Obama, l’America e il partito moderno
By Lodovico Festa and Giulio Sapelli
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Book preview
Obama, l’America e il partito moderno - Lodovico Festa
Anno 2013
ISBN 978-88-6797-019-3
© goWare per l’edizione digitale
Redazione: Maria Rosa Brizzi
Copertina: Lorenzo Puliti
Sviluppo ePub: Elisa Baglioni
Soundtracker: Stefano Cipriani
Ricerca iconografica: John Akwood e Patrizia Gilardi
goWare è una startup fiorentina
Fateci avere i vostri commenti a: info@goware-apps.it
Blogger e giornalisti possono richiedere una copia saggio a Maria Ranieri: mari@goware-apps.com.
Made in Florence on a Mac
L’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non gli è stato possibile comunicare, nonché per eventuali involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti dei brani riprodotti nel presente volume.
Musiche degli intermezzi (1 minuto, selezionate da Stefano Cipriani): The Smashing Pumpkins, 1979; Creedence Clearwater Revival, Proud Mary, 1969; Michael Jackson, Billie Jean, 1983; Neil Young, Rockin’ in the Free World, 1989; Steppenwolf, Born to be Wild, 1967; Elvis Presley, Suspicious Minds, 1969; Bruce Springsteen, Born to Run, 1975; Guns N’ Roses, Sweet Child O’ Mine, 1988; Red Hot Chili Peppers, Californication, 1999; Eagles, Tequila Sunrise, 1973; Nirvana, Come as You Are, 1992; Jeff Buckley, The Last Goodbye, 1994; The Blues Brothers, Gimme Some Lovin’, 1980; John Mellencamp, Human Wheels, 1993; Aretha Franklin, I Say A Little Prayer, 1968; Al Green, Let’s Stay Together, 1972; James Brown, Living in America, 1985; Jimi Hendrix, Voodoo Child (Slight Return), 1968; Bob Dylan, Like a Rolling Stone, 1965; R.E.M., Losing My Religion, 1991; Iggy Pop, Lust for Life, 1977; The Doors, People Are Strange, 1967; Lacksley Castell, Johnny Brown, 1983; Pearl Jam, Just Breathe, 2009; Lou Reed, Walk on the Wild Side, 1972; Inno degli Stati Uniti d’America
1º Presidente degli Stati Uniti d’America, dal 30 aprile 1789 al 4 marzo 1797
The Smashing Pumpkins, 1979 [Ascolta l’anteprima su su iTunes]
La base elettorale di Obama
Creedence Clearwater Revival, Proud Mary, 1969 [Ascolta l’anteprima su iTunes]
La rielezione di Obama era prevedibile?
Lodovico Festa – Era prevedibile la rielezione di Barack Obama?
Giulio Sapelli – Personalmente pensavo che la situazione di incertezza mondiale e quella – pur un po’ meno preoccupante – degli Stati Uniti avrebbero aiutato una riconferma: una grande paura come quella provata nel 2008 per il crollo di Wall Street può spingere a cambiamenti radicali come fu l’arrivo di un presidente nero alla Casa Bianca. Una media paura come quella che oggi percorre la società americana favorisce invece la riconferma.
L.F. – È in parte la tendenza di tutte le elezioni occidentali dal 2011 in poi: dalla Francia (François Hollande ha rappresentato il candidato più tranquillo
rispetto a un Nicolas Sarkozy condizionato dai lepeniani) all’Olanda, alla stessa Grecia che sceglie il leader di Nea Dimokratia al posto di qualsiasi altra scelta più radicale. Anche se poi c’è stata alla fine del dicembre 2012, in controtendenza la vittoria di un candidato abbastanza di destra in Giappone, Shinzo Abe.
G.S. – Semmai il voto americano è stato un po’ tiepido verso il riconfermato rispetto alla tradizione: normalmente il presidente in carica o perde o viene rieletto con più voti della prima volta
, invece Obama passa dalla vittoria ampia del 2008 a quella più contenuta del 2012.
L.F. – Senza dubbio sul voto del 6 novembre 2012 ha pesato il fattore disoccupazione. Come andavano dicendo i repubblicani è difficile per un presidente, durante il cui mandato i posti di lavoro sono diminuiti rispetto a quando lui è entrato in carica, sostenere senza problemi una campagna elettorale.
G.S. – Però va constatato come fossero ancora troppo evidenti i lasciti delle amministrazioni repubblicane per rovesciare la frittata.
L.F. – Nella denuncia di questa eredità dell’amministrazione Bush, Bill Clinton ha dato un grande contributo alla campagna presidenziale con un suo intervento – come sempre impeccabile dal punto di vista oratorio – alle primarie democratiche.
G.S. – Anche se poi una bella fetta delle magagne della finanza a stelle strisce scoppiate nel 2008 sono dovute proprio alla presidenza Clinton. Sul voto ha poi contato la macchina elettorale intorno a Obama, che si è dimostrata esemplare.
L.F. – Mentre in molti hanno sottolineato la fragilità della leadership di Mitt Romney, che si è fatto incastrare nel ruolo del candidato dei ricchi
anche grazie a una sapiente campagna contro
.
G.S. – Naturalmente, poi, si devono fare i conti con la coalizione che ti elegge: gli uomini di Chicago che hanno per due volte guidato la conquista della Casa Bianca hanno messo insieme negli Stati cruciali (gli swing states, quelli senza una prevalenza sicura di uno dei due partiti) una maggioranza
di minoranze
. Questo fattore consentirà poi di governare efficacemente? Fino a che punto avere fatto una campagna contro
invece che per
ti offrirà i necessari spazi di manovra?
Obama e il sindacato americano
L.F. – Gli elementi che hanno permesso la conquista di tutti gli Stati pericolanti (dall’Ohio alla Florida, solo North Carolina e Indiana si sono persi rispetto al 2008) sarebbero, oltre alla compattezza dell’elettorato nero, i voti dei latinos (di origine centro-sudamericana e di lingua spagnola che hanno votato al 71 per cento Obama), dei giovani (oltre il 60 per cento degli elettori sotto i trenta anni) e dei lavoratori dell’auto particolarmente grati per i salvataggi di Chrysler e Ford, e decisivi in Ohio.
G.S. – Mentre il voto dei lavoratori sindacalizzati (specie bianchi e non giovani) non è andato a Obama nella misura del 2008: forse hanno pesato anche le promesse non mantenute sui diritti sindacali da consolidare.
L.F. – Invece le scelte sulla sanità non interessavano questo segmento di elettorato?
G.S. – Non in particolare, anzi infastidivano in parte la dirigenza sindacale che non vuole che le assicurazioni di cui le Union sono spesso soci pesanti, siano oberate da costi impropri come quelli determinati da tariffe in qualche modo amministrate o comunque sorvegliate dallo Stato. Piuttosto la sanità obamiana interessava le industrie che volevano superare il welfare company
, cioè un sistema di previdenza fondato sugli accordi (e poi sugli investimenti) nella singola azienda. Con le assicurazioni private ma obbligatorie le aziende nella prospettiva si scaricano di costi che richiedevano un tipo particolare di accumulazione e che rischiavano di diminuire la competitività rispetto ad altre imprese (vedi, per esempio, le compagnie automobilistiche giapponesi che operano in America) che non prevedevano intese con i sindacati su questo argomento.
L.F. – Funziona, dunque, ancora l’onda lunga dei blue collar (gli operai) reaganiani che, rompendo il blocco rooseveltiano, consentirono la vittoria a valanga dei repubblicani nel 1984?
G.S. – Fino a un certo punto. Per comprendere il voto dei cosiddetti latinos bisogna riflettere sul movimento sindacale americano. In Europa sappiamo quanto l’occupazione precaria influisca (non sempre tra l’altro in senso progressista) su orientamenti e comportamenti di chi ha un simile rapporto di lavoro, soprattutto in un periodo di crisi. Accademicamente si teorizza come si possano e in qualche misura si debbano cambiare con flessibilità i posti di lavoro, le capacità e le competenze: ma concretamente per cambiare professione, mentalità, luogo di lavoro occorrono tempo, disponibilità al cambiamento, risorse finanziarie, psicologiche, materiali e immateriali che non sempre sono nell’orizzonte di vita dei lavoratori. E sono assai poco studiate dai cosiddetti supertecnici. Per questo si finiscono per determinare casi di sofferenza inaudita sia tra gli occupati sia tra i disoccupati. Quelli che hanno lavoro temono per il domani, per loro e per le loro famiglie; quelli che non l’hanno, sono distrutti dall’incertezza del futuro e dalla perdita di status. Senza un orizzonte definito s’impedisce di farsi una famiglia, si creano tempeste di dolore sui lavoratori. Accettate e negoziate dai sindacati in tutto il mondo le leggi sulla flessibilità, i lavoratori, con quelle leggi, rifiutano oggi anche molte pratiche sindacali e ne inventano, invece, di nuove. I più creativi sono, in tutto il mondo, i sindacati di base dei precari, i giovani senza famiglia alle spalle, con una visione aperta della società del rischio che fa loro non rifiutare completamente la precarietà. Ma un conto è viverla in tempi di crescita economica e un conto quando c’è la crisi. Allora il bicchiere della flessibilità è mezzo vuoto e non mezzo pieno e alla varietà lieta si sovrappone l’angoscia, pericolosa per la salute mentale prima che per il livello di vita materiale.
L.F. – In Europa però questi movimenti creativi
sono spesso ricchi di irrazionalità, di rabbia poco costruttiva.
G.S. – In questo senso è opportuno leggere bene quel che succede negli Stati Uniti che anche in questo caso si dimostrano il Paese più pluralista e migliore del mondo, in cui vi è di tutto: si formano nuovi sindacati più combattivi e di base, e si organizzano anche con l’Afl-Cio gli immigrati e i clandestini. Un fenomeno che pare inaudito in larga parte dell’Europa. Il sindacato americano, come nei Paesi scandinavi e in Australia, mentre contratta si preoccupa anche del welfare, non statale ma autogestito dal basso. Perché questo è il nuovo orizzonte: la difesa del lavoro non potrà più passare solo per la contrattazione tra le parti sociali (dove i sindacati continuano comunque a essere indispensabili) ma pure per la creazione di nuove forme comunitarie di welfare che assumeranno anche forme di nuove unità economiche non capitalistiche.
L.F. – Il peso del sindacato americano è dunque così forte?
G.S. – In America organizzare il sindacato è una lotta lunga, difficile, che impegna i lavoratori faccia a faccia con i datori di lavoro. Una lotta che vede in diversi casi la legge schierarsi in potenza a fianco dei lavoratori. E grazie a questo si è acquisita la possibilità che il principio di maggioranza, tramite l’esercizio del voto nel luogo di lavoro, doni alla volontà associata di esercitare la potestà di rendere irreversibile l’organizzazione sindacale. Pur con tutte le ambiguità tipiche di ogni possibilità realizzativa che discende da una legge e quindi da una potenza che deve trasformarsi in atto con possibili confronti sul piano legale tra opposte parti sociali, che possono vedere i lavoratori anche in svantaggio. Ma valga la sostanza: ci si può organizzare una volta superato l’esame del voto che la legge impone anche al datore riottoso e violento, e sulla base di quella organizzazione ecco instaurarsi il principio che vieta o limita la presenza dei free rider (quelli che acquisiscono i frutti delle lotte senza accettare i sacrifici della militanza sindacale), a differenza di tutti regimi, giuridici o di fatto, di erga omnes come in Italia. Chi è iscritto al sindacato e lotta per i diritti suoi e dei suoi compagni associati, gode di una differenza salariale, di vantaggi contrattuali differenziali: non il frutto della cornucopia che invece l’ideologia della classe generale
versa copiosamente ai lavoratori non organizzati, non iscritti, non associati ma che pur godono dei vantaggi strappati con sacrificio dagli organizzati.
L.F. – Ma questo non implica egoismo organizzativo, chiusura razzista, come spesso si sente dire dai classisti
nostrani?
G.S. – In A theory of labor movement (1928) Selig Perlman – libro fantastico, pubblicato in Italia con una ancor più fantastica introduzione di Gino Giugni (1956, La Nuova Italia) – si spiega come fondamentale sia essere on the job, organizzati sul lavoro, per il lavoro, nel luogo produttivo: è lì che si crea il sindacato ed è li che si riproduce con la sua forza, grazie al formidabile pluralismo della società nordamericana. Si consideri l’accordo che nel 2011 la stessa Afl-Cio ha siglato con la grande organizzazione dei lavoratori immigrati (clandestini o no) per difenderne i diritti, per assisterli legalmente, per sostenerne le lotte: sono più di undici milioni di lavoratori aderenti a una organizzazione diretta da un leader naturale, nato nella lotta organizzata, e trovano, grazie al sindacato nordamericano, una speranza di affermarsi nella vita, loro e loro famiglie, con dignità e divenire cittadini degli Stati Uniti.
L.F. – Nella discussione italiana questo ruolo del sindacato americano è stato assai poco sottolineato.
G.S. – Vogliamo parlare anche solo del ruolo internazionale del sindacato americano? Si consideri il Sud America, un continente che amo e conosco. Ebbene il famosissimo Presidente Lula, il suo sindacato, il suo partito, senza la Cisl internazionale e il sindacalismo statunitense, non esisterebbero. Nessuno lo ricorda mai, ma è così.
L.F. – Insomma il sindacato negli Stati Uniti continua a essere, nonostante le sue crisi, un potentissimo fattore di inclusione e di cittadinanza, di estensione e di rafforzamento del pluralismo.
G.S. – E della poliarchia democratica. Certamente gli anni del neoliberismo dispiegato hanno messo a dura prova questo modello di sindacato associativo, con i suoi contratti aziendali, con il suo company welfare, anche con le sue opacità culturali che non impediscono tuttavia una straordinaria vitalità associativa. La mazza ferrata del neoliberismo, liberatoria contro la statolatria ma terribile per i lavoratori, si è abbattuta sul sindacalismo nordamericano colpendo le imprese e gli operai più esposti al vento della concorrenza internazionale: l’industria automobilistica in primis, dove le roccaforti del sindacalismo avevano costruito un welfare atipico nel sistema sociale nordamericano, che poi è divenuto punto di discussione critica in tutto il corso della lunghissima campagna elettorale nordamericana (e alla fine carta vincente per Obama).