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Dovevano sopravvivere
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Dovevano sopravvivere

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About this ebook

Questo romanzo di fantascienza, ambientato in un futuro decennio del ventunesimo secolo, narra le avventure e le peripezie dei sopravvissuti di una crisi nucleare nel puro stile della fantascienza classica, con quel tocco di sensibilità e originalità dovuto al retaggio della cultura latina.

Come nello stile dell’autore, in questa storia ne è contenuta un’altra che il lettore dovrà scoprire da sé.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateNov 13, 2014
ISBN9788891162656
Dovevano sopravvivere

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    Dovevano sopravvivere - CESARE SABA

    -----

    PARTE PRIMA – I SOPRAVVISSUTI

    Cap. 1 - Mark.

    Erano partiti in sette. Adesso era solo, unico sopravvissuto della squadra che avrebbe dovuto iniziare la colonizzazione di Marte. La navetta che trasportava i primi sei membri della nascente Colonia Umana di Marte s’era miseramente schiantata sul suolo del pianeta rosso.

    Lui non era nemmeno un vero astronauta. Era soltanto un biologo e veterinario, esperto di agraria, agronomia, botanica e zootecnia. A malapena era in grado di pilotare la navetta per il trasbordo dei materiali che sarebbero serviti alla creazione delle farm che avrebbero dovuto produrre il cibo e l’ossigeno necessari alla Colonia.

    Dire che fosse spaventato a morte non rende l’idea. In realtà in quel momento non era in grado di connettere. Guardare la scena del naufragio che aveva segnato la morte dei suoi sei compagni gli aveva fatto nascere dentro un’ansia mortale e dato subito la consapevolezza di essere rimasto prigioniero di quella astronave della quale non capiva un accidente.

    I suoi compagni, tre uomini e tre donne di cui soltanto cinque oltre lui destinati a rimanere su Marte per almeno quattro anni, erano saliti sulla navetta, tranquilli e quasi allegri di iniziare quella avventura che sarebbe rimasta scritta sui libri scolastici.

    Nulla aveva preannunciato la loro fine repentina; erano scesi e si erano schiantati al suolo. Tutto qui. Avevano rispettato le regole, questo è certo; peccato che queste sottintendessero che a restare a bordo doveva essere uno dell’equipaggio e lui non ne faceva parte.

    La smania di protagonismo di certi individui e la voglia di calpestare il suolo marziano avevano acuito il senso di onnipotenza e diminuito quello della disciplina e dei regolamenti e ciò era stato fatale a loro e alla Missione intera.

    Lui era sopravvissuto soltanto per rimpiangere di non essere morto di quella morte rapida insieme con loro. Lui, un inetto dello spazio, alla sua prima missione.

    La missione era incominciata sotto i migliori auspici. L’astronave che li avrebbe portati su Marte era costata una cifra esagerata e per questo il progetto era stato osteggiato durante tutti i dodici anni che erano occorsi per costruirla, attaccata alla stazione orbitante che aveva ospitato gli ingegneri, i tecnici e il materiale necessario per tutto quel tempo.

    Mark capiva poco di elettronica e di comunicazioni. Qualsiasi cosa avesse voluto fare, non avrebbe saputo dove mettere le mani. I suoi compagni lo avevano trattato sempre come un passeggero di cui doversi prendere cura, come di un bambino deficiente. Nella Colonia al suolo sarebbe stato il personaggio più importante ma lì a bordo era stato un peso e gliel’avevano fatto comprendere in tutti i modi.

    Lui aveva desiderato rendersi utile cercando di imparare qualcosa del lavoro degli altri ma quelli avevano sempre respinto le sue richieste e l’avevano isolato. Però adesso erano morti tutti e lui era rimasto vivo.

    L’unica cosa che aveva imparato era il modo di accedere alla manualistica. Ma anche in quel caso gli avevano raccomandato di non andare oltre le sue mansioni. Non aveva mai capito perché gli fossero stati tanto ostili ma ormai non aveva più importanza, perché nessuno era sopravvissuto per dargli spiegazioni.

    Base Terra chiama astronave Mars... Base Terra chiama astronave Mars... Rispondete astronave Mars...

    Si svegliò di soprassalto. Per un attimo sperò che la voce provenisse dal suolo marziano, ma soltanto per un attimo. Dalla sua posizione vide un led lampeggiare su un pannello davanti al posto di pilotaggio. Si precipitò a spostare la levetta verso la posizione di risposta e cercò di spiegare in poche parole la tragedia che aveva colto la Missione e la sua situazione di naufrago. Spostò la levetta e attese con ansia una risposta che sarebbe arrivata soltanto dopo molti minuti.

    La cosa peggiore nello spazio era la lentezza delle comunicazioni. Era qualcosa che faceva logorare i nervi. Per non soffrirne troppo, Mark calcolò di non poter ricevere risposta prima di trenta minuti e si dispose a ingannare il tempo tentando di spulciare le librerie elettroniche di bordo. Se avesse trovato i manuali giusti avrebbe forse potuto studiare meglio la sua situazione.

    La risposta gli giunse con ritardo ma sentire una voce Umana gli restituì un po’ di coraggio. Era il Direttore della Missione in persona che gli chiedeva di declinare il suo nome e gli spiegò come fare per inviargli i filmati dell’incidente. Prima di passare la comunicazione, gli assicurò che, in qualsiasi momento avesse voluto, avrebbe trovato una squadra di persone pronte a fornirgli ogni supporto possibile.

    Fece tutto ciò che gli era stato detto, con le mani che gli tremavano per paura di commettere qualche errore irreparabile; poi rimase in attesa della comunicazione successiva. L’angoscia gli stringeva la gola e affaticava il respiro mentre la mente rivedeva le fasi della tragedia. I suoi compagni ridevano incuranti di lui nel tempo che ci misero a indossare gli scafandri e fare i controlli previsti dalla procedura che anche lui aveva dovuto imparare. Rivide la faccia di ciascuno che scompariva dentro il casco e poi si infilava dentro la navetta. Quindi il portello interno dell’hangar si chiuse e tutto scomparve alla sua vista.

    Allora andò al monitor che seguiva automaticamente le manovre di distacco e di atterraggio. Vide la navetta staccarsi lentamente seguendo per un tratto una rotta parallela a quella dell’astronave. Poi iniziò a scendere e dopo un po’, benché non fosse esperto, comprese che qualcosa non stava andando come avrebbe dovuto.

    Sentì le voci concitate dell’equipaggio e le urla di paura prima dello schianto. La navetta urtò il suolo sollevando tanta polvere mentre si disintegrava perdendo pezzi in tutte le direzioni. Il relitto rotolò e rimbalzò più volte continuando a disperdere altri pezzi dello scafo e del carico. Poi rimase immobile, come un giocattolo inservibile gettato in una discarica.

    Allora iniziò a piangere scosso dai singhiozzi. Gli erano stati estranei ed ostili ma erano stati pur sempre i compagni con i quali aveva condiviso per mesi lo spazio ristretto dell’astronave. Non gli erano stati mai grati di nulla, nemmeno quando portava loro i prodotti delle sue serre, che erano freschi e saporiti. Non si erano comportati bene eppure adesso li piangeva.

    La sua mente vagava ancora; quel pianto gli riportò alla memoria il pianto di Mildred. Mildred lo aveva amato teneramente. Aveva sperato tanto che lui alla fine rinunciasse a partire e aveva pianto tanto alla sua partenza e anche nei giorni precedenti. Non che lui non l’amasse ma le loro strade erano segnate. Chiedergli di rinunciare alla Missione era stato come chiedere a Cristoforo Colombo di non andare in America o ad Alessandro di non partire per la conquista dell’Asia. E lui era partito.

    Due giorni prima aveva dato una festa per salutare parenti ed amici ma era stata una festa simile a quelle che si facevano da qualche parte nel mondo per commemorare i morti. I genitori sanno che un figlio, per quanto si vogliano bene, ad un certo punto se ne andrà per la sua strada; sono preparati da sempre.

    Mildred invece no. Lei lo amava e piangeva disperatamente. Avevano passato insieme il penultimo giorno e l’ultima notte, senza nemmeno pensare a fare l’amore. Erano stati insieme col cuore gonfio di dolore per il distacco imminente. Eppure lui era partito. Lei lo aveva accompagnato alla Base spaziale con la sua automobile, aveva atteso pazientemente che si sottoponesse all’ultimo check medico e poi passasse alla vestizione.

    Quando era uscito per salire sul pulmino che doveva condurlo alla navetta, c’era stato un ultimo abbraccio ed un ultimo bacio disperato. Lei gli aveva inzuppato di lacrime la tuta sulla quale avrebbe indossato lo scafandro. Poi l’aveva vista rimpicciolire al bordo della pista, con la mano alzata nell’ultimo saluto, fino a quando il traffico di veicoli non gliela aveva nascosta.

    In quel momento si era sentito mortalmente solo con il rimorso di aver tradito non una donna ma il suo grande amore, quello che fra tutti dà più valore alla vita, perché quello di lei era stato grande; avrebbe voluto tornare indietro, avrebbe voluto piangere per dare sfogo ai sentimenti che aveva nel cuore ma le battute e gli scoppi di risate dei suoi compagni di viaggio lo colpirono come altrettanti pugni.

    I suoi compagni di viaggio, un gruppo di astronauti che stavano insieme come una squadra di vecchi amici, sembravano non averlo nemmeno visto. Incuranti di lui ed insensibili a ciò che gli passava nel cuore, si parlavano scherzosi, come liceali appena superati gli esami di maturità. Forse si comportavano in quel modo per non avvertire l’ansia e la paura che quella Missione poteva incutere. Proprio l’unica cosa che lui in quel momento non sentiva.

    Base Terra chiama astronave Mars... astronave Mars rispondete. I nostri esperti hanno accertato che l’incidente capitato alla Missione non è stato un incidente. Si tratta di un attentato. Mark, si faccia coraggio, cercheremo di aiutarla in tutti i modi e la riporteremo a casa sano e salvo. Le spiegheremo come ispezionare l’astronave e come neutralizzare ogni eventuale minaccia. Intanto segua le istruzioni che le daremo.

    Alla voce seguì il suono caratteristico della trasmissione di un file che subito dopo essersi installato rivelò un filmato in cui si vedevano alcuni tecnici che iniziarono ad istruirlo con l’ausilio del suo smart.

    Mark si mise subito all’opera. Le istruzioni erano molto chiare e facili da seguire. Quando rimaneva indietro, poteva ripetere il brano di filmato che gli necessitava. Il lavoro da fare era moltissimo, quanto non avrebbe mai immaginato. Essendo da solo gli ci vollero diverse settimane di lavoro assiduo. Tenendo da conto che aveva da espletare la manutenzione della serra e seguire costantemente la produzione di ossigeno e gli impianti di riciclaggio, per quanto lavorasse, il controllo di sicurezza richiese una enormità di tempo.

    Così, non avendo tempo libero dai lavori di routine, non ebbe nemmeno il tempo di pensare alle sue paure che col passare dei giorni si attenuarono. Ogni giorno riceveva alcune chiamate senza una cadenza precisa e questo lo aiutava a sentirsi meno solo e abbandonato a sé stesso.

    Per quanto ne sapeva, la sua Missione era preparatoria di quelle successive e avrebbe dovuto essere seguita da altre cinque o sei, ma quel fallimento avrebbe bloccato il progetto di colonizzazione di Marte per almeno due anni. La morte dei sei membri dell’equipaggio dava a lui sei possibilità in più di sopravvivenza ma questo non gli assicurava che si sarebbe salvato.

    Passarono i giorni, le settimane e poi i mesi. Il lavoro continuo senza mai riposo, lo stancò e lo fece ammalare. Ebbe febbre alta e delirò, passando giorni interi in stato di semi coscienza. Ricevette molte chiamate alle quali non rispose e ne fece altrettante delle quali, a sua volta, non fu in grado di ricevere la risposta. A volte digiunava e a volte, durante gli sprazzi di lucidità mangiò e bevve più razioni.

    La serra, non essendo stata più curata, corse il rischio di morire e con essa la produzione di ossigeno e quindi lui stesso. Soltanto quando fu guarito si accorse che avrebbe potuto farsi curare dal computer di bordo, che aveva una sezione dedicata all’assistenza sanitaria dell’equipaggio.

    I sistemi automatici avevano sempre funzionato al meglio ma sulla console erano comparsi numerosi quesiti da risolvere. Controllò la memoria delle comunicazioni con la Base sulla Terra e scoprì che si erano interrotte quasi un mese prima. Un campanello d’allarme squillò dentro la sua testa. Cosa era mai successo? C’erano dei guasti? E se si, cosa avrebbe potuto fare? Lui al massimo sapeva spostare qualche leva. I sei membri dell’equipaggio morti, rappresentavano complessivamente circa sessanta anni di studi. A lui non sarebbero bastati per apprendere rudimenti sufficienti per cavarsela.

    Si mise freneticamente a lanciare un messaggio verso la Base spaziale raccontando ciò che gli era accaduto, ma intanto era preda di un terrore che gli attanagliava la gola e non lo faceva ragionare. Lanciato il messaggio, per allentare la tensione si recò verso la serra. Lì ricevette un’altra dose di angoscia perché i vegetali stavano iniziando a marcire e la vasca emanava un fetore poco rassicurante.

    Passò un numero imprecisato di ore per ripulire la prima vasca estirpando le alghe morte, passando poi alla seconda per togliere tutti i pesci morti. Mise in funzione il secondo depuratore delle acque poi passò alla serra idroponica. Alcune verdure erano marcite e altre erano cresciute a dismisura. Il frutteto aveva resistito meglio ma aveva bisogno urgente di cure. Si dedicò poi all’impianto di riciclaggio delle sostanze organiche e a quello dell’acqua potabile.

    Dopo dieci ore di lavoro ininterrotto sentì i morsi della fame e il bisogno di bere. Il suo smart non aveva mai emesso il segnale d’arrivo di messaggi o comunicazioni. Fu ripreso dall’angoscia. Tornò nella plancia di comando senza saper bene cosa sperare ma, come già sapeva, non c’erano state comunicazioni.

    Era solo. Essere soli nello spazio non era come essere soli magari anche in mezzo a un oceano o a un deserto. Dovunque si sia sulla Terra si ha la sensazione di stare su un unico piano e si ha la consapevolezza che, per quanto lontani, da qualche parte intorno ci siano miliardi di altri esseri Umani.

    Nello spazio è diverso. Lì non ci sono soltanto un davanti, un dietro e due lati ma c’è anche un sopra e un sotto in tutte le direzioni. Nello spazio si sta come al centro di una immensa palla senza misura, con la sensazione di cadere verso un ovunque misterioso e infinito.

    Rilanciò il messaggio di prima e si mise in attesa di una risposta, ingannando il tempo consumando un pasto composto da razioni liofilizzate. Poi attese ancora e ancora e alla fine si addormentò. Dormì un sonno pesante e ristoratore; si svegliò di soprassalto senza rendersi conto del tempo trascorso. Controllò subito il sistema di comunicazione: gli apparati erano in ordine e funzionavano perfettamente ma non c’erano state comunicazioni.

    La fragile diga della speranza si incrinò dentro di lui e la verità terrorizzante iniziò, goccia dopo goccia, a riversarsi nella sua coscienza. Era solo ma non voleva crederci: lo avevano abbandonato. Ciò non di meno si propose di lanciare un appello ripetuto della durata di quindici minuti con un intervallo di trenta, in modo che, se qualcuno avesse voluto rispondere, non avrebbe perduto la risposta in diretta. Poi, per allentare la tensione, prese il suo smart e se ne tornò verso le serre perché lì c’era comunque molto da fare.

    Si mise a trafficare col sistema di smaltimento e riciclaggio delle sostanze organiche. Con quella massa in decomposizione, se non avesse funzionato il sistema di depurazione dell’aria, non avrebbe potuto resistere al fetore ed anche all’accumulo di metano che la decomposizione produceva e che, oltre a costituire pericolo di esplosione, lo avrebbe comunque asfissiato. Il periodo di abbandono dovuto alla sua malattia, aveva prodotto molti danni.

    Si mise a fare dei calcoli: per poter smaltire la biomassa accumulata avrebbe dovuto bloccarne la produzione ma doveva contemporaneamente tener da conto l’indispensabile mantenimento della biodiversità ed il bilanciamento delle specie. Alla fine, dopo aver ricontrollato i suoi appunti, fu sicuro di poter bloccare un terzo delle serre. Ciò, oltre ad assicurargli molto più tempo a disposizione per studiare come cavarsela con l’astronave, avrebbe permesso agli impianti di bordo di smaltire tutte le sostanze che creavano squilibrio all’ordine biologico naturale della biosfera dell’astronave.

    Erano passate molte ore da quando aveva abbandonato la plancia di comando. Per il momento si sentiva soddisfatto del lavoro svolto e per di più non aveva avuto tempo per pensare ai pericoli che incombevano su di lui. Adesso che era libero però, tutte le paure lo riassalirono più feroci di prima. Intanto non aveva ricevuto alcuna comunicazione dalla Base. Poi, la sua ignoranza pressoché assoluta da quasi passeggero su quella astronave sembravano precludergli la sopravvivenza a medio/lungo termine.

    Prima di lasciare la serra, si ricordò di quella schifezza che era il sintetizzatore proteico. Quell’apparato, che lui odiava, produceva carne sintetica partendo da cellule madri aggiunte a un brodo di coltura. La grave crisi alimentare causata dalla sovrappopolazione sulla Terra aveva indotto gli scienziati a creare un sistema artificiale per produrre proteine animali. L’Umanità aveva in breve tempo potuto disporre di carne sintetica mediante la produzione a ciclo continuo di parti scelte di ogni tipo di animale. Produzione abbondante e a basso costo, il cui difetto principale era la scarsa resistenza alla putrefazione dell’alimento e il gusto insipido: non si sarebbe potuta distinguere la differenza tra una fesa di maiale e un uovo sodo e nemmeno quei due sarebbero stati distinguibili da un petto di pollo. Non aveva mai messo in funzione i sintetizzatori e avrebbe continuato a non farlo, anche se nel complesso ordine della biosfera avrebbe potuto essere utile. Come ultima cosa, andò a controllare gli alveari e trovò che le api avevano ripreso a lavorare con fervore. Il miele gli piaceva e ne avrebbe raccolto presto.

    Guardò con simpatia i piccoli insetti ronzanti che lavoravano instancabilmente. Quelle bestiole non sapevano che la loro presenza a bordo dell’astronave le aveva salvate dall’estinzione perché sulla Terra gli Umani, alle molte nefandezze, avevano aggiunto la guerra alimentare che consisteva principalmente nello sterminare gli insetti pronubi. Così avevano selezionato una specie di vespe la cui unica funzione era quella di sterminare i pronubi ed in particolar modo le api mellifere. Il miglior risultato che quegli insetti nocivi avevano prodotto era stato il provocare una repentina grave carestia alimentare nel Paese che gli aveva dato i natali. Era iniziata subito la guerra contro la minuscola belva ma quel subito era stato già troppo tardi.

    In plancia controllò i quadri degli apparati: Nessuna spia di allarme era accesa. Sedette al posto del Comandante e si mise a riflettere. Come era possibile che su un pianeta con tanti miliardi di abitanti nessuno pensasse più a lui e alla Missione Marziana? Per mettere in funzione quella Missione c’erano voluti molti anni di lavoro di centinaia di migliaia di persone altamente qualificate. Il tutto era costato una cifra impressionante, praticamente incalcolabile. Su quella Missione erano riposte le speranze dell’Umanità. La spedizione alla quale aveva preso parte era soltanto l’avanguardia di una catena di trasporti di uomini e materiali. Perché adesso era solo?

    Quella e altre domande gli venivano in mente senza trovare una risposta plausibile. Poi a Mark venne da pensare che oltre ai canali privilegiati che univano l’astronave alla Base, c’era la miriade di trasmissioni che dalla Terra si irradiavano nello spazio, sia come segnali radio che TV e olografiche. Se avesse trovato il modo di riceverle, forse avrebbe potuto stabilire un contatto. Peccato che quegli stronzi dei suoi compagni non gli avessero permesso di imparare nulla. Così adesso loro erano degli stronzi morti e lui era un asino vivo.

    Aveva fame e sete ma la sua maggior premura era quella di riuscire a contattare qualcuno con cui parlare. Dopo qualche ora di tentativi andati a vuoto, decise di mangiare ciò che aveva raccolto nella serra e di bere una bevanda ricostituita, non alcoolica, ovviamente. Poi crollò per la stanchezza e dormì fino a quando un rumore fastidioso non lo svegliò completamente: era una voce di donna. Finalmente!

    Nella sua incapacità di comprendere gli apparati elettronici, senza saperlo aveva lasciato aperto un canale. Non sapeva quale fosse ma lo avrebbe scoperto. Si trattava di un messaggio registrato. Qualcuno chiedeva chi fosse e gli forniva delle coordinate per la comunicazione: …siamo undici operatori scientifici. Siamo prigionieri nella Base Scientifica, Progetto Majorana, chiunque ci senta si metta in contatto con noi sulle coordinate... Seguivano le coordinate e subito dopo una voce d’uomo ripeteva lo stesso messaggio. Trasmettevano incessantemente in cinque lingue diverse, ripetendo ogni trenta minuti.

    L’emozione di sentire una voce parlare, si mischiava alla paura di non riuscire a stabilire un contatto. Stavolta si impose la calma e studiò l’apparato con attenzione fino a quando non fu certo che la cosa era meno difficile e più intuitiva di ciò che l’ansia e la paura non gli avessero fatto comprendere.

    Parlò con calma: Qui è la Missione Marziana; sono Mark, unico sopravvissuto dell’equipaggio. Per il momento sto bene ma non sono un astronauta. Se ricevete il mio messaggio rispondetemi sugli stessi parametri.

    La risposta arrivò dopo venti minuti: Mark, sono Claudia. Tu dove sei? Io sotto una montagna in Italia. Faccio, o forse devo dire facevo parte di una Missione Scientifica. Qui eravamo undici fino a stamattina. Quattro sono voluti uscire e non sono ancora tornati. Ora siamo in sette. Entro poche ore, a causa della rotazione Terrestre, non potremo comunicare per diverse ore ma tu resta sempre in ascolto. Aspetto tue notizie, passo.

    Claudia, è una gioia sentire la tua voce. La mia astronave gira intorno a Marte e sarò a volte in un cono d’ombra. Però anche tu resta in ascolto; non abbandoniamoci. Fammi sapere cosa succede sulla Terra. Ho perso i contatti con la mia base che non mi risponde più.

    Trenta minuti dopo Mark udì una voce d’uomo: Mark, sono Oswald, collega di Claudia. Claudia è andata a riposare. Era da dodici ore in ascolto senza mai muoversi dagli apparati. Qui siamo tutti felici di sapere che ci sei e non ti abbandoneremo. Non so come dirtelo ma quei bipedi col cervello da galline, chiedendo scusa alle galline, sono riusciti, temo, a distruggere il nostro pianeta. Prima di te abbiamo raggiunto altri sette contatti. Tu sei l’ottavo. Ricorda che se anche questa comunicazione si interrompesse all’improvviso, noi resteremo in ascolto del prossimo contatto. Adesso parliamo delle nostre situazioni. Noi siamo sette; mancano all’appello quattro colleghi che sono voluti uscire e non sono anc...

    Dopo un leggero gracchiare ed altri rumori strani seguì un fruscio e poi il silenzio. La comunicazione era caduta e per qualche ora sarebbe rimasto senza contatti. Guardò il suo smart: era quasi ora di recarsi alle serre. Prima bevve qualcosa, poi dette una controllata alle spie e infine lasciò la plancia per raggiungere il suo regno personale.

    Controllò il funzionamento generale delle sezioni in funzione, iniziò lo smaltimento dei rifiuti di quelle che aveva chiuso, controllò le colture idroponiche, raccolse della frutta e delle bacche, prese del miele, pescò un paio di pesci d’acqua dolce ormai fuori misura, ricontrollò i livelli di anidride carbonica e infine se ne andò col suo carico alimentare. Il suo regno non lo deludeva mai.

    Dormì qualche ora prima di avere la sensazione che qualcuno stesse parlando con lui e alla fine si svegliò completamente sentendo una voce nota: ...sono Claudia, Mark rispondi. Solo tre dei quattro usciti dalla base sono tornati. Siamo rimasti in dieci e per il momento siamo prigionieri qui dentro. Fuori ci sono bufere di neve che si è accumulata a montagne e c’è un livello alto di radioattività. Dimmi cosa succede da te e cosa intendi fare. Resto in ascolto e passo.

    Claudia, mi dispiace che abbiate perso un collega. Io li ho persi tutti. Non sono un vero Astronauta. Il mio compito era quello di creare delle cupole piene d’aria dentro le quali dar vita a delle farm per produrre cibo per i futuri coloni di Marte. Ormai non servo più. Non capisco niente di navigazione interplanetaria e non saprei cosa fare per tornare indietro. Se toccassi qualcosa dei comandi, potrei schiantarmi su Marte oppure perdermi nello spazio per sempre. Resto in ascolto e passo.

    Dopo una mezz’ora d’attesa gli giunse una voce maschile: Sono Otto, collega di Claudia, ti saluto. Io sono stato astronauta e forse potrei aiutarti ma prima devi imparare a distinguere i vari tipi di comandi. Ci sono quelli di pilotaggio, quelli di controllo e quelli di comunicazione. Hai tre tipi di schermo: Monitor, televisori 3D e olografici. Per prima cosa devi riconoscerli insieme con i pannelli che li controllano e che controllano le funzioni che ti mostrano. Resto in attesa e passo.

    Otto, sono felice di conoscerti. Vuoi dire che potresti insegnarmi a pilotare questo pachiderma spaziale? Come farai? Spiegatemi meglio cosa succede sulla Terra. Salutami Claudia ed Oswald. Resto in attesa e passo.

    Come in precedenza, ci volle circa mezz’ora per avere la risposta: "Sono Claudia, ciao Mark, Otto e gli altri stanno organizzando un progetto per il tuo ritorno. Se avrai pazienza, se studierai un poco e non avrai paura, faremo di tutto per farti ritornare. Stiamo cercando di rimettere insieme i cocci dell’Umanità. Ci sono due astronauti prigionieri di un Laboratorio Spaziale. Loro ti faranno rientrare e tu li salverai. Sono due persone in gamba e vedrai che andrete d’accordo. Le astronavi del progetto di colonizzazione di Marte sono sempre lì, accanto a un deposito di materiali per la tua stessa Missione che aspettano di venire utilizzate. Esse sono quanto di più prezioso abbiamo e nessuno che le possa raggiungere. Tutto quello che c’è da fare ti verrà spiegato. Vedrai che non ti sarà difficile

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