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Percepire la scienza in motocicletta: Racconti e viaggi di un naturalista nell'Italia meno conosciuta
Percepire la scienza in motocicletta: Racconti e viaggi di un naturalista nell'Italia meno conosciuta
Percepire la scienza in motocicletta: Racconti e viaggi di un naturalista nell'Italia meno conosciuta
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Percepire la scienza in motocicletta: Racconti e viaggi di un naturalista nell'Italia meno conosciuta

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About this ebook

È un mondo meraviglioso. Questa è la sensazione che rimane dopo aver letto il libro. L’autore lo racconta alla guida della sua Moto Guzzi, in un diario di viaggio fatto di descrizioni potenti, di storie che ti scuotono l’anima e di riflessioni di una vita. Immersi in un’atmosfera romantica, scoprirete i luoghi con occhi nuovi e con i sensi affinati dalla curiosità e dall’osservazione. Farete tante strade diverse per un percorso intenso che scorre leggero come una piuma, dove sentirete vibrare il filo che unisce la percezione del paesaggio all’avventura della ricerca. Intimamente, in un percorso mentale ricco di spunti filosofici, scoprirete che i viaggi e le esperienze, sono come piccoli frammenti di una mappa, che per gradi, vi sveleranno il disegno e il cammino. Vi immergerete nel segreto di un viaggio dove sarete sempre stranieri, da ogni parte, ma ovunque accolti nel linguaggio universale della natura, e quindi a casa, come semplici abitanti del mondo.

“Alla sua guida si scioglie in considerazioni che passano dalla poesia all’osservazione scientifica, regalandoci nelle pagine di questo libro alcuni brani di pura filosofia” Moto On The Road
“Un modo per ascoltare noi stessi, in perfetto equilibrio tra razionalità ed emozioni” Bicilindrica
“Un fine ed intelligente innovatore del linguaggio scientifico e delle ripercussioni della ricerca sui sentimenti umani” Duccio Rocchini, Professor in Sciences, University of Bologna
“Con le sue parole è in grado di aumentare la realtà con gli occhi di chi ben conosce sia la natura che i motori, appassionando all’inverosimile tutti i suoi lettori” Gianmaria Bonari, Researcher in Botany, University of Bolzano
“Scorrevole e passionale con un linguaggio semplice che coinvolge” AMOTOMIO

Marco Landi, nato nel 1971, è laureato in scienze naturali e ha conseguito il dottorato di ricerca in scienze e tecnologie applicate all’ambiente. Si occupa di ecologia e ha pubblicato numerosi articoli scientifici su riviste nazionali e internazionali. È da sempre impegnato nelle attività di interpretazione della natura.
LanguageItaliano
PublisherStreetLib
Release dateFeb 24, 2014
ISBN9788868855772
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    Percepire la scienza in motocicletta - Marco Landi

    copertina

    Marco Landi

    Percepire la scienza in motocicletta

    Racconti e viaggi di un naturalista nell'Italia meno conosciuta

    Copertina: Francesca Marrucci

    Prima edizione: 2014

    Edizione riveduta e ampliata: 2023

    Proprietà letteraria riservata

    Copyright @ 2014-2023 Marco Landi

    Via Stalloreggi n. 13

    53100 Siena

    http://percepirelascienzainmotocicletta.wordpress.com

    ISBN: 9788868855772

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    A MATTEO e GINEVRA,

    desiderosi di viaggiare,

    curiosi di scoprire,

    capaci di meravigliarsi.

    Avvertenza dell’autore

    Alcune discussioni affrontate in questo libro, nonostante abbiano preso spunto dalle letture citate e di molte altre di cui ho perso le tracce (e di questo chiedo scusa agli autori), sono il risultato di ricomponimenti, riflessioni e interpretazioni personali di cui non è detto che ne sia proprio convinto, ma questo non ne diminuisce l’importanza, perché come ci insegnano i grandi della scienza, il dubbio è l’inizio della saggezza ed è la forza della ricerca scientifica. È anche possibile che nello scorrere delle pagine, vi accorgerete di un cambiamento di stile, che a me piace pensare invariato nei tratti personali e più illuminato verso la fine, ma questo perché il libro è stato scritto in dodici anni. C’è una sola cosa che è rimasta la stessa: la motocicletta. In ultimo, mi permetto un suggerimento sulle note di approfondimento, che ho sempre trovato noiose ma che se non l’avessi messe qualcuno avrebbe storto il naso: fossi in voi ne leggerei meno della metà (o nessuna).

    Introduzione

    "La vita è fatta di rarissimi momenti di grande intensità

    e di innumerevoli intervalli.

    La maggior parte degli uomini, però,

    non conoscendo i momenti magici,

    finisce col vivere solo gli intervalli"

    Friedrich Nietzsche

    Penso che siano straordinarie quelle persone che nonostante la normalità delle loro giornate, riescono a trovare ancora dei momenti di follia, e sarei felice se anche voi, avvicinandovi alla lettura di queste pagine, provaste una sorta di evasione dall’ordinario. Io, scrivendo, mi sono accorto che nella vita ci sono molti momenti magici, come credo sia magico, questo viaggio che sto per fare con voi. Sono onorato di esserci; vi sento.

    Ma andiamo con ordine. Pronunciando la parola percezione la gente pensa a capacità straordinarie di sentire palpabile ciò che è invisibile, come se la percezione fosse l’anticamera della veggenza, ma niente di tutto questo ha a che fare con me e con i racconti che ho scritto. Pertanto, giusto per disilludere false attese, mi è sembrato onesto scrivere la definizione di cosa intendo con le tre parole del titolo percepire – scienza – motocicletta. La prima, percepire, riassume in sé l’atto dell’apprendere attraverso i sensi, che con la conoscenza, permette di giungere all’interpretazione. La seconda, scienza, è riferita ai concetti che mi accade di rievocare con la percezione e la terza, motocicletta, indica il mezzo che ho utilizzato a tale scopo. Tuttavia, non sono riuscito a sottrarmi al desiderio di parlare anche della mia filosofia motociclistica, affrontando il rischio di cadere in un terreno che è molto scivoloso per un uomo di scienza.

    Come invece mi sia messo a scrivere questo libro è rimasto un mistero anche per me, ma ho cercato comunque di darmi una risposta. Non so, forse desideravo solo uscire dalle righe, ma ciò che è sicuro, è che avevo un’idea della nostra esistenza sulla Terra e un metodo scientifico acquisito in una vita di studi, che mi facevano vivere la motocicletta in un modo diverso: distante dalla tecnica e più vicino al pensiero. Credo anche di aver immaginato di possedere una preparazione adeguata per unire la passione per l’avventura, all’esperienza scientifica e naturalistica, di cui io, potevo essere un piccolo divulgatore; tuttavia, questi buoni propositi non superarono la paura di una strada sconosciuta, e così, per un po’, esitai a prenderla. Poi arrivò la spinta finale scandita dall’età anagrafica, sempre più vicina agli anni di mezzo; il compimento del quarantesimo compleanno, che mi rammentò l’inesorabile tempo trascorso. Mi guardai indietro e vidi tutto il lavoro metodico e razionale che avevo fatto per la scienza. Allora compresi che era giunto il momento di scrivere qualcosa di creativo, e di personale, per tutti e per me stesso. È accaduto a questa età. È stato come un risveglio; una voce venuta dall’anima: È arrivato il momento per un atto folle.

    Da quel giorno sono passati molti anni, molti viaggi e molti appunti, ma questo lo capirete più avanti, per adesso devo solo spiegarvi ciò che state per leggere. Ebbene, il libro è una raccolta di esperienze e di pensieri basati su fatti avvenuti realmente e accaduti mentre viaggiavo in motocicletta. Può capitare che in uno stesso viaggio abbia trattato argomenti diversi, ma in fondo è così che si sono manifestati, non potevo fare altrimenti, le esperienze percepite in strada, non seguono l’ordinata successione di un libro di scienza. In più, ciò che è di scientifico, se così si può dire, lo troverete seminato qua e là da una mano leggera, che ha solo tentato di prendere al volo l’opportunità di parlarne. Vi accorgerete anche che la forma del linguaggio non è sempre la stessa, a volte compaiono ragionamenti e a volte compaiono racconti; dai quali potreste rivivere esperienze vissute con un nuovo punto di vista, oppure, coglierne un significato.

    Il naturalista in motocicletta

    "Il vero viaggio di scoperta

    non consiste nel cercare nuove terre,

    ma nell’avere nuovi occhi"

    Marcel Proust

    Alla ricerca del tempo perduto, 1913-1927

    Il naturalista in motocicletta medita sul funzionamento del motore e allo stesso tempo osserva il paesaggio che lo circonda con la medesima passione. Ascolta le pulsazioni dei pistoni distinguendone l’intensità e la profondità, rivolgendo lo sguardo allo scenario intorno a sé, finché lo attraversa. La prestazione di una piega in curva lo rinvigorisce quanto l’opportunità di portare a casa un nuovo frammento di esperienza naturalistica, un tassello mancante del puzzle della natura, che con umiltà, aggiungerà al suo sussidiario di immagini e ricordi. Con il corpo immerso negli elementi dell’aria e appena sollevato da terra, sfugge alla gravità senza muoversi. Restando seduto scivola via tra le montagne e soddisfatto della sua agilità motoristica e con la mente assorta, accenna un sorriso di intendimento alla natura che gli si manifesta, e sa bene, in cuor suo, che non desidera altro che questo. Con lo sguardo fiero guarda lontano nello spazio, attraverso il tempo, e riflette sull’adeguatezza che anche adesso hanno le parole di Henry David Thoreau: Fa’ sì che il guadagnarsi da vivere non sia un mestiere ma un divertimento. Godi della terra, senza però possederla. Gli uomini sono quello che sono, per mancanza di iniziativa e di fede, perché comprano e vendono e consumano la loro vita come servi della gleba 1. Quella frase che gli ha insegnato come dei valori della vita si possa fare uno stile di vita.

    Spesso pensiamo che non sia necessario ampliare le nostre conoscenze per godere degli ambienti naturali, ma penso che questo sia vero solo in parte, perché un lento e progressivo allenamento al riconoscimento degli animali e delle piante, ci permette di attribuire loro un nuovo significato. E un ulteriore vantaggio ci viene offerto quando negli elementi naturali, biologici o geologici che siano, ritroviamo quelle strutture che si ripetono e che fanno emergere le loro forme nel paesaggio. Ebbene, tutto ciò viene indicato dagli scienziati con il temine inglese - pattern.

    Ricordo un evento di tanto tempo fa, avevo compiuto ventinove anni e doveva essere la primavera del 2001, e nonostante fosse un’esperienza che avevo vissuto innumerevoli volte, mai fino ad allora, si era manifestata così netta. Alcuni anni dopo, la riconobbi in un libro del paleontologo Niles Eldredge, il quale, l’aveva presentata con chiarezza nel riconoscimento di un falco raro nei dirupi di una parete rocciosa 2 . Il mio episodio e quella spiegazione, mi fecero comprendere l’acutezza di un occhio abituato a scorgere la diversità, e per me, fu un nuovo apprendimento; una dilatazione delle mie facoltà; il crollo di un muro che aprì la strada a una lunga serie di eventi simili. Ma torniamo a quel giorno di tanti anni fa. Ero in piedi sulla poppa di una motovedetta e in compagnia di un gruppo di ricercatori e professori, etologi e botanici, stavo per approdare sull’isola di Montecristo. Quell’isola inviolata dall’uomo era un enorme plutone granitico che emergeva dal mare. La superficie ricordava la difformità ondeggiante e increspata di un guscio di noce, che con la sua durezza, resisteva all’erosione del vento e della pioggia che l’aveva denudata. Sulla cresta apparivano tre vette se vista da ovest, una soltanto se vista da nord. I pendii scendevano sopra masse rocciose apparentemente lisce che arrivandoci dal mare, assumevano un aspetto rigonfio e pieghettato; come un tessuto che è appena caduto in acqua e non si è ancora del tutto immerso. Il mare era azzurro intenso e così plumbeo all’ombra delle insenature, che faceva intravedere le fondamenta rocciose immerse nell’abisso.

    All’interno di quell’altura in mezzo al mare, io stavo per fare il mio viaggio iniziatico, perché mentre gli altri passeggeri sarebbero ripartiti il giorno dopo, io e il mio compagno d’avventura, Antonio, vi saremo rimasti per quindici giorni. E se è vero, che in solitudine si compie quell’esperienza essenziale per la preparazione psichica di ogni individuo, questa era la mia occasione e questo era il mio tesoro di Montecristo. Intanto che penetravamo la foschia e i contorni dell’isola emergevano più nitidi, ascoltavo i gabbiani con i loro versi striduli; un lamento accordato al boato delle onde che si infrangevano sulla scogliera. Compresi allora perché il silenzio non esiste. Quando tutto tace, quando l’uomo tace, iniziano i suoni della natura. Sebbene fossi già soddisfatto di ciò che avevo visto e udito, prima ancora di mettere piede su quella terra per me selvaggia e sconosciuta, stavo per ricevere un ulteriore insegnamento. A una certa distanza dalla costa, Antonio, ormai considerato da tutti un veterano dell’isola, mi indicò un punto a metà sulla parete rocciosa: Vedi quella lì? È la capra dell’isola, mi disse.

    Io non vedevo niente e presi anche il binocolo dallo zaino per aiutarmi. Niente, proprio niente, vedevo solo sfumature tra il grigio e il rosa della roccia granitica. Gli chiesi: Ma dove dici di preciso?.

    Ci stavamo avvicinando alla costa e Antonio mi indicò di nuovo quella capra, finché, forse ormai troppo vicini, vidi uno scatto e l’arrampicata veloce. La capra che era rimasta immobile tutto quel tempo davanti a me, scappò via: grazie al movimento, riconobbi nelle sfumature di grigio la forma dell’animale che si distaccò dallo sfondo. All’improvviso tutto fu chiaro, si trattava di un riconoscimento di quel pattern che viene tanto spiegato (ma così poco compreso), dai testi di scienze naturali. Lo scafo era diretto al molo per l’attracco e senza fare il periplo delle insenature, ci allontanammo di nuovo. Riguardai le pareti rocciose dalla stessa distanza iniziale per scovare di nuovo l’animale, ed ecco, ne vedevo addirittura due adulte, una piccola e poi ancora un altro gruppo nelle vicinanze. Un sorriso doveva apparirmi sotto il binocolo e provai una grande felicità nell’essere riuscito a vederle. Alla fine, un sospiro di sollievo mi fece aprire i polmoni, ricordo ancora l’odore di salsedine e i profumi pungenti delle erbe aromatiche, che mescolati da una brezza leggera, accrebbero quella meravigliosa sensazione di completezza e appagamento. Nei giorni a venire, quelle capre sarebbero diventate una consuetudine: di giorno, immagini lontane e immobili sui pendii, o colpi secchi di balzi invisibili con frane che si esaurivano nei paraggi del sentiero; di notte, picchiettio di zoccoli sull’acciottolato davanti alla porta della stanza, o sulle tegole del tetto.

    Ecco, questa esperienza del riconoscimento di strutture, di disegni e di forme ricorrenti, può ripetersi in qualsiasi scenario e, tanto per dare l’idea dell’ampia gamma di possibilità, una dal contenuto simile è quella riportata per la vipera dal naturalista William Henry Hudson: Coloro che sono abituati a camminare in spazi aperti e asciutti, in quei luoghi dove abbondano i serpenti, si saranno spesso meravigliati di quanto improvvisamente una cosa che prima era stata vista come una semplice striscia o una macchia di colore opaco sulla terra a chiazze, quindi parte del suo disegno indistinto, abbia assunto la forma di un serpente. E una volta riconosciuto come tale viene visto in maniera così vivida e in così netto contrasto con il resto che lo circonda, da apparire l’oggetto più visibile e inconfondibile che si possa trovare in natura 3.

    Si potrebbe riempire un libro con esempi del genere e tutte le persone che si ostinano a voler vedere oltre l’apparenza vivono esperienze di questo tipo. È chiaro però che per scoprire qualcosa di nuovo nella natura, un pattern che per noi è sconosciuto, è necessario avere, come ci ricorda Niles Eldredge, un quadro mentale di cosa stiamo cercando. Il segreto è che dobbiamo essere addestrati a vedere, nel senso che dobbiamo già conoscere quello che desideriamo trovare; una guida naturalistica con disegni di animali e piante può essere utile in tal senso. Be’, non lo nascondo, riconoscere il pattern per la prima volta è difficile, ma quando è stato registrato nella nostra mente, diviene quasi banale richiamarlo dalla memoria. Comunque, per vedere è necessario conoscere un certo inventario degli elementi naturali e più il nostro elenco è lungo, più facile sarà scovare ciò che sembra nascosto ai nostri occhi. Sia chiara una cosa: quando riconosciamo tali elementi, quando sappiamo cosa sono, per noi non saranno più gli stessi di prima. Nel trovarli sarà come dilatare l’universo delle nostre emozioni. Noi li chiameremo per nome e loro entreranno in noi. E questo ci donerà un’eccitazione che non vorremmo mai reprimere.

    Se per voi è la prima volta, e se la vostra mente non è già piena di impegni e pensieri, e se non siete ancora del tutto contaminati dai beni materiali, quell’esperienza potrà segnare l’inizio di un processo educativo e spirituale che vi accompagnerà per sempre.

    Sì, lo ammetto, mi sono addentrato in ragionamenti un po’ ingarbugliati per chi non è del mestiere, ma è stato solo per dire che perfino un motociclista, che ha macinato chilometri di strada nella natura, se vuole goderne nel suo intimo più profondo, deve essere mentalmente preparato a farlo. Ma superato questo primo ostacolo, egli potrà arricchire le sue esperienze naturalistiche, e così, crescendo, nei viaggi successivi riapplicherà lo schema acquisito confrontandolo con la nuova realtà.

    Per questo tipo di motociclista esiste una magia che dimora nella capacità di vedere e non di guardare. Durante il suo accrescimento si accorgerà di non scegliere mai la via più veloce e trafficata, ma preferirà quella più bella e meno battuta, forse più lunga, ma più emozionante. Lo scorrere del tempo sarà per lui rallentato, perché lungo il suo viaggio, vivrà momenti di grande appagamento. Molti motociclisti lo ignoreranno, molti altri lo osserveranno con stupore e forse alcuni lo seguiranno con curiosità pronta alla partecipazione, perché in fondo, il motociclista naturalista sarà comprensivo con tutti, anche se con i più interessati condividerà i momenti migliori, concedendosi a un travolgente e affascinante contagio.

    Bene, penso che i tempi siano ormai maturi e in questo ventunesimo secolo ci saranno motociclisti che andranno veloci quando dovranno e andranno piano quando potranno. Per loro guidare rappresenterà un insieme di gesti che coinvolgerà il loro pensiero, i loro sensi e infine le loro emozioni, a tal punto che non esisteranno più due curve uguali, come non esisteranno più due paesaggi uguali. Il mio libro sui viaggi in motocicletta parte dunque da qui, da un’isola, da un punto fermo; il viaggio più importante si fa con la mente, solo dopo si usa il corpo.

    Consapevolezza e controllo

    "Il coraggio

    è dunque spesso l’effetto

    di una poco chiara consapevolezza

    del pericolo che si affronta,

    o della totale ignoranza di quello"

    Claude-Adrien Helvetius

    De l’esprit, 1758

    ( Dello spirito, Editori Riuniti, 1976)

    Il 14 novembre del 2012 un forte temporale si abbatté nel centro Italia. L’occhio del vortice era nell’Etruria - una terra tra il fiume Arno e il fiume Tevere, e guardava fermo l’unica montagna - il monte Amiata, nella quale, rovesciò la pioggia di quelle interminabili ore. Uno dei disastri più vasti fu causato dallo straripamento del fiume Paglia, che prima ostruì il ponte sulla Cassia - variante della storica strada consolare che univa Roma a Firenze, e poi se lo portò via con la piena.

    Proprio in quel giorno dovevo attraversare quella zona per acquistare la motocicletta; non fu possibile, solo uno sciagurato avrebbe rischiato di avviarsi per quella strada. Quando poi venni a conoscenza del ponte franato, mi rammentai il consiglio che il più famoso di tutti gli scudieri, disse al più valoroso di tutti i cavalieri: Signore, rispose Sancio a Don Chisciotte ritirarsi non è fuggire, né aspettare è assennatezza quando il pericolo sorpassa la speranza; è bensì da saggi conservarsi oggi per domani, non già mettersi allo sbaraglio tutto in un giorno 1. E così, quella mia incertezza che era rimasta appesa al filo tra l’audacia e la codardia, lasciò la presa e si dissolse. La motocicletta rimase allora nel suo paesello, che per fortuna, ma forse sarebbe meglio dire con saggezza, stava in collina. Il suo nome, Acquapendente, rammentava le vicine cascatelle, ma nel mio caso sembrava scelto come un presagio sinistro di quelle nefaste acque. In ogni modo, la motocicletta riposava al riparo dal bagnato, e non solo per la posizione astuta del paese, ma anche per la premura del suo proprietario. Eh già, mi disse che l’aveva messa vicino al tavolo da pranzo.

    Passarono un paio di giorni e nonostante un solo spiraglio di luce mi inducesse per il coraggio, decisi di affrontare quel viaggio in compagnia di Marcello, il quale, in futuro, sarebbe diventato il Virgilio che mi avrebbe fatto da guida ovunque. Arrivammo nel momento in cui il proprietario stava finendo la pulitura del motore. Ricordo ancora il panno che scivolava sul fianco sinistro sotto la sella: lo guardai e pensai che avrebbe dovuto staccarsene; cominciare a prendere le distanze sarebbe stato per lui terapeutico, ma era evidente che a modo suo, si stava preparando. Lo salutammo con la mano e lui ci venne incontro dicendo: Oh… ce l’avete fatta!

    Sì, ma è stata un’avventura… la strada è coperta di fango.

    Beh... avete avuto carattere... e fortuna, poi si girò con fierezza e disse questa è la mia Moto Guzzi.

    Mi invitò a guidarla e io accettai. Salii con calma per provare l’assetto e intanto un sorriso di soddisfazione accompagnava il mio pollice sul pulsante dell’accensione. Nei primi due secondi un suono grave – il sibilo della pompa d’iniezione, che assomiglia a quello di un palloncino che si lascia sgonfiare fra le dita. All’improvviso lo scuotere metallico dei pistoni sui cilindri, sul telaio e su di me, mentre leggere vibrazioni scorrevano sulle manopole. Era come se la motocicletta, invece di muoversi in avanti, dovesse di colpo decollare; allora iniziai a decelerare, finché mi giunse all’orecchio anche il suono delicato dello scampanellio delle punterie. Ebbene, era giunto il momento, pigiai con decisione sulla leva del cambio, lasciai adagio la frizione e con un balzo uscii nella strada. Un breve rettilineo, il vento negli occhi e qualche curva per prenderci confidenza.

    Non passò molto dal momento in cui mi resi conto, che sarei stato disposto a comprarla anche con qualche pecca, e chissà, forse riflettevo sul fatto che nostro padre, nostro nonno o qualche zio lontano, nei fatti o se non altro almeno nell’anima, aveva guidato o sognato una di queste motociclette.

    Con questi pensieri iniziai il mio primo viaggio. Già, è proprio nel portare a casa la motocicletta che si compie il primo viaggio; e fatti una decina di chilometri, fui di nuovo in quella zona inondata dal fango. Di tanto in tanto arrivavano autocarri, altri tornavano in retromarcia e ovunque sbraitavano autisti nervosi, che si affacciavano dai finestrini urlando al malcapitato. Ma il mio equilibrio sembrava non soffrirne, e nel mio profondo, avvertivo uno strano senso di responsabilità. Come se un autocontrollo totale mi avesse sottratto all’inquietudine del mondo. Cosicché, quell’idea primordiale che provai per la mia prima motocicletta, cioè quella necessità di conoscerne le potenzialità ruotando la manopola del gas all’estremo, era stata inconsciamente rimossa. Mi chiedevo: Sotto quale effetto benefico è sottoposta la mia mente?. Sapevo che gestire gli impulsi non è facile, almeno per me non lo è mai stato, ma in quel momento sperimentai quella sorta di moderatezza nei comportamenti, che sembrava a che fare più con l’età che con me stesso.

    Qualche anno fa si parlava proprio di questo sui giornali, che attribuivano all’effetto dell’alcool e all’esuberanza degli adolescenti, la causa degli incidenti stradali. In quel trambusto di notizie, venni a conoscenza di un articolo sulle ricerche fatte da alcuni neuroscienziati 2, i quali, utilizzando nuove tecniche come la scansione cerebrale 3, portarono alla luce un’ulteriore causa, forse passata troppo inosservata, per non creare alibi ai più imprudenti. Da questi studi, venne fuori che il controllo degli impulsi emozionali non era legato solo a motivi individuali, ma anche alla diversa velocità con cui si sviluppavano alcune zone del cervello. Succedeva infatti che nei giovani, alcune zone preposte alla percezione delle emozioni (come l’area limbica e più in particolare l’amigdala 4), si sviluppavano molto prima, di quelle per il controllo degli impulsi (zone della corteccia frontale), che raggiungevano il pieno sviluppo dopo i vent’anni. Tale sbilanciamento, portava i giovani a sottostimare il rischio, per cui, credendosi più invulnerabili, si facevano guidare più dall’emozione che dalla riflessione. In altre parole, quei neuroni frontali che ci dicono di non passare quando il semaforo è giallo, si sviluppano per ultimi. E per me è stata davvero una bella scoperta, che mi ha ricordato quando anch’io, refrattario a ogni freno, ero sicuro della mia invincibilità 5 .

    Arrivai sul ponte danneggiato dalla forza del fiume. Sotto l’arcata quasi colma dell’acqua torbida, di un colore tra il marrone e il giallastro, pezzi di legno e radici galleggiavano lenti in superficie, per poi capovolgersi con rapidità nei mulinelli. Sulle sponde, la terra ricopriva i cespi erbosi, mentre solchi e rigagnoli sparsi un po’ ovunque, scendevano dai campi allagati verso il fiume. La piena sfiorava ancora l’asfalto e nel ritirarsi, insozzava i rami più bassi dei salici e dei pioppi, di un misto di fango e foglie secche. Nonostante l’adrenalina scorresse veloce, rimasi calmo; evitai con precisione le pozze e i ramoscelli al margine della strada e, alla fine, il fiume fu alle spalle. Man mano che il corso d’acqua si faceva piccolo, lontano, e l’asfalto più pulito, dissi a me stesso: La sto guidando ed è molto più facile di quanto credessi, ma devo rimanere pronto; pronto per ogni possibilità che la strada vorrà darmi.

    Senza che me ne rendessi conto, l’impercettibile e lento innalzamento del piano stradale, era stato sufficiente a trasformare la nebbia in foschia e la malinconia in slancio. Poco più avanti apparve anche il primo raggio di sole, che illuminava delle case segnalate da un cartello con scritto Gallina (era il nome del borgo); e sotto, con caratteri più piccoli State attraversando il 43° parallelo. Inseguito dal maltempo, mi sentivo come un fuggitivo e provai la stessa sensazione liberatoria di un bandito, una specie di euforia, come quegli evasi dei film polizieschi americani che varcano il confine.

    La strada scorreva in tratti di salita, appena percettibili, e discesa, in un alternarsi fluido senza curve nascoste, mentre intanto il cielo si stava schiarendo, fintantoché, dopo qualche chilometro, potei vedere in profondità fino all’orizzonte azzurro intenso. Quando ormai ero fuori, non più di qualche pennellata di spuma bianca, allungata in strati sottili ed evanescenti, avanzava elevata nell’atmosfera sopra di me. Cavalcai allora quelle collinette verdi con campi seminati a grano, con la stessa leggerezza di un delfino che guizza sul mare piatto. A tratti mi arrivava forte alle narici, l’odore di zolfo delle sorgenti termali della val d’Orcia. Seguirono alcune curve nascoste tra i boschi di quercia, e poco dopo, apparvero le mura medievali di San Quirico.

    Un gruppo di cipressi 6, come una riunione tra alberi per formare un boschetto, sorgeva in mezzo a un campo arato. Mi sembrò così strano vederli là, puri e distanti dalla foresta, che cominciai a pensare ai cipressi e a dove vivevano. Non vi erano dubbi che dessero un certo fascino alle campagne, dove venivano usati per parare il vento, o per segnare i confini di una proprietà, o per fare da parafulmine a un podere; e in più, non lasciavano le foglie sulla strada. Ma la cosa più curiosa, è che provenivano dall’Anatolia e che erano stati importati dagli etruschi, e poi dai romani, per il culto dei morti; tant’è che quelle chiome, raccolte in rami elevati a congiungersi verso il cielo, sembravano pregare per le loro anime. Mi venne anche in mente che nei cimiteri, erano soprattutto alberi pratici e discreti, perché nel tenere le radici dritte e all’ingiù, sfioravano i sepolcri senza toccarli. Insomma, compresi che l’utilità di questi alberi, serviva per dare le risposte. Eppure mancava qualcosa, ma poi realizzai, ciò che non tornava, è che non avevo mai visto boschi di soli cipressi. Ma allora, per quale strano destino c’era un boschetto di cipressi in mezzo a quel campo? Perché delimitavano un cerchio quasi perfetto? Con qualche ragionamento arrivai a ipotizzare che si trattasse di un rimboschimento, fatto in quella parte del terreno troppo sassoso per la semina, e che, in seguito, avesse preso quella rotondità dal movimento dei trattori che gli giravano attorno. Però non capivo perché avessero scelto di piantarci dei cipressi. Sarebbe stato molto più semplice lasciare il terreno incolto aspettando che gli arbusti spinosi, e poi le giovani querce cresciute sotto la protezione di essi, si fossero innalzate fino a superare i caprioli. Poi mi venne in mente che un contadino, in certe giornate che ritiene favorevoli, posa la zappa e si mette un fucile in spalla. Ecco allora che quel boschetto in un poggio a dominare i campi, poteva averlo fatto per andarci a caccia, o addirittura, come mi hanno raccontato quelli del paese, per prendere gli uccelli nelle reti nascoste fra i cipressi; quindi, quel boschetto poteva essere stato un roccolo 7. Mi è sempre piaciuto fare supposizioni e cercare il perché delle cose. È così che il paesaggio diventa per me meno banale, si arricchisce di fascino e assume un significato

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