sarà lui, e non mio nonno, a valutare quell’uomo che si propone come suo marito.

    Sarà lui a scegliere il padre dei suoi figli, quei figli che lei desidera tanto.

    Un estraneo.

    Un uomo gentile e giusto: la mia mamma ha voluto così.

    E così, lei si prende la nostra Tina

    -

    La tenga da conto, le sia fedele, le dia quello che si merita: ha quasi la stessa età di nostra figlia. È come se fosse nostra figlia

    Magari anche no, ma papà aveva le gambe che tremavano davanti all’Ingegnere.

    Diede il suo benestare.

    La mamma ne andava orgogliosa

    Come una figlia.

    Come quella figlia.

    Si fanno fotografare insieme: mamma, figlia e guardarobiera.

    La mamma tiene le fotografie.

    L’Ingegnere le lascia in un pomeriggio assolato di ritorno da Stresa: non voleva mai guidare dopo pranzo…ma la Signora voleva rientrare a tutti i costi, e presto e proprio in quel pomeriggio assolato.

    La Signora, a parte qualche graffio, gli sopravvive.

    Resterà con Ileana: la figlia triste e bellissima.

    La mia mamma si è sposata e non è più con loro…solo qualche contatto: giusto per sapere se la Signora è sempre così volitiva e stravagante e se la Signorina sta meglio. Qualche breve chiacchera con chi è ancora a servizio, per sapere se la Signorina è riuscita a smarcarsi da quella mamma così possessiva.

    Ci riesce.

    La Signorina si sposa, nonostante la Signora.

    Sposa un architetto di belle speranze.

    Tu non puoi capire, non le permetteva di vivere, povera ragazza! mi dice spesso.

    La Signora scompare nelle nebbie di Milano…ancora avvolta dalla sua bellezza.

    La mia mamma non la piange, anzi, c’è un lieve sorriso sul suo viso mentre pensa ad un futuro migliore per la Signorina.

    La Signorina ha una figlia.

    E poi un figlio.

    Richiama la mamma.

    Coetanea, anche

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