La Nave
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Book preview
La Nave - Fera Vincenzo
Vincenzo Fera
La Nave
Youcanprint Self-Publishing
Copyright © 2012
Youcanprint Self-Publishing
Via roma 73 - 73039 Tricase (LE)
Tel. 0833.772652
Fax. 0832.1836533
info@youcanprint.it
www.youcanprint.it
Titolo : La Nave
Autore : Vincenzo Fera
Illustrazione di copertina: Vincenzo Fera
ISBN: 9788867510160
Prima edizione digitale 2012
Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore.
Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941
Table of Contents
La Nave
Colophon
Ricordi d’infanzia e Primo Amore
Il ciclone e l’Alba
L’imprevisto ed i cordoni della vita
Rabbia e felicità
La Rivelazione
Il vento
La Casa e la Discendenza
L’Epilogo Di Via Mozart N. 13
Il filo spezzato
L’ Illusione e il Sogno realizzato
Ricordi d’infanzia e Primo Amore
Mi dicono che ho una pessima memoria, ma non credo. E' vero, a volte provo invidia nel sentire persone raccontare episodi infiniti e particolareggiati della loro infanzia, della loro adolescenza. E' un dono naturale, ricordano tutto: i nomi dei compagni di classe della seconda elementare, i loro vestiti, il colore delle cartelle, dei quaderni, tutto. Io, nulla di tutto questo, il buio più assoluto, niente.
Ma perché ricordo così bene, nitidamente, quella nave che per anni s'incunea senza alcun nesso nei miei pensieri che vagano a ritroso nel tempo? Perché si presenta senza essere invitata nelle mie riflessioni quando sovente mi attardo a rivisitare il mio passato?
Poi ci ripenso e mi dico che, però, anche con me la natura è stata benevola. Einstein, a quanti gli chiedevano quanto era l'esatta misura della circonferenza terrestre rispondeva di non saperla, che era perfettamente sciocco memorizzare queste e simili informazioni e che fosse invece importante capire come calcolarla partendo da semplicissimi dati. Certo, almeno la misura del raggio terrestre Einstein doveva pur ricordarse.
A prescindere, però, da questo particolare e con le dovute ‘relative’ distanze, anch'io credo che sia effettivamente inutile ricordare a memoria il peso atomico degli elementi chimici o i nomi e numeri telefonici delle pizzerie della città. Memorizzare, cioè, dati su dati senza alcun criterio o selezione. In ogni caso, per mia natura sono stato strutturato in maniera tale da immagazzinare solo alcune cose e solo quelle che poi, alla lunga, si rivelano importanti, essenziali.
Io ho dei ricordi bellissimi, nitidissimi, della mia infanzia, quattro, cinque non di più; della mia adolescenza, alcuni. Un concentrato di episodi, pochi particolari, ma quello che è fortissimo è il sapore intenso di quelle sensazioni che rivivono magicamente al solo ricordo.
Avevo sei anni e da Livorno dove sono nato, ci trasferirono a Piombino, in provincia. Mio padre era tenente dei carabinieri e come per i preti, penso che vigesse per loro l'obbligo del trasferimento periodico d'ufficio: non dovevano avere il tempo di radicarsi in un ambiente per il timore che lunghi periodi di frequentazione ed eventuali implicazioni affettive con la gente del posto, potessero minare quel distaccato rapporto che deve esistere tra i rappresentanti della forza pubblica ed il cittadino. Così, dall'infanzia all'adolescenza, vagabondai di qua e di là all'interno della Toscana.
Di Livorno ricordo una nave, una grande nave ormeggiata in una banchina del porto, malandata, arrugginita; ed un parapetto. Alloggiavamo in un appartamento di un palazzo che un tempo era la caserma di una compagnia zonale dell'arma: era enorme, dal salone di casa, ex sala di riunione degli ufficiali, si apriva una grandissima finestra dalla quale in fondo, giù, oltrepassati i tetti e le terrazze di case in discesa, si stagliava azzurrissimo il mare, la porzione finale del porto e l'inizio del bellissimo lungomare livornese. Diverse navi ovviamente, si alternavano quotidianamente nel porto, attraccavano e ripartivano per chissà dove, ma la prima che guardavo quando mi affacciavo era sempre quella, sempre più scura, sempre più trascurata. Tutti trafficavano intorno alle altre linde e vanitose ed in frenetico movimento, lei riposava, ferma, decadente ma austera, sembrava aspettasse. Perché ne ero così attratto?
L'altro ricordo riguarda un parapetto. Dal portone del palazzo si arrampicava una scala di marmo ampia e sinuosa fino al terzo piano; da qui Michele, il mio più caro amico, ed io, salivamo sul corrimano levigato e arrotondato di breccia rossa del parapetto e ci lasciavamo scivolare fino al piano terreno: un’estasi. Arrivavamo in fondo con la testa che ci girava ed un impercettibile quanto inspiegabile rigonfiamento sotto la cerniera. Lo sfregamento continuo e costante su quella liscia superficie ci procurava delle specialissime e dolcissime sensazioni che non sapevamo spiegarci.
Il sesso faceva la sua prima comparsa a nostra insaputa; ogni tanto li tiravamo fuori e rimanevamo per lunghi secondi a guardarceli incuriositi ed imbambolati finché misteriosamente, si rimpicciolivano nuovamente.
Avevamo sei anni e scoprimmo così involontariamente le prime gioie del sesso, un mondo sconosciuto, ma di cui già casualmente percepivamo l'esistenza; ci riabbottonavamo frettolosamente i pantaloni e via di corsa per l'ennesimo viaggio. Naturalmente dei nostri giochi questo era il preferito. Appena sua nonna, grassissima su quella piccola sedia, s'addormentava nell'immenso atrio del palazzo, mollavamo trenini e palloni e correvamo lungo le scale coscienti ed inebriati dal piacere che ci aspettava. L'anno dopo partimmo, non ho visto mai più Michele.
Di Piombino ricordo tre episodi, due riguardano mio padre. Aveva assunto da pochi mesi servizio e ogni tanto veniva a prendermi a scuola. Una mattina c'era con lui un allievo sott'ufficiale e camminavo in mezzo a loro quando quest'ultimo disse:Eccolo lì....
.
Mio padre avanzò di qualche metro e redarguì pesantemente quella persona, sentii che rammentava le camere di sicurezza, era una minaccia, ma io le avevo viste quelle camere in caserma: il soppalco di legno con su il lettino, il bagnetto piccolo, il tavolinetto con su il vassoio, le posate pulite e mi sembrava una bella stanzetta tutta in ordine ed accogliente e non mi capacitavo come potesse essere una punizione mandarlo lì.
Ciò che mi colpì però, fu che giorni dopo, allo stesso individuo mio padre, in borghese, porgeva benevolmente dei soldi e delle pacche sulle spalle con fare fraterno, ..Ha una situazione terribile, poveretto, ...
diceva poi a mia madre mentre io continuavo a non capire. L'altro episodio riguarda un Natale ma non ricordo l'anno.
Avevamo aiutato la mamma ad apparecchiare la tavola e preparato letterine e addobbi vari aspettando festanti l'arrivo del babbo che giunse di lì a poco, ma in compagnia del barbone che sostava vicino casa perennemente avvolto nel suo mantellone puzzolente e che tanta paura faceva a mia sorella di mattino presto, quando andavamo a scuola. Alla sua vista infatti, Paola, si mise a gridare, ci fu un trambusto generale, ma alla fine tutto si ricompose. Il barbone tutto barba e capelli fu fatto sedere proprio accanto a lei, rassicurata da mio padre che le diceva: Vedrai è come me e te solo che veste a modo suo e litiga spesso con l'acqua..
.
Piano piano prendemmo confidenza con l'omone che mugugnava e ridacchiava e presto ritornò la festosa atmosfera. Da quel giorno in poi, la mattina presto salutavamo con allegria il nostro nuovo amico che sicuramente ignorava la nostra evoluzione, lui, si comportava esattamente come prima, come sempre. Noi continuavamo a salutarlo, ma non capivamo il perché della sua indifferenza: Eravamo amici ormai...boh!
ci chiedevamo.
A quell'epoca dovevo avere sei o sette anni e giocavo con Sandro e Matteo miei coetanei e vicini di casa. Il nostro divertimento preferito era fare esperimenti. Il padre di Sandro era farmacista ed in casa sua circolavano provette, beker e quant'altro e noi mescolavamo tutto ciò che ci capitava a tiro: farina, concime, borotalco, marmellate. Inventavamo pozioni per lo più puzzolenti alle quali poi davamo fuoco; eravamo attratti dal fuoco che modificava gl'impasti fra crepitii e fumi nauseabondi. Un giorno rimanemmo soli a casa di Matteo e scendemmo giù nei locali della tabaccheria di suo padre e mentre loro saccheggiavano caramelle, lucidi per scarpe e tutto ciò che potesse servire per i nostri intrugli, io aprii il cassetto dove tenevano le sigarette sfuse e ne rubai una: era una ‘Nazionale’ senza filtro. Poco dopo, in un angolo della stanza, a turno, tremanti e affascinati, tentavamo d'inghiottire fra occhi arrossati e conati di vomito, quello sgradevole composto fatto di niente.La sera, mi venne la febbre. Mia madre mi mise a letto presto pensando ad un'imminente influenza: io stavo male, ma non di un male fisico.
Non accusavo particolari dolori tranne il leggero bruciore alla gola, ma sentivo una profonda sensazione di malessere che mi faceva piangere a dirotto amplificando quelle brutte sensazioni che talvolta provavo dopo aver disubbidito ai miei o combinato qualche marachella cosciente d'averla fatta. Poi la febbre probabilmente salì, deliravo, ero madido di sudore e vedevo gli armadi, i quadri, la lampada, gli oggetti della mia stanza diventare grandi, sempre più grandi. S'ingigantivano sotto i miei occhi assumendo sembianze umane pur restando ciò che erano, ed io lì, che mi vedevo dall'alto, da sopra il lettino, sempre più piccolo, di più, in attesa, rassegnato, di loro che si sarebbero catapultati su di me impotente.
Sul soffitto, intanto, avanzava lentamente una nube grigia, sporca, densa, fumante, dall'acre odore ed anche lei inevitabilmente mi avrebbe avvolto. Un incubo, un terribile incubo. Il giorno seguente stavo meglio, la febbre era passata, ma sul soffitto, di notte, la grigia nube stazionava ancora. L'indomani mi alzai, stavo bene secondo mia madre che non mi mandò a scuola solo per precauzione, io bighellonavo aspettando il momento di una sua distrazione per prelevare dal mio salvadanaio alcune monete, come feci, da lì a poco.
Nel primo pomeriggio le chiesi se potevo andare a giocare con Matteo: Per una mezz'oretta, fino alle 16 all'apertura del tabacchino, lo sai poi viene gente e voi fate confusione
rispose. A Matteo chiesi se anche lui era stato male, se gli bruciava la gola: Sì, ma non ho avuto la febbre e la mamma mi ha mandato a scuola
, mi rispose un po' risentito. Senti – continuai - perché non prendiamo quelle caramelle che loro ci danno per far passare il mal di gola? Quelle che bruciano, quelle trasparenti, alla menta
.
Già, andiamo
disse Matteo e mentre lui infilava il braccio e quasi la testa nel boccione di vetro, grandissimo, io di nascosto riuscii ad aprire il cassetto del bancone dove tenevano gli spiccioli, lasciandovi cadere i miei. Matteo non si accorse di nulla, ritornai a casa soddisfatto, quella sera a letto alzai gli occhi sul soffitto: era celeste, un bel celeste, chiaro, terso, delle grigie nubi nessuna traccia. Felicissimo, mi addormentai.
E devo aver dormito parecchio se il successivo ricordo, netto e dettagliato, riguarda Irene, il primo amore dei miei quindici anni. In questo spazio temporale è come se non avessi vissuto, non ho ricordanze alcune.
E' come quando esci dalla doccia ed i vapori, appannando lo specchio, ti rimandano indietro immagini indistinte. Non riesci a scorgere più nulla: del flacone di schiuma da barba, di quello del profumo, dello spazzolino da denti, nulla, nessuna traccia, spariti, confusi nella nebbia che avvolge tutto. Tu sai di essere in bagno, sei ancora bagnato, hai addosso l'accappatoio, ma ne hai la certezza solo quando l'aria che s'immette dall'esterno spanna lo specchio restituendoti gli oggetti di sempre e te stesso riflesso; ma tu, puoi dire di aver vissuto realmente in quel bagno? Chi ti dice che l'ambiente in cui eri immerso in quel lasso di tempo, fosse proprio il bagno e non un altro luogo? Quale riferimento hai per distinguerlo con certezza? Nessuno. E se diradandosi i vapori, non avessi più rivisto gli oggetti di prima, in che ambiente eri? In quale realtà puoi dire di aver vissuto in quegl’istanti? Quando non