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Power story - the beginning
Power story - the beginning
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Power story - the beginning

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About this ebook

Power è un gran bel ragazzo.
Ha quasi vent’anni e potrebbe fare grandi cose, ma la sua vita si divide tra l’odiata facoltà di Economia e l’insostenibile peso dei pomeriggi trascorsi nella sua camera affrescata, con la testa schiacciata sui libri di finanziaria, cercando di dar a malapena il secondo esame.
L’unico lato positivo della sua vita sono le nottate trascorse nelle discoteche di Milano e dintorni, folli serate scandite da musica assordante, modelle, e vestiti di Armani.
Ma il ventisette ottobre del millenovecentonovantotto la sua vita iniziò a cambiare, per non tornare mai più a esser quella di prima, colpa di suo fratello e di una ragazza tanto bella quanto pericolosa.
LanguageItaliano
Release dateFeb 11, 2014
ISBN9788868856038
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    Power story - the beginning - Giovanni Swich

    Nota

    L’INIZIO

    Incominciò tutto il ventisette ottobre millenovecentonovantotto.

    Da quel giorno la mia vita non fu più la stessa.

    Ore sei e quarantacinque.

    Entra in camera mia madre, con passo svelto, oltrepassando la grande e polverosa libreria, diretta al letto di Antonio, ancora in un sonno profondissimo, la bocca umida, semichiusa, il capo spettinato coperto all’altezza dell’orecchio dal chiaro lenzuolo azzurro.

    -  Antonio, Antonio…, forza è ora…, - naturalmente, non avendo alternativa, mi sveglio anch’io, dovendolo accompagnare, per l’ultima volta, in stazione. Palpebre degli occhi come saracinesche incriccate e senza lubrificante.

    Deve essere in Università a Milano per le otto e mezza.

    E’ un grande giorno, si laurea.

    Sbrigo al volo le solite abitudini del mattino, per indossare almeno un aspetto decente, visto l’ora del risveglio, da turnista.

    Guardando dalla finestra di camera mia mi accorgo di quanto è terso e limpido il cielo, sembra una giornata d’inizio giugno. Solo qualche cirro filamentoso se ne sta sopra il cedro del Libano a fissarmi.

    I giardini delle ville vicino non sentono l’arrivo dell’autunno, il verde domina ancora e il decadimento del ciclo stagionale sembra nascosto, al di là dell’alta e fitta siepe di agrifoglio incastonata nel tappeto verde perfettamente rasato.

    Con l’aiuto di un buon binocolo e della luce così intensa, riesco persino a vedere la Madonnina in cima al Duomo e la Torre Velasca. Milano.

    Saluto mia madre, mentre prepara la colazione. Attraverso la sala da pranzo, con addosso la vestaglia blu in cashmere, dono di mio padre per Natale dello scorso anno.

    -  Sbrigati cazzone, ti aspetto in macchina. - urlo a mio fratello mentre lotta assiduamente con il nodo della cravatta (Burberry) davanti allo specchio del bagno, i faretti alogeni posti ai lati dell’ampio specchio puntati sul collo sotto lo sguardo fiero di mia mamma.

    -  Fottiti. – risponde con la fronte sudata.

    Scendo lo scalone del settecento, stucchi restaurati maniacalmente e colonne di marmo sabbiate e tirate a lucido con perfetta cura. Sgattaiolo dal portone in legno e corro attraverso le Azalee con la faccia in fiamme e non capisco come mai mi ostino a far lampade ogni giorno, ma una giustificazione plausibile stenta ad arrivare: melanoma, basalioma, invecchiamento precoce della cute, congiuntivite, tutte stronzate, proclami di medici del cazzo. I primi ad essere perennemente scuri in viso.

    Abbronzati si sta meglio, non ce ne sono di palle, e se poi se hai qualche ruga non importa, fa uomo con esperienza, quello che conta è il presente, non il passato nè tantomeno il futuro.

    Ore sette e trenta. Mio fratello non si vede ancora, il treno è alle sette e trentasette e a quell’ora la statale è un imbuto colmo di traffico, e per arrivare in stazione dieci minuti abbondanti non sono abbastanza.

    Finalmente lo vedo sbucare dal portone di casa, in un vestito grigio di LoroPiana, ben pettinato con la valigetta in pelle marrone Bottega Veneta nella mano destra e l’impermeabile grigio di Zegna nell’altra, ai piedi un paio di Tricker’s nero opaco.

    -  Muoviti sono in ritardo. - e io, ingranando la prima:

    -  Fanculo, dovevi fartelo ieri sera il nodo alla cravatta. - sorpassi stra-azzardati, semafori rossi e stop violati senza timore, clacson urlanti come pitbull isterici, la stazione di Cernusco Lombardone compare davanti ai nostri occhi ancora assonnati come la Mecca davanti a Maometto.

    Cernusco Lombardone, ma che cazzo di nome é?!

    Mentre scende dalla macchina le porte cigolanti delle carrozze del treno si spalancano, lo guardo con ammirazione e gli dico:

    -  Ci vediamo dopo, stai sereno. – riparto, ma un picchiettio improvviso sul finestrino mi fa voltare di scatto in preda la panico:

    -  Power! Che sorpresa! Ciao, come stai? Non riesco a crederci. – Sai, amico lettore, quando pensi che non incontrerai mai una persona ad un determinato orario, in un determinato luogo, soprattutto in una frazione di tempo così breve, e invece accade così, senza un motivo, e non riesci a comprendere il perché.

    -   Manu?! Che sorpresa ragazza, ma che ci fai qua? - domando trattenendo uno sbadiglio trasformato in una bolla d’aria singhiozzante.

    -  Vado a Milano, in Università a dare un esame, è già il secondo appello, ma non mi sento ancora tanto preparata…- continua fantasticando di essere una strafiga.

    -   Come al solito. Tesoro, guarda che è finito il tempo del liceo e delle limonate con gli sconosciuti sulle scale di servizio sotto la pioggia.- alzo un sopracciglio e la squadro, le tettine stranamente ancora acerbe sotto la camicetta bianca appena inamidata da scolaretta.

    -   E tu, come al solito, sei lo stronzo di sempre!- sorride ricordando i bei momenti.

    -   Sweet dreams?! Ragazza, forse sbaglio…ma non sei stata pluricannata, in prima e poi in terza? E’ inutile che hai infilato quella camicetta da prima banco…ehm, diciamo che sono un attento osservatore della carriera scolastica dei miei vecchi coinquilini di classe.. non che fossi Heisenberg, certo, ma almeno avevo, anzi ho, una buona memoria.. sai chi è Heisenberg? Ma non sai un cazzo. – strabuzza gli occhi impallidita. Mi giudica un minorato mentale.

    Dai tempi del liceo ha un aspetto più gradevole, probabilmente la camicetta (comunque dozzinale) e non più la maglietta del Che, le dona un’aria da impiegata succhiatrice, del tipo: prima di prendertelo in bocca mi levo gli occhiali e li appoggio sulla scrivania in fianco alle bolle di trasporto.

    -   Visto che sei così saggio, la tua carriera universitaria da economista come prosegue?- asserisce, glissando la mia domanda su Heisenberg, cercando di mettermi in difficoltà.

    -   Ragazza, ho dato nove esami, sai quelli più complessi, matematica generale, economia aziendale, diritto pubblico, li ho passati tutti al primo colpo…ma tu, piuttosto, voti ancora comunista? - praticamente sono già laureato.

    -   Bravo.., ascolta devo lasciarti, sai, altrimenti perdo il treno e l’esame, sei sempre un gran figo. Anche appena alzato, magari ci sentiamo e una sera usciamo a ber qualcosa, chiamami…- mi accarezza la mano e corre verso la carrozza. Il capostazione annuncia la partenza con voce metallica.

    -   Magari…- ma non ho nemmeno il numero del suo cellulare.

    Dopo aver realizzato di averle raccontato un mucchio di stronzate sui miei esami, mi ritrovo di nuovo sulla statale supertrafficata da camion di ogni genere diretti verso la Svizzera. In verità ne ho dato solo uno, tentandolo ben due volte prima di passarlo con un misero diciannove.

    All’incrocio della Comit svolto a destra imboccando il Viale Verdi, quartiere Bronx di Merate, squallido e grigio anche in una giornata così splendente. Sacchi di spazzatura trabordanti di rifiuti di ogni genere disseminati come primule appena fiorite. Un marocchino su una centoventisette latte e menta mi taglia la strada senza rispettare lo stop.

    -  Testa di cazzo!! – non si accorge nemmeno di me. Non vorrei mai abitare in Viale Verdi.

    Mi ritrovo in piazza Prinetti, centro degli interessi del paese e dei brianzoli, che fanno affari anche alla domenica mattina, col Campari in mano, tra una bestemmia e l’altra.

    Dopo aver infilato l’auto nel box, mi arrampico per lo scalone di gran fretta.

    -   E’ andato? – domanda mia madre con l’asciugamano bianco di Frette in testa avvolta da una nuvola profumata al gelsomino.

    -   Ha preso il treno per miracolo, come al solito era al limite. Che buon profumo, che shampo hai comprato? Non è il tuo solito, o sbaglio? - seduto al tavolo stile impero posizionato al centro della sala da pranzo agguanto una fetta biscottata integrale iniziando ad imburrarla, indeciso se spalmarci la marmellata di fragole o di arance.

    -   Non c’è la marmellata di lamponi? E il pane di segale? E’ finito?- borbotto con disappunto.

    -   Quello che c’è lo trovi sul tavolo, devo andare all’Esselunga nei prossimi giorni, – vaga dal bagno allo spogliatoio, indecisa nei movimenti, nervosa nel tono di voce.

    -   Ma che cazzo! Sapete perfettamente che la mia preferita è quella di lamponi!! Ve ne fregate…lasciamo perdere..mi ci mancava alzarmi così presto. - ed è vero, vado matto per la confettura di lamponi, è la migliore.

    Terminata la colazione mi trovo spaesato sulla scelta del vestito da indossare, e questa incertezza mi spacca il cervello.

    -   E’ stato bravo tuo fratello, mi auguro che sarà ripagato per tutta la fatica e l’impegno messi per gli esami, la tesi, il diploma di pianoforte, tutte le sere con la testa china sulla scrivania a studiare anche dopo cena…impara da lui, invece di pensare solo a divertirti e alle ragazze, se vai avanti così… - Mia madre e la solita storia di mio fratello, modello da imitare e seguire, un figlio che tutte le madri sognano avere in casa, un dono del Signore. Meglio di me, sboccato e menefreghista col mondo intero. Ma che cazzo me ne frega, tanto vado avanti per la mia strada.

    -   Senz’altro sarà ripagato. - risponde mio padre leggendo una delle sue solite riviste culturali con al naso un paio di occhiali canna di fucile rettangolari Armani, e continua: - Dobbiamo muoverci, in tangenziale ci sarà un casino pazzesco, e poi bisogna ritirare la tesi dal rilegatore, non so bene dove.., Antonio me l’ha spiegato ma non ricordo bene..- e ripone sul tavolo il plico di fogli che sta analizzando.

    -   Scusa un attimo, non per rompere i coglioni, ma non dobbiamo incontrarci in Festa del Perdono alle due di questo pomeriggio?! Cristo Santo, sono solo le otto e mezza, ci vorranno venti minuti per andare a Milano!- sbraito mentre penso al vestito da indossare.

    Torno in camera e mi siedo un attimo (ma proprio un attimo) alla scrivania. Alla vista degli appunti di finanziaria, l’esame più complesso, bastardo e noioso di tutto il corso di Economia cerco di trattenere un conato di vomito.

    Scartabello in mezzo a quei fogli orrendi e scarabocchiati di formule, indici di capitalizzazione, attualizzazione, matrici, vettori, procedimenti vari. Porca troia, chemmerda.

    Cerco di riordinare, elaborando una cronologia alle lezioni seguite, scansando almeno mia madre mugugnante nella zona giorno. Ricordati, un po’ d’ordine nelle cose significa soprattutto ordine mentale. I soliti detti del cazzo.

    Al momento mi martella in testa solamente il pensiero di come vestirmi, l’indecisione se mettere il vestito di seta di Bardelli, nel qual caso sarei stato scambiato per uno dei laureandi, oppure scegliermi una giacca sportiva e un paio di pantaloni magari un po’ più eleganti, non avendo idea della tinta della camicia. E poi la cintura, quella di Armani o Versace, le scarpe, Paciotti, Lotus, o Church’s. Mi trovo smarrito.

    Non avendo una risposta istantanea chiedo consiglio a mia madre, che non mi sente nemmeno, troppo impegnata a decidere il suo tailleur.

    Dopo quasi un’ora di profonda riflessione decido di mettermi un paio di pantaloni spigati di Versace, colore grigio scuro, molto sobri, di classe, abbinati sempre a una cintura di Versace comprata quando lo stilista era ancora vivo, probabilmente la più bella da lui disegnata, nastro di cuoio nero opaco, altezza quattro centimetri, con fibbia di chiusura in metallo cromato e medusa in rilievo.

    Per la camicia ne scelgo una di Bagutta, azzurro chiaro chiaro, quasi bianco, con polsini da chiudere con gemelli (in oro bianco, di Cartier, presi in prestito a mio padre) molto elegante, e come giacca afferro quella di un abito Armani. Blu, in misto seta, sportiva, adatta a tutte le occasioni.

    Dalla scarpiera decido per un paio di scarpe di mio padre, classiche, marrone scuro, fatte a mano da un artigiano di Firenze, dal prezzo non identificabile e prima di infilarle le lucido con un panno blu di Prada trovato su uno scaffale in lavanderia.

    Scelgo il Barbour carta da zucchero, per evitare di prender qualche colpo di freddo alla gola, informale e classico, non proprio il mio stile, ma senz’altro adatto all’avvenimento.

    Noto di fronte all’enorme specchio del bagno di esser quasi perfetto, tranne un ciuffo di capelli leggermente fuori posto, sistemato al volo con uno spruzzo di lacca Biopoint. Infilo il Daytona e spruzzo un pò di Le Male di J.P.Gautier, anche se in verità mi verso addosso metà uomo verde forzuto.

    Entra in anticamera mia madre, in un tailleur grigio scuro di Fontana, sotto una camicetta bianca Armani in seta, leggermente scollata. Porta il suo collier in diamanti e zaffiri, dono di mio padre il giorno della mia nascita, uno splendore, luminoso come il sole surreale che illumina il nostro piccolo mondo dorato. Sul rever della giacca una spilla raffigurante il labirinto di Minosse, in oro giallo con al centro un brillante scintillante, anche quella regalo di mio padre.

    E’ ancora molto bella mia madre, non dimostra affatto i suoi anni. I capelli, naturali, castano chiaro, non sentono il passare del tempo, e, nonostante le sue coetanee, stronze e invidiose, si tingano da una vita, e siano iscritte tutte a Figurella, a lei un barlume di vecchiaia sembra uno sconosciuto vagabondo in cerca di fissa dimora.

    Mio padre, invece, completamente bianco, mi sorpassa in altezza di tre centimetri (sono uno e ottantaquattro) ed è anche lui un uomo bellissimo. Abbronzato, ma non lampadato (anzi odia i centri abbronzatura, dicono siano da parvenù). Le ragazze lo guardano, gli occhi azzurri risaltano subito sul viso dorato dal sole.

    -   Che scarpe metti?- le domando

    -   Quelle che ho comprato da Gucci per andare a New – York lo scorso inverno – s’infila un anello di Tiffany in oro bianco e diamanti.

    -   Ma non c’entrano un cazzo- mugugna mio papà dalla sala da pranzo

    -   Impara a farti gli affari tuoi, impicciati delle tue scarpe, non delle mie.- lo secca di scatto e si volta nella mia direzione.

    -   Anche se a pranzo non saremo a casa, bisogna andare a prendere il pane per stasera. Io di sicuro non ho tempo per andarci, vai tu?- Col capo accenno a un sì impercettibile, e in meno di un secondo sono fuori casa.

    Sento i passi rimbombare sul selciato, nella via poche persone di passaggio, e non vedo nessuna donna attraente.

    Non che a Merate fosse una novità.

    Il mio sguardo sfiora il cancello in ferro battuto di Villa Belgioioso, una delle tenute storiche più glamour della Brianza, con tanto di parco secolare, e mi accorgo che le porte finestre sotto il portico sono spalancate. Tendaggi antichi di fregi pregiati in oro e velluto rosso svolazzano nel vento colpiti dallo sciabordio della luce. Al di là di esse solo il cielo azzurro, così vivido che mi sembra per un momento di vedere il mare dell’isola d’Elba. Come dalla nostra terrazza alla Biodola. Rimango sconvolto dalla bellezza dell’istantanea.

    Giunto in Cooperativa, luogo di ritrovo e pettegolezzo di tutte le donne meratesi, punto dritto al bancone del pane. Vedo una fila della Madonna, e realizzo che sono appena le nove e trenta. Ma si sa, le contadine si svegliano alle quattro e, come le galline, cenano alle diciotto e vanno a letto un’ora dopo. Sanno parlare solo il dialetto stretto e guardano con diffidenza, giudicando estranei e riprovevoli i non – brianzoli.

    -   Tieni Power- la commessa, cappellino Brivio Salumi calzato sulla testa come un goldone perfettamente aderente mi passa il pane e sorride costretta dall’etica lavorotiva. La cortesia prima di tutto.

    -   Grazie mille.- Che culo, ho evitato tutta la coda. Pago con moneta sonante il cassiere Flavio, sordo e ignorante, e rientro subito a casa.

    Al citofono solo silenzio. Riprovo e finalmente qualcuno vede la mia faccia nel visore. Entro sbuffando.

    -  Ma dove cazzo eravate?!- lancio il sacchetto del pane in direzione della cucina, che va a incastonarsi perfettamente nello scaffale della dispensa lombarda.

    -  Stavo passando l’aspirapolvere in camera tua e il papà era in bagno. Quella cretina della Teresa si è data malata- e mio padre paga stipendio e contributi.

    -   Per favore, ma fai i mestieri vestita così?! Ma ce la fai?!- scuoto la testa attonito.

    Mio padre, uscito dal cesso, con il dopobarba di Lancôme ancora umido e luccicante sulla pelle abbronzata, ripete a nastro:

    -   Sbrighiamoci cazzo, siamo in ritardo, sbrighiamoci. – la solita storia.

    -   Che rottura di coglioni.- giornata estenuante all’orizzonte.

    -   Bravo, vai a prendere la macchina nel box e aspettaci in giardino- schiarisce la voce.

    -   Va bene, tanto poi mi tocca stare in giardino come un demente per mezz’ora.-

    La mia predizione si avverò.

    Seduto in auto con la radio a canna aspetto tre quarti d’ora abbondanti finché i portoni dello scalone si spalancano, riflessa nei quadri di vetro la nostra magnolia secolare, e i miei escono diretti verso di me con passo deciso. Cedo il volante a mio padre, e mi rifugio sul sedile posteriore, ammonendo mia madre di star seduta davanti, nella giustizia della parti.

    -   Chi ha spostato la frequenza della radio! Giovanni sei stato tu, adesso come faccio, che tasto deve schiacciare? Cristoooo.- sferra un pugno sul display della radio cd Pioneer.

    Mio padre non hai mai capito un cazzo di radio, computer e quant’altro necessiti una minima propensione all’elettronica.

    -   Lascia stare, già una volta hai cozzato con quella vecchia troia per cambiare stazione, faccio io. Vedi schiacci due volte il tasto band, questo in mezzo, e da fm vai in am. Sto davanti, è meglio.- Non capisco perché le persone di una certa età sono così impacciate e ottuse. Mio padre lo fa apposta per far pesare la sua autorità del cazzo, ce l’ha nel sangue.

    -   Passami i soldi per la tangenziale.- i servi.

    -   Non li ho, chiedili alla mamma, e poi non siamo ancora alla barriera. Non ce la fai proprio più.- sempre più nervoso mi guarda in cagnesco.

    -   Tieni, dovrebbero essere giusti.- alta tensione nell’abitacolo, dalla pelle e dalla radica sprizza vetriolo.

    -   Conviene entrare da Forlanini, forse evitiamo il traffico, e poi si arriva dritti in Festa del Perdono.- dico notando una F355 nero passarci sulla destra.

    Uno con una macchina così può farlo.

    Prossimi al centro fotocopie, per ritirare le tesi rilegate, non troviamo uno straccio di parcheggio e, visto il traffico intensissimo, lasciamo la macchina in doppia fila.

    Mio padre va a ritirare le copie e io parlo con mia madre, ricalcando ancora una volta tutti gli sforzi di mio fratello per conseguire quella maledetta laurea, tutte le sere trascorse sui libri anche dopo cena, tutte le mattine con la sveglia puntata alle sei e trenta per essere in laboratorio, l’alternarsi con il pianoforte per raggiungere il diploma prima della laurea.

    Mio fratello è una persona da stimare e da invidiare, vorrei essere come lui. Ha una volontà e dei coglioni d’acciaio temperato.

    -   E pensare che un anno fa, all’inizio della tesi voleva smettere perché il papà non era stato tanto bene.- ricorda mia madre ad alta voce, la luce del giorno sempre più abbagliante trai i tigli prossimi a perdere le foglie.

    -   Ecco le tesi rilegate, sembra un lavoro ben fatto, anche per il prezzo.- mio padre si ferma a fissare il plico di volumi prima di risalire in macchina.

    Prendo in mano questi libroni, cinque copie, e sulla prima pagina compare il nome di Antonio inciso in stampatello a chiari caratteri color argento. Sotto, in formato ridotto l’intestazione e il titolo della tesi, argomenti per me incomprensibili.

    -   Marcello, prova a vedere se trovi parcheggio vicino al conservatorio, dove c’è il Griffa, poi facciamo un pezzo di strada a piedi.- suggerisce saggiamente mia madre, mentre ci scoglioniamo imbottigliati nel traffico.

    -   Occhio alla merda!- esclamo a gran voce a mia madre quando sta aprendo la portiera per uscire dalla macchina.

    Con una smorfia di orrore misto a sdegno mette in piedi il solito discorso sentito e strasentito sul fatto che i padroni dei cani, e soprattutto, chi vive in città, ha l’obbligo categorico di raccogliere con una paletta gli stronzi che queste bestie lasciano in giro.

    -   Dovessi vedere a Bergamo alta!! Perché non brevetti una turca per cani? C’è più merda lì che nelle fogne, bisogna passeggiare, in punta di piedi. – stranamente fa caldo e anche a Milano l’aria è profumata.

    -   Ma sì, tanto porta fortuna- ribatte mio padre, e io:

    -   Sto cazzo, vai a fare un esame con le scarpe sporche di merda, poi vedi.- Sento vibrare nella tasca destra della giacca lo startac.

    -   Pronto.- rispondo prontamente, con mia madre attaccata al culo per sentire chi è che stressa il suo bambino.

    -   Power!!- in sottofondo Last train home di Pat Metheny

    -   Bollinger!!- dall’altra parte l’unico amico vero e sincero su cui posso contare. Come i ragazzi della Compagnia delle Indie.

    -   Cazzo vuoi?- chiedo allontanandomi da mia madre.

    -   Ho prenotato per il Titanic giovedì sera, cerca di portare delle troie, altrimenti poi ci danno dei culattoni, mi raccomando, non fare il coglione come al solito, altrimenti ti taglio fuori.- un Guru.

    -   Ok, io ci sono, proverò a chiedere a qualche mia amica, anche se non ne ho, cercherò di rimediare qualcosa, al massimo porta quella poveretta della tua portinaia, come si chiamava… Ciaky e quell’altra poveretta, Baby…- inizio a deprimermi.

    -   Barnaki e Baby?! Ma sei scemo, il cavaliere ha appena deciso di licenziarle e ce l’hanno a morte anche con me, comunque proverò a chiederglielo..- riattacca.

    -   Saluti.- rispondo infilando lo startac di nuovo nella tasca.

    -   Chi era? - mia madre incuriosita.

    -   Ma fatti i cazzi tuoi!- esordisce mio padre. Una volta ogni tanto si è premurato di darmi man forte.

    L’INCONTRO

    Sono ormai quasi le tredici e trenta e tutti stiamo crepando di fame.

    Mentre aspettiamo l’arrivo di Antonio dal laboratorio in Bicocca, ci facciamo forza e pranziamo con uno di quei toast cartonati al prosciutto cotto ricavato da spalle olandesi radioattive che ti fanno pagare come un piatto di Beluga. Nonostante l’abbia divorato alla stregua di un lupo affamato da secoli, il languore non si decide a scomparire.

    Ogni tanto lancio occhiate al di là delle vetrine del bar, attirato continuamente dalla luminosità del cielo, dagli alberi vivi e dai colori fulgidi della giornata. Qualche foglia gialla umida sparsa sul marciapiede preannuncia un autunno non ancora conclamato. Scorgo visi di ragazzi allegri con zaini in spalla pronti per seguire i corsi e un paio di marocchini appostati nell’atrio dell’Università in cerca di cannaioli abituè per smerciare fumo a buon prezzo.

    Terminato il breve pranzo, per un cazzo sostanzioso, entriamo in Statale, tra una folla di ragazzi e ragazze con enormi borsoni pieni di fotocopie e libri, (flash, mi vengono in mente al volo i miei lucidi di matematica finanziaria lasciati sparsi e disordinati sulla scrivania.

    Fu la prima volta per me visitare quel posto, e non immaginavo ancora quanto avrebbe inciso sulla mia vita.

    Il chiostro, scolpito da ornamenti barocchi e intarsi così reali da sembrare vivi, colpisce la mia attenzione costringendomi ad un isolamento momentaneo dagli altri. All’interno del quadrato, racchiuso dal colonnato, un prato estremamente curato e incantevole, di un verde che, accentuato dalla luce del sole, risulta fastidioso soffermarsi a fissarlo. Mi ripiglio.

    Strano, vedere ragazzi ultra alla moda (io li batto tutti), in un posto così antico.

    -   Giovanni.- da lontano sento la voce di un vecchio amico di liceo di mio fratello, Andrea, non tanto alto, tendente al buriccio, poverino, con il viso sempre bordeaux, gli occhiali con la montatura in argento, costantemente attento al risparmio e a mettere via quattrini, di cui la sua famiglia ne possiedono un’ ingente quantità. Colpa di una fortunata eredità lasciatagli da uno zio molto ricco, intrallazzone ai tempi di guerra.

    -   Oh, ciao Andrea, come va? Hai trovato traffico?- gli chiedo mentre saluta i miei.

    -   No, ho dormito a Milano, per cui non mi si è posto il problema. Mi sono svegliato con calma, sono venuto a piedi, ho fatto una passeggiata.- notare che tra i beni ereditati spicca un palazzo in Corso Venezia di ventiquattro appartamenti.

    Mi guardo in giro per individuare Antonio, e non è difficile per me rendermi conto che due ragazze mi passano in fianco incrociando il mio sguardo. Mi lanciano un sorriso al rallentatore.

    Attimo infinito, il chiostro non esiste più. Si voltano e proseguono fino ad entrare in un’aula.

    Cazzo, una è proprio atomica, mai visto niente di simile. L’altra sì, carina, ma Lei. Alta, sull’uno e ottanta, senza tacchi, un paio di tette da cardiopalma, talmente grosse e sode da far scoppiare la camicetta sotto al maglione giallo (MaxLara), un culo brasiliano in jeans sfilacciati (D&G) sotto fianchi perfetti. Cristo Santo.

    Probabilmente con la giacchetta mi trovavano ridicolo.

    -   Ciao Giovanni.- non capacitandomi di chi cazzo mi stesse salutando rispondo con un ciao disinteressato, senza nemmeno vedere chi ho davanti.

    -   Ah cazzo, ciao Alberto, scusami ma ero sovrapensiero- non lo vedo nemmeno.

    -  Tuo fratello è già in aula magna? Ah, no, eccolo qua. Ehi Antonio, allora sei pronto?- e gli mette fraternamente una mano sulla spalla destra.

    E mio fratello, per nulla teso: - Sì, Fari è su con la commissione, sono il secondo.- si schiarisce la voce.

    -  Ma dai, è una cazzata, una formalità. Dura neanche dieci minuti, poi vedrai come ti senti libero! Forza. – sorridono entrambi. Io no.

    Questo Alberto, figlio di un ricco gastroenterologo di Buenos – Aires, pare uscito da un film di Kusturika: sandali ai piedi, bermuda rossi quasi arancioni, maglia bianca sbiadita sfrangiata molto zingaresca, capelli corti nerissimi, barba sfatta su una pelle olivastra, occhi neri senza fine, buchi di culo al posto delle pupille. Più di un terrone, un marocchino.

    Il ragazzo, già laureato e dotato di un’intelligenza pressoché geniale, è ricercatore presso la facoltà di chimica al centro Milano Bicocca. Tradotto in parole povere, ha trovato il modo di non far un cazzo a spese della famiglia.

    -   Minchia Alberto! Giovanni, che classe!! Pettinato, abbronzato e vestito così sembri il figlio di Berlusconi! – quale? Penso tra me e me.

    -   Ciao Lorenzo. Tutto bene? Dai, sei dopo mio fratello, spaccategli il culo a quella commissione di vecchi merdosi con la pancia piena!! - Lorenzo, altro cervellone del gruppo, ha il pezzo di carta in mano ormai.

    Alto, robusto, capelli neri con la riga, occhiali rotondi in acciaio, un po’ pallido, nonostante ostenti una gran sicurezza, ha le mani sudate e la testa tremante.

    Ogni tanto mio fratello mi raccontava, durante le cene in famiglia (lo ricordo ancora con il viso stanco e le occhiaie profonde) che ogni giorno, terminato il pranzo, se un panino e una mela si possono definire pranzo, le imprese di Lorenzo. Si chiudeva a chiave in ufficio e dormiva per pomeriggi interi. Non aveva mai voglia di fare un cazzo. Lasciava le analisi che gli spettavano sempre ad altri, e lui se ne andava a dormire in uno stanzino di servizio, su una sedia scassata in formica.

    In questo giorno così importante c’è anche la sua ragazza, Francesca, provvista di un culo gigante che le impedisce di passare tra le porte dell’aula magna. Di viso passabile, occhi neri, labbra leggermente carnose, carnagione olivastra, capelli corvini. Una marocchina sbiadita. Ogni volta che incrocia il mio sguardo mi strizza l’occhio. Pensavo fosse un tic, così la prima volta rimango indifferente. Invece ci sta prendendo gusto. Ma che cazzo, allora è una troia!! Cristo, sei lì con il tuo ragazzo che si deve laureare, uno dei giorni più importanti della sua vita, e fai l’acchiappacazzi con me!!

    Arriva un altro ragazzo, alto poco meno di un metro e sessanta, Alessandro. Vedo i genitori bofonchiare tra di loro e percepisco un accento vagamente meridionale. Suo padre, giallo in faccia, pancia in evidenza, coppola, occhiali scuri, loden cammello di infima categoria. Stento a capire bene cosa mi rappresenti. Forse la caricatura di Totò Riina. Biascica solo cazzate. Ma non lo sto nemmeno a sentire. Fa fatica a reggersi in piedi.

    La madre, anche lei matrona sicula, mi ricorda una delle donne di servizio di mia mamma però vestita a festa.

    Al loro adorato figlio ho piazzato tre mesi prima un Motorola ottomilasettecento dall’incerta provenienza, procuratomi da un mio amico che ha giri strani. Non gli avevo increstato tanto, mi sembra un centello, brasato poi in discoteca con qualche troia.

    -  Come va il cellulare Alessandro? - gli domando prima di salutarlo, notando che ci smanetta sopra nervosamente.

    -  Bene, grazie, solo che ho trovato in memoria dei nomi quando mi avevi detto che era nuovo.- ma che cazzo voleva? L’ha acquistato con il cinquanta per cento di sconto, pecoraio imbecille.

    -  Per forza, ma quelli sono i numeri della mia sim. Sai, prima di consegnarti il telefono ho voluto verificare che funzionasse bene, e non avesse difetti. Aspetta, ti faccio vedere. Dammi qua. - Quante palle. Faccio il gesto di sfilar la mia sim dallo startac per comprovare la realtà dei fatti, ma lui mostra prontamente il suo orgoglio di uomo mediterraneo.

    -  Ma sei pazzo, ciccredo!! Cimmancherebbe, miffido divvoi!!! – m’infila lo startac nel Barbour e mi abbrraccia.

    Mentre mio fratello parla con i suoi amici e colleghi di Facoltà, il Rolex segna le quattordici passate da oltre un quarto d’ora. Presto lo avrebbero chiamato. Mi affaccio dalla balconata e vedo nel chiostro ancora quelle due ragazze in contro luce.

    Incrocio negli occhi Lei, che subito si volta verso l’altra.

    In quel momento sento la testa pompare, il collo della camicia stretto, i polsi gonfiarsi e i palmi delle mani sudare. Sto soffocando, stelle e strisce nel cielo, cedronelle fluttuanti nell’aria da un fiore di Gelsomino all’altro.

    Nell’aula magna ciò che mi colpisce è l’abbigliamento austero della commissione. Tutti indossano toga e parrucca. Deve essere una storia proprio seria, sembra più una laurea in legge, non in chimica. Mi aspettavo di trovare una sfilata di analisti in camice bianco.

    -  Amore, avvicinati, la commissione sta per chiamare tuo fratello- mia madre mi viene incontro, l’ansia dell’attesa sul viso commosso.

    -  E ora tocca al nostro Antonio Duchi, che ci esporrà la sua tesi, frutto di approfondite ricerche, peraltro di notevole interesse tecnico-scientifico, vertente la caratterizzazione di materiali per la realizzazione di congiunzione P-N con caratteristiche I-V modificabili. – applauso.

    Antonio si dirige verso il proiettore dei lucidi, sicuro e sereno.

    Noi tre seduti di fronte a lui in prima fila, i suoi amici in quella subito dietro. Il silenzio si fa improvviso e di piombo. Faccio una panoramica dell’aula e noto con grande sorpresa e soddisfazione quante persone sono presenti per lui. Dalla commozione inizio a smandibolare, ma fingo un attacco di allergia per cui schiarisco la voce e cerco di ripigliarmi.

    Mio fratello, mentre spiega i suoi lucidi tappezzati di grafici, sembra molto sicuro di sè, appoggiato anche dal fatto che il professore con cui ha curato la tesi è parte della commissione. E’ una brava persona il professor Fari, basso, un po’ buriccio (anche lui), con la barba bianca, perennemente paonazzo in viso, quasi sempre filtrato di barbera. Avrebbe potuto tranquillamente essere un alpino piuttosto che un docente di Scienze dei Materiali.

    Durante l’esposizione, riguardante concetti e nozioni a me assolutamente ignoti e incomprensibili, noto che la stilografica Mont–Blanc con cui mio fratello indica le formule e le slides di dati ogni tanto trema. Forse, in fondo, non era poi così sicuro.

    Espone tutto alla perfezione, con precisione e puntualità, e la Commissione è visibilmente soddisfatta. Per il voto occorre attendere ancora che gli altri presentassero la loro tesi.

    Mia madre e mio padre avevano gli occhi lucidi.

    -  Bravo, sei stato bravissimo. Hai visto, il Presidente annuiva continuamente, sei stato di una chiarezza e perfezione impeccabili. - dicendo queste parole mio padre lo abbraccia forte e mia madre fa lo stesso. Aspetto un attimo che si ripigli, poi lo bacio sulla guancia.

    -  Complimenti frocione. – lo abbraccio e sento il suo viso sudato.

    Una miriade di persone sono presenti nell’aula e contare quante siano è impossibile. Alcune ben vestite, con costosi orologi e vistosi gioielli, altre indossano vestiti più classici, sobri, mentre altri, anonimi, senza nessun modo di qualificarli, non c’entrano proprio un cazzo. Marmaglia silente.

    Sono piacevolmente colpito in particolar modo da una elegante signora sulla cinquantina, con un tailleur Burberry (classico a quadrettoni), abbronzatissima e truccatissima, stile Madame Toussot, tinta biondo platino, tendente anche alla bella presenza. Probabilmente se avesse avuto dieci anni di meno l’avrei anche scopata. Anzi sicuramente.

    Sono sbalordito quando la sento esordire brillantemente con un:

    -  Cristo Santo, hai visto che brava la Patri, se gli è mangiati tutti, é proprio brava.- se gli è mangiata tutti?!

    Porca troia, i miei coglioni si sgretolano per terra in frantumi. Non che io sia uno fine o di classe, ma in quel momento mi sto vergognando di essere lì ad ascoltare quella bifolca – stracciona, anche se col tailleur di Burberry. Avrei voluto riempirle la boccaccia di merda.

    Mi riprendo e caccio fuori la testa sulla balconata che si affaccia all’interno dell’atrio della facoltà e in quel momento mi volto, così, spontaneamente, e senza un perché, a destra, e, sorpreso, realizzo che a meno di un metro ci sono ancora quelle due ragazze, in silenzio, con gli occhi puntati su di me.

    Quella non superfiga tiene salda nella mano destra una Polaroid usa e getta, particolare sfuggitomi durante l’incontro fugace precedente nel chiostro.

    Faccio un passo ancora a destra nella speranza di non fare notare il mio interesse (non sono mai stato un morto di figa) per accorciare ancor di più la distanza e vederle meglio.

    Cazzo, Lei è una dea, avrei voluto trovare il coraggio per approcciare, ma non sapevo dove cazzo andare a prenderlo. Stavo perdendo tempo, dovevo agire ma non riuscivo. Mi trovavo bloccato, una statua stalattitica in preda alla soggezione. Gesù non mi stava aiutando.

    Ho la bocca secca, come il letto del Po’ durante i periodi estivi, le orecchie fumanti, rosse e gonfie e gli occhi fuori dalle orbite. Rimango impalato come un qualsiasi pirla per quasi venti minuti a fissare la più strafiga mai vista in vita mia, ormai a meno di mezzo metro circa da me, e non riesco nemmeno a dire una banale frase del cazzo tipo: ciao, tutto bene? Oppure, che bella giornata, non sembra nemmeno autunno o, vorrei poterti cacciar la lingua in bocca e infilartelo da tutte le parti. Stavo diventando un pollice abbassato. Anzi abbassatissimo.

    Dovevo solamente sparare qualche stronzata delle mie, era così semplice, e invece zero, silenzio assoluto.

    -   Giò!- mio padre mi chiama, volto la testa al rallentatore, il collo come un braccio di una gru arrugginita e pronta da rottamare.

    -   Giò, vieni, intanto che aspettiamo di conoscere il voto andiamo con Antonio e i suoi amici sotto al bar a ber qualcosa.- Mi sento smarrito, un blocco di marmo mi comprime lentamente gli organi del basso ventre. Non l’avrei più rivista, forse dovevo agire prima, molto prima.

    Abbandono il sogno e torno alla realtà, la guardo di sfuggita mentre mi fissa e da coglione sempre ubbidiente raggiungo il codazzo gioioso di amici a famigliari per andar al bar. Sempre lo stesso.

    Scendo lentamente le scale, mentre ascolto disinteressato quello che gli altri dicono. Cazzate, cazzate, cazzate. Il mio sguardo punta fisso alla balconata, come un laser ad alta precisione, ipnotizzato, verso le due ragazze che ancora stanno lì a fissarmi.

    -   Antonio, c’è il fotografo, vuoi qualche scatto?- percepisco in lontananza la voce rilassata e distesa di mia madre, come in un bosco gelido e pieno di nebbia. Il profumo dei rovi.

    -   Ma no, vuole più di duecentomila per, mi sembra, venti fotografie, non ne vale la pena- ribatte mio padre.

    -  Per me può anche ficcarsele su per il culo.- concludo alterato. Una signora mi guarda con disgusto, la mano sulla bocca in segno di indignazione. La fulmino in cagnesco.

    Mentre gli altri discorrono ancora su queste cazzo di foto, noto con una spada nel cuore, che sulla balconata non c’è più nessuno.

    Nell’atrio, tra una folla sterminata di ragazzi sorridenti, in preda a scambiarsi appunti, le vedo ancora passeggiare lentamente nella mia direzione. Mia madre costantemente in sottofondo. Bla bla bla.

    A pochi passi da me, prendo come appiglio la prima cazzata che mi salta per la testa ed esclamo, pietoso e ridicolo:

    -  Ah, le fotografe dell’ università!- attendo una risposta fulminea, pronta a farmi vergognare. Sento aprirsi le terra sotto i piedi. E invece mi sento dire da Lei:

    -  Ciao, come ti chiami?- e io quasi ammutolito:

    -  Giovanni, e tu? – non aggiungo nient’altro.

    -  Silvia. Cosa fai qua, ti stai laureando?- mi domanda. Polvere di stelle.

    -  Ma no, magari, ehm, è mio fratello che si è appena laureato in chimica- inizio a sudare di nuovo, una rondine sfreccia in mezzo a due arcate del chiostro.

    Lei, guardando la sua amica, non dice più niente. Aveva esaurito le cazzate.

    Quell’altra rimane muta e un profumo di gelsomino si sparge nell’aria, un rifolo di vento mi sposta un ciuffo di capelli.

    E, insieme all’unisono:

    -  Va bè, ciao- se ne vanno.

    Rimango impietrito, non un numero, né un cazzo di indirizzo.

    -  Giovanni, vieni, sbrigati, che festeggiamo! Apriamo una bottiglia di champagne!!- ancora mia madre. Bla bla bla.

    Lorenzo, spettatore silente della ridicola scenetta mi raggiunge di corsa incuriosito, e, dimentico della fidanzata e dei famigliari esclama:

    -  Cazzo, che fighe pazzesche! Ma di dove sono? Le conoscevi?- non gli rispondo neanche e mi limito a camminare nervosamente, i pugni stretti in tasca sudati e nevrotici.

    Il mio pensiero fisso, un trapano nel cervello, è: - Coglione, devi farti dare il suo numero, non puoi non rivederla!! - l’istinto.

    Vedo che si stanno allontanando molto a rilento in direzione della fermata del metrò, con lo sguardo fisso nei mie occhi. Con passo molto svelto, quasi di corsa scanso un gruppo di matricole puzzolenti di marijuana, le raggiungo di nuovo, la tensione ormai sciolta. Mi lancio, non avevo più nulla da perdere.

    -  Silvia, scusa, puoi fermarti un attimo?- rallentano il passo, si voltano sorridenti.

    Dai capelli una nuvola di Angel si sparge nell’aria.

    -  Dimmi- e io:

    -  No, volevo sapere di dove sei..- e Lei:

    -  Abito qua dietro, in Porta Romana..- noto un leggerissimo accento meridionale.

    -  Non sei di Milano, vero?- domando gentilmente.

    -  No, sono nata a Roma, ma sto a Milano, sai sono iscritta alla facoltà di Giurisprudenza qui in Statale. Comunque lei è mia sorella, Stefania.- non si assomigliano per niente, Lei sicuramente ha meno anni.

    -  E tu, cosa fai di bello, studi in Statale?- mi chiede visibilmente incuriosita, gli occhi attenti e spettacolari in un filo di mascara nero.

    -  No, sono iscritto al terzo anno di Economia e Commercio a Bergamo.- Balla stratosferica, ma necessaria e fondamentale. D’altronde se le rivelavo di aver solo vent’anni ed essere iscritto a malapena al secondo anno di Università mi mandava affanculo all’istante.

    Con molta intraprendenza e grande coraggio le domando:

    -  Ti va di lasciarmi il tuo numero di telefono? Così magari una sera di queste andiamo a ber qualcosa…- o andava o non andava.

    In quel momento cala un gran silenzio. Chissà se Gesù mi avrebbe aiutato..

    Lei:

    -  0348-8295555.- e io continuo a dire :

    -  02..02..e poi?- e Lei :

    -  No, no, è un cellulare, non ho il fisso..0348-8295555.- e io di nuovo:

    -  Sei d’accordo se ti chiamo? Non ti scoccia?- e Lei: - No, ma figurati, anzi. - Registro due volte il numero per evitare di perderlo.

    -  Adesso, scusami tanto, ma devo andare, mi aspettano al bar, sai, genitori, parenti, amici, è stato un piacere, davvero. Ci sentiamo, ciao.- non ho molta voglia di tornare con gli altri.

    -  Ok, ciao, è stato un piacere anche per me.- mi stringe la mano.

    Torno sulla terra, e mi rendo conto di essere completamente stremato, paralizzato dalla fatica spesa per dire quattro stronzate senza senso e imbarazzanti.

    -   Cazzo, ma sei un mito, porca miseria l’hai cuccata con niente, pazzesco!- Lorenzo e Alberto avevano assistito da lontano alla mia performance, ma non si rendevano conto che, come pensavano, non era stato poi così semplice e liscio.

    Dentro al bar sento la testa vuota. Non me ne frega più un cazzo dei miei, del perché mi trovo in quel posto. Chi cazzo sono quelli col bicchiere in mano, la laurea di mio fratello, Lei, una strafiga da paura. Io lampadato, Versace, Bagutta, Armani, Cartier, Daytona, vaffanculo, SL, Gautier, la villa all’isola d’Elba, Portofino, Cristal, Krug, Paciotti, Lotus, Ferretti, Azimut, avrei comprato il televisore al plasma e una casa a Saint Tropez, l’ultima serata all’Holliwood, le troie. Vaffanculo, tanto finiamo tutti sotto terra.

    Sguardi di nuovo a me famigliari e gocce di sudore dalla fronte fino alle gote, realizzo che non mi era mai capitato di chiedere in modo così spudorato il numero di telefono a una ragazza in pieno giorno, in un’occasione così très particulier. Mi sento stordito, ma nello stesso tempo elettrizzato ed eccitato.

    -   Ma dov’eri finito? Chi erano quelle due ragazze con cui ti sei fermato a chiacchierare, cosa volevano? Non mi sembravano a posto e poi ho visto che avevano in mano una macchina fotografica. Sono due troiacce, non ti avranno mica fatto delle fotografie?- il solito istinto salvavita di mia madre.

    -   Ma che cazzo mamma! Stai tranquilla, non hanno scattato nessuna foto, goditi questa giornata, che così, come queste ce ne sono davvero poche, soprattutto per me.- l’abbraccio rilassato.

    Pochi minuti alle diciassette, decidiamo di rientrare in facoltà.

    Di nuovo in aula magna, ma con un’atmosfera totalmente differente, aspettiamo con ansia e trepidazione l’arrivo della commissione.

    Si aprono le porte, in testa al gruppo dei professori capeggia il presidente, sguardo arcigno e severo.

    Dopo essersi seduti, spalancano un enorme registro sul quale si trovano scritti in chiari caratteri tutti i nomi dei futuri laureati e i relativi punteggi.

    Secondo le stime, approssimative, mie e di mio fratello, la sua valutazione doveva aggirarsi intorno al centodue, tenendo conto di tutto l’impegno e la costanza con cui aveva frequentato il corso di laurea, le esercitazioni in laboratorio, le ricerche per trovare i dati della tesi, le prove e gli esperimenti.

    -    Silenzio per favore.- pronuncia il presidente parruccone, la voce increspata dal muco della vecchiaia.

    -  Ora elencherò le votazioni associate ai relativi laureandi, ormai direi, laureati. Dell’acqua Alessandro cento, Provasi Lorenzo 102, Duchi Antonio 110 e lode, Bergamini Patrizia 110…- e continua nell’elencare gli altri.

    Voltandomi verso Antonio vedo nel suo viso una reazione di grande soddisfazione, reazione non esagitata, ma contenuta e di gran classe, degna di un gentlemen.

    Come un lord, con calma serafica, passo lento e sicuro, si dirige verso la commissione e, stringendo la mano a tutti, in particolare al suo professore a cui sorride con grande riconoscenza e soddisfazione, ringrazia e chiude un capitolo importante della sua vita.

    Noto negli occhi di Alessandro e Lorenzo una strana invidia, i visi non più bonari come prima, dimostrata da amari sorrisi e occhiate stronze puntate su mio fratello. Ma a lui credo non gliene fregasse un cazzo, e neanche a me. Anche loro adesso fanno parte del passato.

    Comunque sia, sono fermamente convinto del fatto che se uno ha i coglioni, ma quelli veri, che sia uscito con l’ottanta, col novanta o col cento, i risultati e, soprattutto, i guadagni si vedono dopo.

    Non ho il minimo dubbio che Antonio avesse sotto due palle d’acciaio grandi come palloni da basket.

    -   Antonio, Giò, cosa facciamo?- domanda mia madre sistemandosi la borsa sopra la spalla.

    -  Ma.. adesso saluto i professori e i ragazzi, poi possiamo anche andare.- risponde Antonio con in mano la sua tesi.

    Ho voglia di tornarmene a casa, e, pensando al gran traffico sulla tangenziale vista l’ora, pronostico ripetuti rallentamenti, accompagnati da svariate madonne di mio padre.

    -  Allora, Antonio, complimenti, esposizione chiara e precisa. Sei soddisfatto? Adesso cosa farai?- domanda il relatore di mio fratello. E lui:

    -  Sì, a me interessava prendere un voto superiore al centodue, devo dire di essere molto contento, spero che a giorni mi chiamino per il servizio civile, non ho intenzione di perdere tempo.- bisogna sempre andare oltre.

    Aspettando in disparte che si esaurissero i soliti convenevoli e saluti del cazzo vedo solo gente in grado di dire:

    -  Grazie professore, mio figlio, mia figlia le sono riconoscenti…- tutti ossequiosi.

    -  Ma che cazzo, dico io!- uno si fa un culo allucinante per cinque – sei anni, esami su esami, angosce su angosce, e deve pure ringraziare! Se mai sono i genitori che dovrebbero ringraziare i figli piuttosto che i docenti, Santo Dio.

    Fortunatamente ciò non è accaduto a mio fratello, i miei hanno gentilmente salutato e basta, senza leccare il culo a nessuno. NON E’ MAI STATA UNA NOSTRA PREROGATIVA.

    -   Giò, possiamo andare-

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