Abubakar
By Paolo Abbate
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Abubakar - Paolo Abbate
Namibia
Intro
Il serbatoio è pieno e caldo, il rombo è corposo e vorace di asfalto. Il vento senza ossigeno è comunque un piccolo aiuto alla sopravvivenza, fa troppo caldo per indossare il casco, è integrale, ma tanto non so neanche se funziona a queste velocità. Sono stufo di regole inutili che imbrigliano la fantasia e che limitano il godere della vita.
Questo è finalmente il giorno con la mia moto. Farà anche caldo ma è troppo forte il desiderio per lasciarla dormire nell’afa di questa estate. È la Ducati Streetfighter 848. Significa che la mia moto non è una moto, è la moto. È bellissima. È stata da sempre il mio sogno.
Le macchine sembrano lumache che non hanno idea di quanto sia bello vivere il mondo a 180 chilometri all’ora. Servono perché sono divertenti birilli da superare a zigzag. Voglio far sentire l’odore degli scarichi per poter lasciare un ricordo da apprezzare. I bambini romperanno le scatole ai disprezzanti genitori per volere pure loro, appena possibile, il fulmine a due ruote. Sono il mito di tutti i ragazzi obbligati su questa tangenziale al carcere viaggiante dai vetri chiusi e aria condizionata. Tra poco ci conosceranno, sapranno che la loro vita deve cambiare, devono saltar via da questo scivolo verso il disastro della non-speranza.
Limite settanta. Puah. Solo per deficienti. Per chi è in gamba e ha il mezzo non ha senso passeggiare a 2000 giri al minuto.
Nessuno oggi può tenere il mio ritmo. Che belva. Ruggisce sotto di me, vuole essere liberata. Oggi è il giorno della tua libertà. Oggi è il giorno della mia nuova vita. Più assaporiamo l’incontro con le barriere del contagiri, più vogliamo superarci.
Uno scooterone sulla destra. Ridicoli. Devo farglielo capire. Mi metto dietro e faccio l’elastico. È un ruggito a una preda incapace di rispondere. Guardo attraverso gli specchietti dello scooter e vedo paura, è l’emozione che cercavo, il limite tra la mia ruota e quel ridicolo culo illuminato è sempre più sottile. Mette la freccia ed esce ad Agnano. Si ritira. Che doveva fare? Avrebbe dovuto starsene a casa. Oggi mi rendo conto di essere veramente bastardo e cinico, forse è il bolide sotto di me che mi ha cambiato. Forse è solo la voglia che ho dentro di me di cambiare questo mondo, e chiunque mi sembra solo un personaggio passivo di una volontà che fino a oggi ci ha macchinato e incantato.
Ecco il casello. La chiamano società civile. Bah. E mettono muri pure a pagamento. E dove vanno i soldi? Non di certo sulle strade. La tangenziale è come il Limpopo, asciutto se c’è il sole, un tumultuoso fiume quando pioviccica. Ho bisogno di un pollo per il telepass. Rallento un po’ e puntualmente eccolo, si vede da un miglio che si spara le pose, automobilista del cazzo con il telepass, vedi come ti inculo.
Eccomi subito dietro di te, a miseri ottanta orari, passiamo insieme e non te ne sei neanche accorto. Oggi ho annerito la targa, la mia nuova vita inizia infrangendo la legge degli incantatori, sono regole che saltano e tra un po’ lo sapranno tutti.
Rieccomi a far gridare la moto, subito a 190, nera, indomabile.
Ah, due auto che giocano a sorpassarsi, una sull’interno e una sull’esterno, una goduria farli sembrare dei pivellini. Devono capire che sono il frutto di una società di merda, che fanno i fichi ma c’è sempre un peggio che non conosci e che può abbracciarti. Mi metto in mezzo e sto al loro ritmo. Mi giro a sinistra e vedo una ragazza annoiata dai giochini infantili del suo ragazzo. Mi vede e capisco che mi desidera, capisce che il suo ragazzetto è solo un bambino in confronto a me. Mi giro dall’altro lato e vedo una testa rasata bionda che mi guarda stupito. Non sa che voglio e questo lo intimorisce. Non mollo, sto lì al centro e freno quando rallentano, spingo quando accelerano. Sento le due macchine che cercano di allargarsi per invitarmi ad andare via. Non hanno capito un cazzo. Sono lì. La strada davanti è ancora vuota, c’è ancora tempo. Stringo a destra e la testa rasata va verso il guardrail, ora ha paura. Stringo a sinistra e vedo la ragazza che comincia a menare il ragazzo, probabilmente implorandolo di smettere. Forse è l'istinto animale del più forte, ma è la soddisfazione della consapevolezza, non possono dare nulla per scontato. Rallentano. Ma i loro sguardi sono ancora impauriti, hanno perso, invece capendo potevano vincere.
Impenno e spingo al massimo, via. Per poco non decollo dall’asfalto quant’è la furia della moto.
Uscita Monteruscello. Ci abita un amico. Settimana prossima vado a trovarlo, gli faccio vedere questo gioiellino, in fondo è un po’ anche suo, visto che è tra quelli che me l’hanno regalata. Ancora sulla ruota posteriore supero una Opel grigia, ennesimo ammasso di metallo mal fuso. Soprattutto devo cominciare a coinvolgere tutti, devo spiegar loro il movimento, gli obiettivi e il grande inizio di domani a Roma. È lì che sto andando, inizieremo dal centro virtuale del potere. Non che importa molto ciò che si decide nella capitale, ma ha una visibilità enorme e ci permetterà di farci notare e di spiegare a tutti che un mondo libero è possibile e dipende solo da noi.
Sì, comincerò dalla mia storia, in fondo è una come tante, ma sono le mie esperienze che mi hanno aperto la mente, è la mia vita che, anche se nella disavventura, mi ha dato la forza di rialzarmi, sempre, e di vedere una possibilità di uscita. Sarà inevitabile, sarà un’onda inarrestabile entrare nel movimento e diventarne parte attiva.
Con l’occhio destro, come di istinto mi giro e vedo un grosso camion entrare senza chiedere permesso.
Il botto.
Vastus animus immoderata, incredibilia, nimis alta semper cupiebat.
Il suo animo insaziabile desiderava sempre cose smisurate, incredibili, troppo alte.
[Sallustio]
Mokar
Canto, note acute che vibrano nello spazio aperto della savana. Sembra che i cespugli sentano la mia voce muovendosi a ritmo con quelle foglie magre per il troppo sole. Non c’è limite dove posso arrivare, non c’è limite dove posso guardare, è l’infinito.
È il sole calante che mi ispira, sono sicura, quel sole che lentamente lascia il posto all’umido della notte, che con i raggi bassi crea ombre divertenti, che mostra quel cielo azzurro con fasce rosa, no sono viola, che incanto.
È lì che canto, è lì che mi libero, sento che questo posto è mio, che la vita riprende dopo il caldo afoso del giorno. È ora che la vita riprenda dopo essere stata nascosta per ore. Tutto nasce tutti i giorni, tutto in questa terra polverosa riprende. Finalmente. Aspetto.
Mi piace guardare sotto il baobab dalle vene incrociate tutta la vita che riprende, c’è una pozza d’acqua enorme nelle vicinanze. È lì che tutti vanno. Riconosco subito il vuoto che circonda il branco degli elefanti. Mi dà un fastidio dover sopportare quella fisica prepotenza verso gli altri. Di acqua in questo periodo ce ne è in abbondanza, per tutti. Invece lasciano intorno il vuoto e non vogliono nessuno che possa odorare il loro il pelo. Mi fa impazzire d’invidia invece la giraffa, così alta e così femminile. Quando beve, muove quelle gambe minuscole che sembrano spezzarsi, incrociandole. Secondo me è pienamente consapevole della bellezza del gesto, sa di essere elegante. Come tutte nei momenti di vanità, non le importa di soffrire. E lei soffre per bere, ma non se ne cura come se fosse un movimento naturale e addirittura rilassante.
Abbiamo preso un’abitudine, rivedersi sotto il baobab dalle vene incrociate. È bellissimo, così fermo nel vuoto. Non riuscirò mai a capire come hanno fatto a pensarlo, solo il creatore può aver manipolato il legno a formare quell’intrico di radici e rami. Imponente, è la strada per tutto e tutti.
Ed ora eccolo arrivare. Quel sole calante che lo bacia da lontano sembra spingerlo verso di me. È maestoso nel senso della regalità che vive dentro di lui, in come si muove, in come tutto sembra guardarlo, nel modo in cui l’erba si abbassa prima del suo passaggio. È la natura che abbassa lo sguardo pur sbirciando per non lasciarselo sfuggire.
È Mokar. E io sono Abubakar. Spesso mi prendono in giro per il nome maschile ma a me piace. Mio padre l’ha voluto, voleva probabilmente un cucciolo a cui passare la propria storia. Ma questo mi ha reso solo più forte e consapevole che esisto perché ci dovevo essere nonostante tutto.
Finalmente
è la prima parola che riesce a dirmi appena capisce che può essere ascoltato. Ha sempre avuto un approccio goffo, è anche per questo che sento di amarlo, sento che potremo stare insieme per tanto tempo.
Andiamo anche noi verso la pozza d’acqua. Sento gli sguardi delle iene, eterne nemiche. Non sono mai riuscita a scambiare neanche una parola con loro. Sono diffidenti, non si lasciano avvicinare, anche quando sono in gruppo. Non penso sia per paura. Hanno le loro regole e le sentono come leggi non violabili. Una di queste è non parlare con noi. Noi tutti li prendiamo a esempio negativo per il peggiore dei comportamenti, rubare le prede degli altri. Ma io comprendo che lo fanno perché è loro tradizione, non perché sono cattive. A me prendono per pazza di tanto in tanto. Invece capire gli altri secondo me serve a costruire il nostro modo di vivere in maniera più serena. Le considerano anche sporche e brutte. Ma secondo me è un travestimento, proprio per rendersi capaci di allontanare il cacciatore senza lottare e prendersene il cibo. Ci hanno provato in tanti a cambiarle, a obbligarle a procacciarsi da mangiare lottando come tutti, ma alla fine sono morte di fame. Che fine orrenda, e il passaparola ha reso leggenda. Ora qualunque iena sa che il mondo che la circonda la vuole diversa, e ciò rende il loro gruppo ancora più chiuso, e nessuno può entrarci.
Chi invece è talmente potente da non curarsi minimamente di noi sono quei brutti ceffi dei bufali. Viaggiano sempre, dalle foreste alle pianure, dalle pianure alle foreste, a passo lento, sempre in gruppi numerosi. Ed eccoli infatti che arrivano. Sguardo sempre alto, fingono di non sentire nessuno intorno ma guardano e sanno di esser guardati. Sono in realtà carne per noi, ma ostentano sicurezza. Il loro flemmatico movimento è per tutti la volontà di mostrarsi come non sono. Indipendenti e forti. Ma basterebbe poco per creare invece uno scompiglio da alzare nubi e nubi di polvere. Ho degli amici tra i bufali, una volta avevo parlato con loro sul modo di essere. Il bello è che non avevano la più pallida idea di quello che dicessi. Non accettavano minimamente le mie osservazioni. Già il fatto che parlavo con loro, era la prova che tutto quello che dicevo era fuffa per farli distrarre e poi attaccare. Mi ci è voluto tanto per entrare veramente in contatto con loro. Ovviamente solo con quei due che mi hanno dato fiducia o che hanno capito che ci può essere qualcosa, oltre a essere forzatamente nemici nella catena dell’alimentazione. La prima loro curiosità è stata capire cosa provassimo noi quando attaccavamo animali inermi che avevano il solo desiderio di masticare l’erba della savana. È una domanda che mi sono posta anche io. Ovvio. Al primo