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L'ultima alba - La Profezia
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L'ultima alba - La Profezia
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L'ultima alba - La Profezia

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About this ebook

Secondo volume della trilogia fantasy-medievale de L'ULTIMA ALBA

Un monaco benedettino.

Un amore impossibile.

Un libro maledetto perso da secoli è stato ritrovato.

L'ultimo sigillo dell'apocalisse sta per essere spezzato.

Un uomo, una donna, una profezia, uno spettro fuggito dagli inferi e una spada.

Il destino dell'umanità è nelle mani di un giovane monaco. Riuscirà ad impedire la venuta del quarto Cavaliere dell'Apocalisse? Che la battaglia abbia inizio.

Una delle più belle storie d'amore di tutti i tempi.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateApr 9, 2013
ISBN9788891108272
L'ultima alba - La Profezia

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    L'ultima alba - La Profezia - Cassidy McCormack

    Cassidy McCormack

    Dall’autrice di TI SENTO e TEMPTATION

    L’ULTIMA ALBA

    La Profezia

    Della stessa collana

    Il sonno del Guerriero

    Copyright: Cassidy McCormack 2012

    Edizione I 2012

    Volume II

    Copyright © 2013

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Roma 73 - 73039 Tricase (LE)

    info@youcanprint.it

    www.youcanprint.it

    Titolo | L’ULTIMA ALBA - La Profezia

    Autore | Cassidy McCormack

    ISBN | 9788891108272

    Prima edizione digitale 2013

    Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

    Che sia l’amore tutto ciò che esiste

    È ciò che noi sappiamo dell’amore;

    E può bastare che il suo peso sia

    uguale al solco che lascia nel cuore.

    Emily Dickinson

    NOTA STORICA

    Da quando, nel 410 d.C., Roma venne invasa e messa al sacco per la prima volta dai barbari VisiGoti, l’Impero d’Occidente si trovò nella condizione di vedersi scivolare di mano l’agiatezza e la quiete della vita classica a cui l’avevano abituato secoli di grandi uomini al comando, per dar spazio a discriminazioni razziali, saccheggi, persecuzioni religiose, espropriazioni, vandalismo, morte...

    Roma messa a ferro e fuoco dai barbari di Alarico, perse il suo titolo di Capitale in favore di Ravenna, una città costiera più semplice da difendere dalle turbolente invasioni di popoli barbari che occupavano ormai gran parte del territorio Italiano.

    Con l’ascesa al comando di Attila nel 445 d.C. in pochi anni il nord Italia vide sbriciolarsi anche gli ultimi rimasugli di civiltà. Pagheranno il prezzo della brama di conquista del feroce Unno: Aquileia, Padova, Vicenza, Verona, Brescia, Bergamo e in parte anche Milano.

    Il tradimento di Genserico ora a capo a Cartagine dei pirati Vandali e la morte di Ezio, generalissimo della guardia imperiale, assassinato dallo stesso Imperatore d’Occidente Valentiniano III, innescarono la miccia che condusse il regno italico alla disfatta.

    I soldati tramarono contro l’Imperatore e non lasciarono passare più di un anno prima di vendicare il loro Generale.

    È il 16 marzo 455 d.C, quando due ufficiali assassinano l’Imperatore.

    Con la morte di Valentiniano III, il collasso dell’Impero d’Occidente è ormai alle porte.

    Il repentino forzato passaggio di comando del Regno italico – da Petronio Massimo prima ad Avito, Maggioriano, Libio Severo, Antemio, Oliario, Glicerio, Giulio Nepote, Romolo Augusto e Odoacre infine –, il violentissimo accanimento sulle coste Italiane e il sacco di Roma da parte dei Vandali di Genserico, e la pessima strategia politica dei più, decretarono in soli vent’anni la disfatta definitiva dell’Impero romano d’Occidente.

    Con il barbaro Odoacre iniziò inoltre l’espropriazione al popolo romano di un terzo delle terre italiche in favore dei suoi soldati barbari.

    Il suo regno di dittatura costrinse presto, Zenone, Imperatore d’Oriente a volgere la sua attenzione sulla sorte della popolazione italiana, che lo inondava di suppliche d’aiuto.

    Tuttavia, né gli Italiani quando chiesero il suo aiuto, né Zenone quando lo accettò, immaginavano minimamente che la decisione di deporre il Tiranno Odoacre sarebbe stata la miccia che avrebbe scatenato una delle guerre più devastanti dell’alto Medio Evo. La guerra Gotico-Bizantina.

    L’Italia intera, impreparata e stanca, stava per assistere allo sgretolamento del suo essere a colpi di ordini, rappresaglie e persecuzioni.

    Era l’anno 488 d.C. quando il Sovrano dei VisiGoti, Teodorico, ricevette il messo dell’Imperatore Zenone con la richiesta d’aiuto contro Odoacre.

    Solo cinque anni dopo, nel 493 d.C., Teodorico veniva acclamato nuovo Re d’Italia.

    In principio il governo di Teodorico non fu dei più tolleranti per gli italiani. Il popolo si aspettava un liberatore, ma troppo presto scoprì d’aver aperto le porte a un nuovo tiranno.

    Dopo aver assegnato ai suoi uomini le terre italiane che erano già state sottratte da Odoacre, Teodorico emanò una serie di leggi che miravano a mantenere ben distinte le due popolazioni.

    - È assolutamente vietato… - leggevano i banditori Goti nelle varie città e villaggi -… a qualunque italiano l’uso e il possesso di armi. Chiunque sarà trovato in possesso di queste sarà arrestato e soggetto alle severe leggi del nuovo Regno. L’ordine è di consegnare subito le armi agli ufficiali VisiGoti, pena la morte.-

    Nelle piazze, su un palco di travi o nei vecchi teatri e anfiteatri, il banditore affiancato da quattro soldati, lesse ripetutamente, per tre giorni l’editto del nuovo Re.

    - È assolutamente vietata l’unione matrimoniale tra Goti e Italiani.- e ancora - È severamente proibita la conversione dall’arianesimo al Cristianesimo.-

    Uno per volta, gli italiani si ammassarono attorno ai soldati per consegnare le armi. Qualcuno si rifiutò, provò a sottrarsi all’arresto, ma venne catturato e ucciso in pubblica piazza come monito per altri smaniosi ribelli.

    Nonostante tutto, Teodorico portò benessere e ricchezze ai romani.

    Nel 500 d.C. infatti, il nuovo Re fu così colpito dalla calorosa accoglienza che gli manifestarono il Senato, il popolo e il Clero romano durante la sua visita alla vecchia Capitale, che decise di stabilire il suo quartier generale proprio a Roma.

    Da quel momento provvide al restauro dei monumenti e al mantenimento della città, ristabilendo perfino l’usanza di distribuire cibo al popolo gratuitamente.

    Diversamente dai precedenti regnanti, Teodorico era un grande uomo politico, forse uno dei più grandi della sua epoca, se non il più illustre.

    Tenne a bada le altre popolazioni barbare conducendo una politica di alleanze attraverso matrimoni combinati.

    Pur se in possesso di un Re barbaro, l’Italia per un lungo periodo sembrò iniziare pian piano a riemergere dalle ceneri delle precedenti devastazioni.

    Erano passati oltre venti anni dall’incoronazione di Teodorico e da allora i suoi territori non erano più stati vittime di attacchi nemici.

    Le città avevano ricostruito le proprie mura, i contadini avevano permesso alla terra di rifiorire, i greggi si erano ripopolati, le strade tornavano ad essere sicure grazie all’azione militare contro il brigantaggio voluta dal Re. Le paludi Pontine venivano bonificate a spese della corona e le nuove terre, così ottenute, egualmente distribuite.

    Teodorico aveva regolato i prezzi delle merci, aveva annullato i sussidi statali alla chiesa per tenere basse le tasse, ma soprattutto, aveva riscattato i cittadini romani ridotti in schiavitù da altri popoli e li aveva stabiliti in Italia, affidando loro delle terre come contadini piccoli proprietari terrieri.

    Con questi minuti ed efficaci accorgimenti, Il Re riuscì a farsi amare e rispettare dal suo popolo. L’economia italiana cominciò a rianimarsi e la vita urbana tornò a un regime di normalità.

    Grazie a Teodorico, l’Italia tornò ad essere esportatrice di vettovaglie in tutto l’Impero.

    Eppure, i giorni di pace stavano per finire.

    Fu una pessima mossa, probabilmente studiata per scatenare una nuova guerra dalla quale sperava di rimpossessarsi di un regno al massimo della sua maturazione economico, quella del successore di Zenone, Giustiniano, che nel 523 d.C. pretese da Teodorico la restituzione di tutte le chiese ariane in favore del culto Cristiano.

    Questa assurda richiesta risvegliò l’assopito animo violento e vendicativo di Teodorico. Il Re infatti, rispose all’arroganza dell’Imperatore con una campagna di persecuzione dei Cristiani e dell’intera popolazione italiana, sospettata di tradimento in favore dei Bizantini.

    Teodorico regnò per altri tre anni, periodo in cui, le scorribande violente dei suoi soldati demolirono nuovamente lo spirito di un’Italia appena tornata con fatica al suo antico splendore.

    Le cittadine si ridussero a piccoli borghi ai quali seguirono perfino lunghi periodi di abbandono e desolazione. Gli uomini del Re si diedero al saccheggio incontrollato. I campi non furono più coltivati e gli edifici, dati alle fiamme, andarono sgretolandosi.

    Quasi l’intero paesaggio italiano divenne disagevole e inospitale.

    Teodorico morì a Ravenna il 30 agosto del 526 d.C.

    Aveva regnato rettamente per oltre trent’anni, ma prima di morire riuscì a restituire all’Italia quell’aspetto selvaggio che aveva trovato al suo arrivo.

    La morte del Re e le suppliche d’aiuto di una Regina maltrattata, convinsero L’imperatore d’Oriente di poter riconquistare l’Italia e ricacciare una volta per tutte l’orda barbarica che aveva invaso la penisola e che, soprattutto, non aveva alcuna intenzione di lasciarla. Giustiniano sapeva bene che i Goti si sarebbero battuti con le unghie e con i denti pur di assicurarsi il controllo del Regno, ma l’ennesima presunzione dell’Imperatore, che inviò il suo esercito alla conquista dell’Italia, diede il via a una Guerra di sangue senza fine.

    Nel 535 d.C. iniziò la fatale guerra al nuovo regno d’Italia. Al comando del Generalissimo Belisario, l’esercito Bizantino iniziò la sua opera di riconquista dalle splendide coste della Sicilia, proseguendo poi la risalita - villaggio dopo villaggio, città dopo città - contro gli uomini del nuovo Re Goto, Teodato.

    Belisario aveva con sé quattromila soldati tra federati e romani. Completavano l’esercito tremila Isaurici, duecento Unni, trecento Mori e altri soldati muniti di scudi e lance. Circa ottomila uomini in tutto. Aiutato nel comando, Belisario si circondava di fedeli e prodi comandanti: i due traci Costantino e Bessa; Peranio, principe degli Iberi; Valentino, Magno e Innocenzo, ufficiali della cavalleria; Erodiano, Paolo, Demetrio e Ursicino, capitani di fanteria; Ennete a capo degli Isauri.

    Questo era l’esercito che salpò da Costantinopoli per approdare e occupare la Sicilia prima di toccare le coste della Penisola.

    Nel frattempo, Mondone, ufficiale barbaro a capo della milizia bizantina nell’Illirico, ricevuto l’ordine di assalire i Goti in Dalmazia, riuscì a riprendere Solona.

    La Sicilia capitolò facilmente agli assalti Bizantini, le città presidiate dai Goti capitolarono una dopo l’altra, e con la presa di Palermo, la più fortificata, Belisario si vide nel palmo della sua mano l’intera isola.

    La caduta di Palermo diete vita a tutta una serie di negoziati fra Teodato e l’Impero.

    Teodato era disposto a cedere il regno per evitare una guerra contro i greci, ma la sconfitta di Mondone in Dalmazia, trucidato dai Goti di Grippa, Asinaio e di altri comandanti Goti, rafforzò l’animo timoroso del Re che rifiutò le trattative con l’Impero e si preparò a muovere battaglia contro il nemico.

    Per contro, Giustiniano inviò Costanziano in Dalmazia a riconquistare Salona una seconda volta, occupata da Grippa e i suoi uomini. Come sperato, questi riuscì a mettere in fuga il nemico e a rimpossessarsi di tutta la Dalmazia e la Liburnia, assoggettando all’Impero gli abitanti Goti di quelle terre.

    Ricevuto poi ordine di scacciare i Goti dall’Italia, Belisario lasciò un presidio a Siracusa e Palermo e sbarcò col resto dell’esercito a Reggio, che fu consegnata senza combattere da Ebrimuth, genero di Teodato, spedito poi a Costantinopoli, dove il titolo di Traditore gli fu abilmente mascherato con quello di Patrizio. Gli abitanti delle terre vicine, le cui città erano sguarnite di mura, o che avevano in odio i Goti, si diedero anch’essi spontaneamente a Belisario, lasciando che proseguisse indisturbato nella sua avanzata fino in Campania.

    Solo Napoli arrestò la sua corsa.

    E mentre due grandi eserciti si affrontavano per sconvolgere una nazione, un solo uomo aveva già sconvolto quasi un’intera regione.

    Un giorno quest’uomo portò la cultura in quei villaggi di pastori, che spaventati e stanchi vedevano ormai ad occhio nudo l’alba del giorno del giudizio e tremavano al pensiero dello squillo delle trombe degli angeli di un Dio che sembrava averli abbandonati. Quest’uomo, credendo di far bene, portò regole, leggi e divieti. Sconvolse il loro credo, le loro abitudini, i loro costumi.

    Voleva plasmare le loro anime, invitandoli ad uno stile di vita privo della corruzione di un Mondo al tramonto del suo essere, e fece di questo ideale la sua missione di vita.

    Il suo nome era Benedetto.

    2 Luglio 542 d.C.

    L’abitudine del percorso ormai permetteva a Luca di attraversare la galleria sotterranea anche al buio. Soprattutto perché dall’alto della bocca del pozzo penetrava la luce notturna del cortile che gli indicava il punto in cui la galleria si interrompeva per dare spazio alla larga cisterna che raccoglieva l’acqua nel fondo. Acqua che nessuno prelevava mai. Acqua che non produceva alcun suono quando da ragazzini vi gettavano un sassolino all’interno per calcolare la profondità del pozzo. Acqua che non si riusciva a scorgere neanche dall’imboccatura della galleria, fosse l’oscurità della notte o la cisterna troppo profonda la causa, Luca non avrebbe saputo dirlo. Più di una volta, scivolando sul viscido muschio delle pareti durante l’arrampicata, aveva rischiato di cadere in quel baratro apparentemente senza fondo, ma ormai aveva imparato a tenersi stretto alla corda e conosceva tutti gli appigli nella roccia.

    Da quando era sceso alla galleria la prima volta, si era calato da quelle pareti tutte le notti, più di una volta per notte. Raggiungeva il bosco di venere e se ne stava seduto su uno spuntone di roccia ad osservare la vallata illuminata appena da qualche lanterna lasciata accesa lungo le vie principali della città e dei villaggi.

    Non riusciva a dormire più di un paio d’ore, da quando il ritorno al Monastero gli aveva tolto il sonno e la pace.

    Sistemato il suo compagno di fughe all’ingresso della grotta, si affrettò anche quella mattina a rientrare in dormitorio, ogni mattina sempre un po’ più tardi.

    Fra non molto il sole avrebbe iniziato a tingere di rosa le cime dei monti all’orizzonte. Come tutte le volte che era stato da Cassandra, aveva perso il mattutino, ma fortunatamente era ancora in tempo per le Lodi. Che scusa avrebbe trovato ora? Doveva fare presto.

    Correva quasi, nel buio più oscuro della notte. Voltò a sinistra e poi a destra, dove la galleria curvava per seguire il corso naturale della montagna. Voltò ancora a sinistra e proseguì sempre dritto per raggiungere l’apertura opposta già illuminata dai primi bagliori dell’alba.

    Rallentò il passo, il più era fatto. Sciolse la corda dal chiodo alla parete e l’afferrò per iniziare a tirarsi su, ma non appena entrambe le mani impugnarono la fune una fitta lancinante parve spaccargli in due il cranio. Perse il controllo del suo corpo per un istante, il tanto che bastò a fargli mollare la presa rischiando di cadere di sotto.

    Dondolò, lottando per non perdere l’equilibrio e vincere una forza oscura che lo spingeva, come nella sua visione, e come allora, guardando ai suoi piedi, vide due file di fiaccole sorrette da due file di uomini incappucciati, ma questa volta, uno di loro sollevò il capo a guardare verso l’alto e Luca poté vederlo distintamente in volto. Era un uomo, non molto più grande di lui.

    Durò un attimo, prima che le luci si spegnessero e il dolore cessasse. Quando si riebbe, Luca si accorse di non essere in piedi, ma in ginocchio, con le mani a terra e il viso rivolto a guardare il fondo nero del pozzo.

    Si passò il dorso della mano sulla fronte per asciugarsi un sudore freddo che gli scuoteva le membra. Si sollevò a fatica, quasi le forze non si fossero ancora destate da quell’incubo. Si appoggiò con la schiena alla parete e attese ancora un momento. In quelle condizioni non sarebbe mai riuscito a risalire.

    Era ancora lì che cercava di tenere a bada un tremore incontrollato quando vide un bagliore giungere dal passaggio di fronte, il portone era aperto, non lo aveva mai visto aperto prima. Per un attimo credé in una nuova visione e si coprì il volto con le mani per non vedere oltre, ma una voce familiare lo riportò alla realtà.

    Si sentiva un parlottare fitto di Antonino, e solo qualche breve risposta dell’Abate.

    Da quella distanza Luca non riusciva a capire cosa si stessero dicendo. Se si trattava di una galleria gemella, come gliel’aveva descritta Ettore, i due monaci dovevano trovarsi all’ultima curva.

    Ma cosa ci facevano lì sotto, e da dove erano passati? Possibile che l’Abate avesse avuto la forza di calarsi fin lì? E dov’era la corda che li avrebbe riportati in superficie? No! Doveva esserci di certo un altro passaggio, più comodo.

    Nonostante nuvoloni carichi di pioggia avessero oscurato il sole il giorno prima, la terra arida non poté dissetarsi con neanche una delle sue gocce, che evaporarono al sole ancor prima di riuscire ad essere assorbite dal terreno.

    I prati iniziavano a mostrare le prime macchie paglierine, segno per i pastori che era giunto il momento di spostare il gregge più in vetta, dove l’estate giungeva in ritardo e l’erba era ancora fresca.

    Prima dell’arrivo dei monaci, la pianura che ora ospitava il loro convento aveva sempre accolto il bestiame, in quel periodo, così da riservare i pascoli più in alto per i giorni ancora più aridi, ma da quell’anno i pastori avrebbero dovuto cercare altrove, malgrado padre Valerio e Tommaso avessero dato il loro consenso ad accogliere il gregge in vetta come d’abitudine.

    Preta Cautata ormai era un insediamento barbaro, e Bulf, benché tollerasse la presenza del gruppo di religiosi cristiani sulla vetta, aveva apertamente espresso la sua insofferenza nei loro confronti e in tutti quelli che si fossero ostinati a professare la fede nel Dio cristiano.

    Si era alzato presto Lucio quella mattina, si era vestito sbuffando e brontolando come al solito, aveva raggiunto alla stalla il bracciante alle sue dipendenze, aveva sellato il cavallo, liberato i cani e aperto il recinto delle pecore pronto a raggiungere la piana della pineta.

    Dall’arrivo di Bulf, era stato costretto a sostituire la sua sontuosa casa con due misere stanze vicino le stalle, fino a poche ore prima destinate a magazzino per la sua merce.

    Era costretto a portare la sua famiglia a mangiare alla locanda tutti i giorni. Era stato costretto a vendere i servigi della sua servitù al nuovo padrone, non avendo più un lavoro in cui impegnarli. Aveva tenuto a servizio solo Medea, per aiutare Elena e Cassandra nelle faccende di tutti i giorni, e il giovane Augusto per aiutare lui con il lavoro.

    Lucio quella mattina uscì senza neanche salutare sua moglie, che da due giorni ormai gli rivolgeva appena la parola.

    Andava di male in peggio.

    Un’ombra oscurava i suoi occhi, se ne erano accorti tutti al villaggio. Alla locanda i più non osavano neanche parlargli, chi per timore di una delle sue solite reazioni esagerate, chi per rancore d’aver condotto il nemico e lo scompiglio nelle loro case.

    Per raggiungere il pascolo della pineta, Lucio dovette sfilare col suo gregge di fianco al convento, e poté assistere alla folla di miserabili, in fila davanti al magazzino in attesa della loro razione di cibo.

    Lucio provò una punta di disprezzo verso quei poveri disgraziati, ma più di tutto provò astio verso quei monaci che avevano invaso le sue montagne, quasi attribuisse alla loro venuta tutte le sue sventure.

    Anche Cassandra si alzò di primo mattino. Non aveva chiuso occhio, era ancora turbata dalla discussione avuta con Luca quella notte. E se avesse creduto alle sue parole? Se davvero non fosse più tornato da lei? Il solo pensiero d’averlo perso la faceva impazzire.

    In strada i bambini più mattinieri si rincorrevano combattendo con spade di legno e piccoli scudi di canne. Giocavano alla guerra. Claudio li osservava dal ciglio della strada, seduto su un tronco della palizzata che raccoglieva al suo interno le pecore di Lucio tornate dal pascolo. Sembrava triste e assorto in cupi pensieri.

    Cassandra lo fiancheggiò, ma lui non se ne accorse. Sembrava che fissasse i bambini, ma in realtà il suo sguardo li oltrepassava per perdersi in qualcosa che poteva vedere solo lui.

    Si destò solo quando Cassandra scosse la recinzione e per un attimo rischiò di perdere l’equilibrio.

    Lei rise divertita e lui ricambiò il sorriso, senza distogliere lo sguardo dritto avanti a sé, ma era un sorriso amaro il suo, di semplice cortesia.

    - Non ti ho ancora ringraziato per quello che hai fatto per noi l’altro giorno.- disse lei porgendogli una mano per farsi aiutare a salire, ma lui non la vide.

    - Non ringraziarmi, non ho fatto nulla.-

    - Ci hai provato.-

    Cassandra provò inutilmente a guardare nella direzione che indicavano gli occhi di Claudio, ma c’era solo una parete dell’abitazione di Igino di fronte a loro.

    - Non sono donna di molte parole,- disse imitandolo - te ne sarai accorto. Non sono proprio quella che si può definire una buona compagnia. Tuttavia, chi mi conosce potrebbe assicurarti che so dare buoni consigli se è necessario.-

    Claudio sorrise. Un vero sorriso stavolta.

    - Che cosa ti turba?-

    - Brutti ricordi!- rispose lui.

    - Ricordi di guerra?- chiese piano, quasi quella parola potesse ferirlo - Quel barbaro ti conosceva, parlavate di antichi rancori.-

    - Ricordi di sangue… - precisò rivolgendole lo sguardo per la prima volta - …ricordi di morte.-

    Cassandra avrebbe voluto chiedergli di raccontarle cosa fosse accaduto, ma non ci fu bisogno che parlasse, ancora una volta, quell’uomo giunto dal nulla nella sua vita, le lesse dentro. Percepì i suoi pensieri e iniziò a narrarle la sua storia.

    - Belisario, era finalmente riuscito a restituire Napoli all’Impero. Se uno dei suoi isauri non avesse trovato per caso una breccia fra le mura nascosta dalle acque dell’acquedotto, non sarebbero mai riusciti ad entrare in città. Mio fratello militava come ufficiale nelle schiere imperiali e mi ha raccontato come sono entrati di nascosto in città in piena notte per aprire le porte all’esercito appostato presso le mura. L’occupazione di Napoli permise finalmente al Generalissimo di rivolgere tutte le sue attenzioni alla riconquista di Roma, ancora in mano ai Goti di Teodato.

    Il Re non aveva mosso un dito per accorrere in aiuto dei suoi uomini sotto assedio, e questo errore gli costò la corona e la vita per mano dei suoi stessi soldati.

    Nel mese di dicembre dell’anno 536 di Nostro Signore, Vitige prese il suo posto sul trono, un uomo di umili origini, ma di sicuro molto più valoroso del suo predecessore.

    Belisario marciava su Roma e Vitige non aveva uomini a sufficienza per ostacolarne l’avanzata, così ritenne più saggio lasciare Roma e ritirarsi a Ravenna per reclutare uomini, ma non prima

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