La belva - Sono una maniaco-depressa contenta di esserlo -
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Anteprima del libro
La belva - Sono una maniaco-depressa contenta di esserlo - - Camelia Ciuban
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Sono una maniaco-depressa contenta di esserlo
Perché prendermela con me stessa? In fin dei conti vivo la mia vita così come arriva, con alti e bassi, come tanti altri in questo mondo. È scontato che sono il prodotto della fusione tra le mie caratteristiche genetiche (limitate, da certi punti di vista) e ciò che la suddetta vita mi ha portato nel tempo (qua però di limiti mi sa che non se ne parla). È anche vero che sono una persona piuttosto sensibile e che in situazioni stressanti - ma chi non lo fa? - tiro fuori il peggio di me. Un marginale dettaglio da aggiungere: sono stata in psicoterapia e probabilmente dovrò andarci ancora. Un altro particolare, compreso di scusante: c’è chi geneticamente, fisicamente o storicamente è predisposto al diabete; io sono predisposta alla nausea e alla depressione. Infine, come tanti altri in questo mondo, che lo sappiano o no, ho un guasto congenito che i medici chiamano disturbo affettivo bipolare
. Non suona, in fondo, così male. Che bel giro di parole per dire, poi, una sola cosa, cioè in traduzione libera: sono una maniaco-depressa e per di più contenta di esserlo. Non sarò mica l’unica al mondo! Esatto: ad essere contenta - quasi certamente effetto della componente maniacale. Che cosa c’è di anormale? Mi hanno dato persino la patente. Guido la macchina da più di venti anni. È un indice di normalità. A parte qualche strisciata contro il muro del garage e quella volta che una Volvo nuova di zecca ha frenato troppo di colpo davanti a me per poterla evitare, non ho fatto nessun incidente, ho tutti i punti della patente, ho preso solo una multa per eccesso di velocità e non sono mai stata coinvolta in risse tra automobilisti, perché mando rigorosamente sottovoce a fanculo quelli che mi tagliano la strada. Però! Mentre bipolare assume un senso così lieve e approssimativo, maniaco-depressa suona dannatamente male. Quasi un pugno nello stomaco.
Se lo sapessero i miei colleghi di lavoro, chissà se mi farebbero ancora assaggiare le loro merendine, o quel che sia e che capita di condividere tra colleghi? Qualche volta, con un minimo di prudenza, ho azzardato a dichiararmi:
- Hai mal di testa o per quale motivo prendi quella pillola?
- Sì dai, è passabile, una specie di mal di testa: soffro di disturbo bipolare.
- Ahi, non parlarmi di disturbi! Io per la cervicale prendo delle badilate di pastiglie. Poi il cortisone… mamma mia, non ti dico! Non può essere peggio.
- No, per fortuna non lo è.
- Cosa?
- Peggio, intendevo.
-Beh cara, s’è per quello, no di sicuro – si fermò un attimo per sbuffare sentitamente, fissandomi con uno sguardo che, da come l’ho interpretato io, supplicava pietà e non lasciava alternative. L'ho assecondata:
- Povera, non vorrei proprio essere al tuo posto.
Lei, per un solo attimo sembrò soddisfatta. Ma fu così fugace, quasi un parere. Tornò in sé alla svelta.
È così per certi individui, essere soddisfatti o anche star appena un po’ bene, è un peccato veniale, quasi una perversione. Godersi la vita è segno di superficialità: questa va guadagnata con sofferenza, allora sì che acquista valore! Lamentismo popolano ormai di rito.
Greenwich, (si era guadagnato questo nomignolo perché arrivava sempre sul gong: mai un minuto in più o uno in meno)era ancora lì, ebete, sguardo dimenticato dentro di me. Dopo un po’ ripartì alla carica:
- Ma mangi sempre la pasta in rosso, vedo che ti piace bella sugosa.
Tossii imbarazzata prima di rispondere:
- Per la verità mangio di tutto, non ho problemi di appetito.
- Beata te... e non ingrassi!
Come dirle che vivo troppo per poter ingrassare? Uscì dalla sala pranzo trascinandosi a malavoglia i piedi e tornò in negozio a braccia conserte e senza voglia di vivere. Desolata e triste era stanca di essere lì, o altrove. Ogni tanto, quando qualche cliente assorto dalle merci sugli scaffali le passava vicino, chiedeva automaticamente, forse addirittura involontariamente:
- Ha bisogno? - e il tipo, colto alla sprovvista, quasi aggredito, rispondeva gentilmente:
- Sto… sto solo dando un’occhiata, grazie.
Lei tornava alla sua apatia di prima, mentre il cliente aveva già ripensato sul dare un'occhiata e si avviava verso l’uscita:
- No, cazzo che non ho bisogno! Ma può darsi che tu ne abbia.
Un acquirente in meno, fa niente. Arriveranno altri, qualcuno forse ancora più apatico di lei e magari qualcosa comprerà.
Com’è bello vivere! – ci penso. È facile che ci sia sempre quella componente maniacale che me lo suggerisca, ma, se così fosse, ben venga. Perché negarla? Perché non accettarla come un valore aggiunto alla mia esistenza? In fin dei conti, per quella volta ogni morte di papa - come sono esagerata! - in cui scivolo verso la depressione, penso che non valga proprio la pena essere insoddisfatta della mia vita. Detto così potrebbe sembrare molto semplice vivere con una malattia psichiatrica e sarei bugiarda se lo lasciassi credere.
Non è semplice. Non lo è mai stato e non lo sarà mai. Anzi, è una strada difficoltosa, piena di ostacoli, trappole e inganni e la cosa peggiore è che nella maggior parte dei casi non ha una fine. Sei costretto a percorrerla per sempre, tratto dopo tratto: compiuto uno inizia un altro, sino alla fine dei tuoi giorni quaggiù. Questa è un'altra prospettiva unilaterale e, di conseguenza, limitata. Così potrebbe sembrare fatalistico, ineluttabile e invece non lo è.
Ci sono vie di mezzo, non tante, alcune, ma ci sono. Ho speso una vita per capire di doverle iniziare a cercare. E ora finalmente le inseguo con ogni mezzo a disposizione.
Intanto mi sorprendo a frugare nel mio passato e non lo cambierei di una sola virgola. Mi guardo intorno oggi e non solo sono soddisfatta del mio presente ma addirittura grata di viverlo. Scruto poi verso il futuro, non ho la più pallida idea di ciò che mi accadrà ma di una cosa sono sicura: non mi annoierò. La prospettiva dell’imprevedibilità mi rende entusiasta. Vivo ogni momento con stupore e completa partecipazione, mi lancio a capofitto verso qualsiasi emozione mi si presenti e nessuna è di troppo. Belle o brutte, le emozioni le lascio fluire, entrare, mi faccio colpire sul cuore aperto come dalla pioggia d’estate in pieno viso. Mi attraversano, mi modellano, mi trasformano, mi rendono più me. Non ho bisogno di fare sei al SuperEnalotto e nemmeno di praticare paracadutismo per andare fuori di testa: lo sono già di natura. Riesco ad esaltarmi con poco, mi meravigliano o mi tormentano le cose più banali, mi lascio animare dagli interessi più diversi con la stessa passione, trovo gratificazioni nelle attività più consuete. C’è in tutto qualcosa di straordinario e di immenso da scoprire, qualcosa al di là dell’apparenza che ad occhio nudo non si osserva. Bisogna avere gli strumenti adatti per farlo. In questo caso, molto probabile, bisogna avere l’entusiasmo e la sensibilità di un maniaco-depresso.
Non ritengo assolutamente il mio disturbo una piaga da estirpare – d’altronde sono convinta che sarebbe un’impresa impossibile e, anche se riuscissi a farlo, non saprei poi come vivere senza. Sarebbe un togliere qualcosa alla mia vita senza nulla aggiungere. Anzi, lo reputo una parte di me che mi dà tanto e alla quale, di conseguenza, sono grata. È me, è la mia vita, l’unica accanto e contro la quale lotto. Accanto perché sa essere meravigliosa. Contro perché c’è un grave aspetto da prendere in considerazione: la depressione può essere una malattia mortale. Per di più se piomba in concomitanza con un periodo maniacale.
Ho tentato il suicidio per due volte seriamente, altre decine di volte ho desiderato morire senza però agire in tal senso e, le occasioni, sicuramente, si ripresenteranno. Si può vivere sapendo che la belva - dal giorno in cui l’ho conosciuta l’ho sempre chiamata così e non c’è un nome più adatto - che ti porti dentro sta sempre in agguato? Che appena abbassi la guardia ti azzanna senza pietà? Io sì, riesco a vivere, e vivo piuttosto bene. In definitiva anche la vita stessa è una malattia mortale. Sai che un giorno, uno a caso, ti sveglierai e quel giorno per te rimarrà incompiuto. È la fregatura dell’essere vivo, poiché una volta nato sei in trappola: ti tocca morire. Prima o poi, con certezza matematica, succede. È così a portata di mano la morte quando non la cerchi. Se non fossero prevenuti su ciò che sono i pericoli mortali, quanti uomini si lancerebbero nel vuoto tentando di volare?
Non è diverso con la depressione: bisogna essere prevenuti, conoscere i veri pericoli e schivarli. Ma se per non buttarsi nel vuoto gli uomini sono dotati geneticamente e culturalmente, per sfuggire ai rischi che comporta la depressione sono completamente impreparati. Ti trovi ad un certo punto nella vita, adolescente o già adulto o addirittura ancora bambino, colpito e dilaniato da una sofferenza di cui non sai niente se non che vorresti estirparla a qualsiasi prezzo, spesso a costo di annientarti assieme a lei. Né l’eredità genetica né la famiglia o la società ti preparano ad affrontare la depressione. Al contrario, la società indifferente e ignorante, non di rado malvagia e prepotente, ti affonda ancora di più con i suoi stupidi pregiudizi, per secoli maturati sui matti. La famiglia, anch’essa parte della stessa società, fallisce così palesemente nei suoi tentativi di chiamare alla ragione e di convincere quei figli o quei congiunti, così difficili e così diversi, che il loro modo di stare al mondo deve essere per forza sbagliato. Non è solo inutile come tentativo ma è totalmente controproducente. Soffrire di un disturbo mentale, purtroppo, NON È UNA SCELTA, ma ci vuole un certo discernimento per capirlo, un po' di buonsenso e del reale interesse! Sembro scortese? O arrabbiata? Lo sono, scortese, perché arrabbiata.
L’avevo avvertita già da tempo, dall’età di tredici anni, o forse prima, ma ero ancora troppo bambina per farci caso. A quattordici venne da me per la prima volta con il desiderio di morire. Crisi adolescenziali, forse, ma forse no. Comunque nessuno si preoccupava, anche perché riuscivo a nasconderlo molto bene. Se il mal di denti non facevo alcun sforzo per nasconderlo, invece con la depressione è tutto differente: viene naturale farlo. Posso solo intuire come mai: forse perché la propensione all’isolamento è una caratteristica della malattia, forse perché si temono i giudizi degli altri o forse perché si sottovaluta l’entità del male. Essere tristi, piangere, è un aspetto comune della vita e in genere chi si lamenta deve avere seri motivi per soffrire e viene sempre naturale chiedersi perché: perché piange? Perché è triste? Perché si è ucciso? Di conseguenza non parlavo, perché non sapevo che ci fosse qualcosa da dire. Avrei dovuto fornire una spiegazione logica tipo causa-effetto che le persone fossero in grado di comprendere: soffro perché mi hanno bocciata a scuola, ho litigato con i genitori, sono stata tradita, il tipo che mi piace non mi guarda neanche ecc., ma non l’avevo. E poi, in qualche modo, intuivo che nessuno voleva sentirmi parlare della sofferenza in sé: generalmente non interessa. Star male gratuitamente non fa notizia, sono i perché argomenti di chiacchiericcio.
Spesso le reazioni depressive arrivano sì in seguito ad un evento stressante però, nella mente di chi ne soffre, passo dopo passo tale evento perde di significato, si diluisce nel solvente della stessa malattia e diventa un fattore secondario, indegno di essere preso in considerazione e il dolore, con tutte le sue manifestazioni, conquista sempre più territorio. Poiché non sai di cosa parlare – la causa del tuo male è trascurabile, mediocre, oppure non c’è proprio – scegli di non farlo. Io almeno non lo facevo. Non parlavo dei miei momenti bui con nessuno, così nessuno si preoccupava per quella cosa
che non aveva un nome, ed io mi preoccupavo meno di chiunque altro. Ero così: una ragazza allegra, spiritosa e tenace, a volte sprofondata nei pensieri più neri e nella sofferenza più assoluta. Di giorno a correre per le vie della città con i miei coetanei, di sera, spesso, a giacere su qualche tomba del cimitero che si stendeva vicino casa mia e a rimuginare sulla morte. Nel silenzio della mia camera allevavo il male, nel buio delle mie notti cullavo la belva. Al mattino mi rimboccavo le maniche e partivo per la vita con il sorriso stampato in faccia.
A ventidue anni la prima crisi vera e propria, cioè finalmente palese per qualcuno che non fossi io, si è conclusa con il ricovero in una clinica psichiatrica. La diagnosi: reazione depressiva agli eventi stressanti della vita. Depressione
fu la mia traduzione, una specie di pazzia con un nome più accettabile, addirittura più raffinato e trendy delle altre. Poi seguirono numerose nuove crisi, più o meno gravi, più o meno gestibili in casa. Brevemente, nei successivi quattordici anni ho vissuto altri due ricoveri, due tentativi di suicidio, un tentato omicidio (di cui – ci tengo a precisare – per quanto malata di mente, ne fui vittima e non autrice), lunghi periodi di psicoterapia, di trattamenti con psicofarmaci, di felicità, una laurea, un matrimonio, un divorzio, sette traslochi – uno a milleseicento chilometri – un imprecisabile numero di lavori, una diagnosi finalmente accurata – disturbo affettivo bipolare (malattia maniaco depressiva), un figlio, quasi due1, insomma: una vita piuttosto felice... e non lo dico con ironia! Ma in tutto questo tempo non ho mollato un attimo, o forse qualche volta l’ho fatto, ma per brevi periodi. Ho lavorato con me stessa fino a sentirmi piegare sul peso delle verità che scoprivo. Ho studiato tutto quello