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Il venditore di sogni: Racconti fantastici
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Il venditore di sogni: Racconti fantastici

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Il mondo della fantasia, lo sappiamo, è popolato da principesse da salvare e coraggiosi principi azzurri, gufi saggi e maghi onnipotenti. Vi si possono incontrare anche streghe maligne e orchi malvagi, draghi che sputano fuoco e lupi cattivi. Ma non finisce qui, perché nel mondo della fantasia c’è posto anche per enigmisti pazzi, venditori di sogni, bazar di merce preziosissima che nessun altro negozio al mondo propone e altri soggetti ai quali capitano avventure da non credere. O sono sogni? O sogna l’autore? Il mondo della fantasia è lontano da qui, ma intanto, accompagnati da questi racconti, possiamo incamminarci e i loro protagonisti ci terranno per mano nel viaggio immaginario che ci condurrà là. E se il percorso sarà lungo, che importa? Alla fine scopriremo che loro non temono di vivere sospesi tra sogno e realtà e accolgono volentieri i cambiamenti stimolati dalle loro straordinarie avventure. Per ritrovarsi in fondo migliori di prima.
LanguageItaliano
PublisherVio Cavrini
Release dateNov 1, 2013
ISBN9788868558369
Il venditore di sogni: Racconti fantastici

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    Il venditore di sogni - Vio Cavrini

    Il libro

    Il mondo della fantasia, lo sappiamo, è popolato da principesse da salvare e coraggiosi principi azzurri, gufi saggi e maghi onnipotenti. Vi si possono incontrare anche streghe maligne e orchi malvagi, draghi che sputano fuoco e lupi cattivi. Ma non finisce qui, perché nel mondo della fantasia c’è posto anche per enigmisti pazzi, venditori di sogni, bazar di merce preziosissima che nessun altro negozio al mondo propone e altri soggetti ai quali capitano avventure da non credere. O sono sogni? O sogna l’autore?

    Il mondo della fantasia è lontano da qui, ma intanto, accompagnati da questi racconti, possiamo incamminarci e i loro protagonisti ci terranno per mano nel viaggio immaginario che ci condurrà là. E se il percorso sarà lungo, che importa? Alla fine scopriremo che loro non temono di vivere sospesi tra sogno e realtà e accolgono volentieri i cambiamenti stimolati dalle loro straordinarie avventure. Per ritrovarsi in fondo migliori di prima.

    L´autore

    Vio Cavrini, nato a Budrio, paese di origini etrusco-villanoviane della bassa padana, vive da tempo a Bologna dove si è laureato in Fisica. E’ stato insegnante di liceo, informatico, formatore e consulente aziendale. Fin dall’Università coltiva la passione per la fotografia e per i viaggi, con particolare predilezione per l’Africa. Ama da sempre la scrittura e ne ha fatto negli ultimi anni l’attività principale.

    Con la Casa Editrice Polaris ha pubblicato Il confine immaginario, una raccolta di racconti di viaggio.

    Con la Casa Editrice Calderini ha pubblicato (con altri autori) Destini Incerti, un volume fotografico su animali e ambienti naturali da salvare.

    Il venditore di sogni

    Molto, molto lontano da qui, proprio ai confini del Regno, c’era il paese di Tròttenwald. Era tanto lontano e isolato che la strada sembrava arrivarci per caso e non andava oltre. Era come se non ci fosse motivo per proseguire e che oltre non ci fosse alcun posto dove andare. Ho scritto che c’era una strada che portava a Tròttenwald, ma si poteva chiamare strada? Una strada ha i bordi definiti, è fiancheggiata da una siepe o da un fosso, vi s’incontrano i viandanti. Ma quella… tutta buche e fango, qui larga, là stretta… e certamente i viandanti non la percorrevano da molto tempo.

    Le case erano poche. Ma si potevano chiamare case? Una casa ha una porta con sopra un nome, una nonna che fila la lana, le finestre con le tendine, un gatto sul davanzale, una mamma che cucina sul focolare, un babbo che torna dai campi fischiettando e tanti bambini che si rincorrono in cucina. Ma quelle… scolorite, i vetri delle finestre rotti, le porte e i tetti malmessi. Le mamme avevano poco da cucinare, i bambini sedevano a tavola tristi e silenziosi e le nonne erano morte da tempo.

    C’era anche una chiesa. Ma si poteva chiamare chiesa? Una chiesa ha un campanile con le campane che suonano a distesa, un parroco che celebra le funzioni, molti fiori sull’altare e tanti fedeli inginocchiati sui banchi. Ma quella… il campanile era tutto sbrecciato, le campane non c’erano più e il parroco se n’era andato altrove perché i pochi fedeli che entravano lo facevano più per noia che per fede.

    Avreste chiamato strade quelle strade? Ponte quel ponte? Piazza quella piazza? Certamente no! E nemmeno io. E non avreste chiamato cielo quel cielo, perché era sempre grigio e nebbioso, né sole quel sole sempre velato. Cadeva giorno e notte una pioggia fredda e insistente, ma senza gli scrosci che riempiono i fossi e le pozzanghere dove i bambini corrono a giocare. Questo può accadere nel vostro paese o nel mio. Là a Tròttenwald la pioggia scendeva dal cielo di continuo, lenta e inesorabile.

    Dimenticavo di aggiungere che a Tròttenwald, come in tutti i paesi, c’era anche il cimitero. Ma si poteva chiamare cimitero? Sì, quello si poteva chiamare cimitero. Perché c’erano molte tombe con molti nomi e molte date, ma pochi fiori e nessuno che pregasse davanti a una croce.

    A memoria d’uomo la vita in paese non era mai stata felice, perché di sicuro non c’erano motivi per esserlo. Eppure i più vecchi sostenevano che un tempo - cent’anni prima, forse duecento o magari trecento - il paese era allegro, gioioso, povero ma sereno. Ma erano ricordi vaghi, tramandati da vecchi un po’ persi, probabili esagerazioni che nel tempo si erano aggiunte alle cronache lasciate in eredità da una generazione all’altra. E tra quelle che cercavano di identificare l’evento che aveva sconvolto l’esistenza del paese, per fissare nel tempo una pietra miliare dalla quale far partire l’era dell’infelicità, la più lugubre era la storia della peste. Si diceva che a quei tempi c’era stata una pestilenza durata quasi dieci anni che aveva ucciso più della metà degli abitanti.

    Una simile sciagura forse poteva spiegare le dimensioni del cimitero, troppo esteso per un paese così piccolo. Ma la tristezza perenne che sovrastava la gente, la pioggia incessante e la mancanza di senso e di scopo che sembrava avvolgere la vita di tutti, che c’entravano con la peste? Era una domanda a cui nessuno era in grado di rispondere, tuttavia sembrava che la peste, se mai c’era stata, oltre a spezzare la vita di molti, avesse anche spento la speranza dei sopravvissuti, rendendo inutile e vuota la loro vita.

    Non sorprende, quindi, che a Tròttenwald gli abitanti fossero molto infelici, anche perché non succedeva mai nulla di nuovo. E se c’era una strada che arrivava al paese e non proseguiva, significava che nessuno transitava mai da quelle parti. Non un forestiero, quindi, da molto tempo, non un viandante che portasse notizie fresche e potesse ricordare agli abitanti che c’era un mondo oltre Tròttenwald, all’altro capo di quell’unica strada fangosa che arrivava là. E per questo le stagioni si susseguivano una dopo l’altra da tempo immemorabile … sempre uguali… sempre uguali… sempre. Non capitava mai niente di diverso dal solito.

    Ma finalmente un giorno qualcosa di diverso e di nuovo accadde. Il fornaio, mentre attraversava la piazza sotto la solita pioggia ostile, vide in lontananza, sulla strada che portava al paese, un vecchio cavallo trascinare un carro che, da quanto affondava nel fango, aveva l’aria di essere molto pesante. Quando il cavallo raggiunse la piazza, tutti gli abitanti erano già radunati là, sorpresi e curiosi, ma anche molto stupiti. Perché quel cavallo sembrava viaggiare da solo. E da solo, mentre trattenevano il fiato, si diresse con passi lenti e faticosi verso la fontana.

    Anche della fontana devo dire che era difficile chiamarla fontana, perché non aveva nessuna statua al centro che versasse acqua da un’anfora, non c’erano bambini a far galleggiare le barchette di carta, né colombi all’abbeverata. Era un semplice bacile di pietra che raccoglieva l’acqua piovana. Arrivato alla fontana, il cavallo chinò la testa e cominciò a bere, mentre la gente si chiedeva da dove fosse arrivato.

    Ooooh! mormorò la folla quando il carro oscillò leggermente e tutti capirono che non era stato il cavallo. Dentro c’era qualcuno. Osservarono il carro e notarono che appariva molto diverso da quelli che si vedevano a Tròttenwald. Era chiuso ai quattro lati da pareti di legno sormontate da una specie di tetto, anche quello di legno. Assomigliava a una piccola casa su quattro ruote, senza finestre. Sui lati si scorgevano ancora i resti di alcune scritte scolorite dalle intemperie. Bisognò aspettare un po’ prima che si potesse vedere una parete del carro alzarsi di scatto verso l’alto, con gran fracasso, a formare una tettoia.

    L’interno assomigliava a una bottega. Dalle pareti sporgevano molte mensole sulle quali erano in mostra, perfettamente allineati, tanti vasi di vetro uguali nella forma, ma di due colori diversi.

    ‘Un venditore di vasi di vetro a Tròttenwald!?’ si chiesero tutti.

    ‘E’ un miracolo che i vasi non si siano rotti su quella strada’ pensarono molti.

    ‘Quanto costeranno?’ si chiesero i pochi che avevano qualche soldo.

    ‘Chi ha aperto il carro?’ In realtà questo non se lo chiese nessuno, tale era stata la sorpresa.

    Lo scoprirono quando da una porticina posteriore videro scendere un uomo, né giovane né vecchio, magro e molto alto. Non era un contadino come loro, indossava giacca e pantaloni neri e una camicia bianca. In testa portava uno strano cappello a punta, anch’esso nero. Era a suo modo elegante e altero, ma nello stesso tempo dimesso e un po’ sgualcito, come se da un antico benessere fosse precipitato nell’attuale indigenza. Lentamente posò lo sguardo sui presenti con gli occhi arrossati di chi non dorme da tempo, sorrise e fece un profondo inchino. Poi si girò, rientrò nel carro per riapparire subito dopo come su un palcoscenico. Rovistò su una delle mensole più basse e trovò un cartello. Lo osservò, poi sporgendosi in fuori lo appese davanti a tutti su un lato del carro e con un sorriso annunciò:

    A domani. Quindi si ritirò all’interno, abbassando la parete del carro.

    Tutta Tròttenwald posò gli occhi sul cartello e lesse:

    ÁSKERBAN VENDITORE DI SOGNI.

    In paese quella notte nessuno poté dormire e del resto nessuno ci provò. Uomini, donne e bambini si riunirono all’osteria per discutere della novità. E’ chiaro che né io né voi potremmo chiamare osteria quel locale e non sto a ripetermi. Potete immaginarlo da voi.

    Non discutevano se i sogni potessero interessare o quanti comprarne o a che prezzo. Stavano solo domandandosi l’un l’altro cosa fosse un sogno, che aspetto avesse e a cosa servisse. Mi spiego? Nessuno a Tròttenwald sapeva cosa fosse un sogno! E non è strano, perché se uno non ha mai incontrato la bellezza, né provato la gioia, né avuto una speranza e, anzi, non sa neppure cosa siano e non ha mai conosciuto nessuno che ne sappia qualcosa o ne abbia anche solo sentito parlare, è difficile che possa sognare. E, a pensarci bene, anche questa poteva essere una conseguenza della peste.

    Le ipotesi e le congetture occuparono la gente fino all’alba, quando finalmente decisero di chiederlo direttamente ad Áskerban, ribattezzato nel frattempo l’uomo dei sogni. Uscirono dall’osteria e s’incamminarono verso la piazza. Non erano vestiti a festa, non erano più felici degli altri giorni e non si sentiva nell’aria il suono delle campane. Eppure era domenica. Ma é ovvio, quella non si sarebbe potuta chiamare domenica, una vera domenica, ma un giorno come gli altri.

    Quando raggiunsero la piazza, Áskerban era in piedi di fronte al carro che era stato spostato proprio al centro, di fianco alla fontana. Il cavallo gironzolava libero lì intorno e molti ebbero la sensazione che il venditore di sogni avesse intenzione di fermarsi a Tròttenwald per molto tempo. Lo raggiunsero con passo spedito e si disposero in semicerchio intorno a lui. Il sindaco si fece avanti e chiese a nome di tutti:

    Cosa sono i sogni? Come sono fatti?

    Rischio di ripetermi, lo so, ma, per farvi capire come andavano le cose in quel paese, devo dire che quello non poteva essere un vero sindaco, come lo intendiamo noi, perché, primo, non aveva la fascia con i colori della bandiera intorno alla vita e, secondo, nessuno ricordava che ci fossero mai state le elezioni a Tròttenwald.

    Áskerban non sembrò sorpreso della domanda e sorridendo chiese a sua volta:

    Non sapete cosa sono i sogni?

    No. Può mostrarcene uno?

    Mostrarvi un sogno? Ma, gentili Signori, i sogni non si vedono.

    Non si vedono?

    No di certo, come si può vedere un sogno?

    Centinaia di occhi interrogativi lo scrutarono dalla testa ai piedi. Il sindaco incalzò:

    Non si può vedere un sogno? Che significa?

    Che sono invisibili, è evidente.

    La rivelazione colse tutti di sorpresa.

    ‘E questo vende sogni… come si fa a vendere, o comprare, qualcosa che non si vede?’ si chiesero i più arguti.

    Non sapendo come affrontare un argomento per lui troppo complicato, il sindaco commentò:

    Pensavamo che lei vendesse vasi di vetro…

    Oh, no spiegò amichevole Áskerban, quei vasi sono solo i contenitori dei sogni. Io vendo il contenuto.

    I più vicini allungarono il collo verso l’interno del carro per vedere meglio i vasi che a tutti continuavano a sembrare vuoti. Si scambiarono l’un l’altro sguardi interrogativi, come a cercare conferma della visione e alla fine la conclusione fu evidente: in effetti… se i sogni erano rinchiusi nei vasi, erano invisibili.

    I sogni sono invisibili, dunque accettò il sindaco.

    Proprio così confermò il venditore.

    Invisibili come… come… come i pensieri? azzardò uno.

    Sì. Come i pensieri… - quelli che stavano frullando furiosamente nelle teste di tutti - aggiunse Áskerban senza più sorridere. Ma parve rendersi conto che non sarebbe stato facile far loro capire e convincerli a comprare i suoi sogni.

    Avvicinatevi… disse con tono confidenziale, mentre si accomodava sul bordo del carro con le gambe a penzoloni. Tutti fecero alcuni passi avanti, guardinghi.

    Proprio come i pensieri i sogni non si vedono, ma esistono.

    Cercò parole semplici prima di continuare:

    Il sogno è un posto incantato, un luogo magico dove possiamo andare solo quando dormiamo e per raggiungerlo dobbiamo galoppare sulle ali della fantasia. Un posto fatato, dove ogni cosa è perfetta e la felicità è perenne. Questo luogo è molto vicino a noi, anzi è dentro di noi, nel nostro cuore e nella nostra mente ed è il luogo più incantevole del mondo. Perché nei sogni succedono solo le cose belle che desideriamo, sempre, senza limiti e tutte le speranze si trasformano in realtà.

    Áskerban intuiva dai loro sguardi assorti che ancora non capivano e più si sforzava di chiarire, più le sopracciglia si aggrottavano.

    Un venditore esperto, di fronte a quegli sguardi che non conoscevano nemmeno le parole ‘fantasia’ e ‘speranza’, avrebbe riattaccato il cavallo e sarebbe andato a vendere altrove i suoi sogni. Ma Áskerban si mostrava paziente e disponibile e da ciò dobbiamo dedurre che non era esperto, oppure che non era un venditore.

    Tacque di proposito un’informazione importante riguardo ai sogni e cioè che esistono anche sogni brutti e angoscianti. Ma decise che, se qualcuno avesse sollevato questa obiezione, avrebbe risposto che i sogni brutti non esistono e che, se mai, si chiamano incubi. E avrebbe garantito a tutti che lui vendeva solo sogni belli.

    Nella piazza le spiegazioni e le domande continuarono fino a mezzogiorno, in tono sempre più confidenziale, ma in una confusione crescente. A poco a poco gli abitanti del paese cominciavano a farsi un’opinione personale sui sogni e così le discussioni si moltiplicavano. Gruppi di tre, quattro o più persone approfondivano in proprio l’argomento e lo spiegavano ai nuovi arrivati. Vista da sopra il carro la piazza era tutta un brulicare di uomini e donne che, nello sforzo di spiegare e farsi capire, dimenavano le mani e le braccia in tutte le direzioni, come indemoniati.

    Possiamo provarli? si udì.

    La domanda smorzò di colpo ogni voce e la piazza piombò in un profondo silenzio d’attesa. Tutti guardarono nella stessa direzione e, dal suo imbarazzo, capirono che a parlare era stato il bambino più intelligente della scuola. Beh, chiamarla scuola, ancora una volta, è esagerato: la vecchia maestra con il grembiule nero se n’era andata, nessuno cancellava più la lavagna, le lettere dell’alfabeto appese alla parete non erano ben ordinate dalla ‘a’ alla ‘zeta’ e mancavano i gessi colorati.

    Áskerban non si lasciò sfuggire l’occasione:

    Certo! Provare è meglio che fidarsi della mia parola. Sono qui per venderli, i sogni. Si voltarono di nuovo verso di lui e per la prima volta alcuni credettero di scorgere nel suo sorriso una specie di ghigno.

    E quanto costano? intervenne il sindaco, ansioso di riprendere la parola e di riconquistare il suo ruolo.

    Dipende dalla durata. Ci sono sogni di un giorno e sogni di tutta la vita.

    Vuol dire che vende sogni che durano un solo giorno e altri che durano per sempre? chiese il padrone dell’osteria.

    Proprio così gli confermò Áskerban, si distinguono dal colore dei vasi: bianco e rosso e ogni tipo ha il suo prezzo.

    E, allora, quanto costano? insistette l’oste.

    Quelli di un giorno costano cinquanta ralli, quelli di tutta la vita dieci ralli.

    Tròttenwald sussultò. Erano cifre enormi. ‘E a parte questo’ pensò l’oste abituato a trattare affari, ‘che senso ha che il di più costi di meno?’ Mentre

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