Tragedia folle. mondo letterario di vittorino andreoli
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Tragedia folle. mondo letterario di vittorino andreoli - Maciej Bielawski
Abbreviazioni:
Prima parte: L’OPERA
1.Il giardino di carta
Dovevo vedere questo posto. Mi sono alzato dalla scrivania di scatto e pochi minuti dopo camminavo già lungo un vecchio muro, mezzo crepato, in via San Giacomo in Borgo Roma a Verona. Era caldo e le macchine che mi passavano accanto creavano un fracasso e una puzza di gas di scarico incredibili. Per fortuna dopo un centinaio di metri mi sono trovato di fronte ad un vecchio portone mezzo rovinato, in cui però erano ancora percepibili le ombre di un passato maestoso. Era l’entrata del vecchio manicomio di San Giacomo. Sono passato attraverso un piccolo cancello di ferro arrugginito e semichiuso che si trovava sulla sinistra. Di fronte a me si apriva un parco con grandi alberi, diversi sentieri e alcune panchine. Non c’era nessuno e il luogo sembrava poco frequentato. Sono stato accolto dal verde, rinfrescato dall’ombra e avvolto da una strana quiete che era in stridente contrasto con ciò che avevo appena letto e che mi aveva condotto qui. Guardavo le piante, e tra le chiome intravedevo il cielo, ma tutto questo era come uno schermo sul quale la mia memoria proiettava immagini del tutto diverse. Vedevo una cosa, ma ne percepivo un’altra molto più forte:
"Appena entrati dal portone si incontrava la palazzina della direzione, e poi, distribuiti entro un grande parco alberato, in perfetta simmetria, dieci edifici identici. Qui vivevano i matti, da una parte del parco le donne, dall’altra gli uomini. Ogni padiglione prendeva il nome dall’aritmetica e così si incontravano in successione il Primo uomini, il Secondo, il Terzo, il Quarto e il Quinto e di fronte il Primo donne, il Secondo, il Terzo, il Quarto, il Quinto. Man mano che ci si addentrava nel manicomio aumentava la gravità dei ricoverati e, di conseguenza, la loro pericolosità. Dire di un matto: ‘È del Quinto’ (e i matti venivano identificati molto più spesso con il numero del padiglione di appartenenza che con il loro nome) significava dire che era estremamente pericoloso e certo più grave del Quarto e molto di più di uno del Secondo.
Ogni edificio era disposto su due piani: quello inferiore destinato a zona giorno, quello superiore a zona notte. Di notte tutti sopra a dormire, di giorno tutti nel grande salone al pianterreno. Centoventi persone – questo era il numero dei malati destinato a ogni edificio – tenute insieme.
Unico sfogo durante la bella stagione un giardinetto circondato da una rete di protezione. Nel grande parco, invece, il matto poteva accedere solo se accompagnato.
Mutavano, tra questi padiglioni tutti uguali, lo scenario umano e l’armamentario di strumenti di contenimento di cui erano dotati; strumenti che ovviamente si intensificavano quanto più ci si avvicinava all’ultimo livello, il Quinto, dove i malati erano immobilizzati in camice di forza, legati e costretti su sedie fissate alle pareti; tra urla ma soprattutto in una puzza terribile di feci e di urina. (…)
Ma la situazione più drammatica era nel Quinto femminile. Un abominio. Donne private di qualsiasi dignità, ammassi di carne nuda gettati sul freddo del pavimento, corpi legati alle pareti e lordi di escrementi: un girone dantesco" (MM 9-10).
Era un frammento dell’appena pubblicato libro I miei matti di Vittorino Andreoli. Questo testo si è impresso nella mia mente in un modo così prepotente da non riuscire più a liberarmi di esso. Sapevo che intorno non c’era nient’altro, solo il parco, gli alberi, sentieri e panche, perché quasi tutti gli edifici di questo manicomio erano stati distrutti alcuni decenni fa, quando l’ospedale venne chiuso. Ma avevo l’impressione che, nonostante la cancellazione fisica, l’atmosfera – oserei dire lo spirito
– di questo posto fosse rimasta impressa in questo spazio. Gli antichi l’avrebbero definita genius loci
.
Nei giorni successivi, mentre continuavo la lettura del libro, sono tornato in quel posto parecchie volte e l’effetto era sempre lo stesso, anzi sembrava aumentare. Certo, sapevo che una cosa è la realtà e un’altra il testo. Conosco bene le regole dell’ermeneutica e ho una mente sufficientemente critica per non lasciarmi stregare. E nonostante ciò, l’impressione era talmente forte che, ancor prima di finire la lettura di questo libro, avevo deciso di tradurlo in polacco. Presi gli accordi necessari con una casa editrice di Cracovia e volli contattare lo scrittore stesso. Non fu un compito facile. In internet non c’erano indicazioni. Nelle pagine gialle il suo numero di telefono non si trovava. Contattare la casa editrice Rizzoli con la quale Andreoli pubblicava i suoi libri era un’impresa che rassomigliava alle disavventure del protagonista de Il Castello di Kafka. Ma non volevo arrendermi. Mi dicevo: ‘lo scrittore dovrebbe essere in qualche angolo di questa città’. Un giorno mi sembrava di vederlo camminare con la moglie vicino a Porta Leoni, nel centro storico di Verona, ma potevo sbagliarmi perché il personaggio intravisto parzialmente si copriva il volto con uno sciale rosso.
In un gesto quasi disperato chiamai l’ospedale di Soave, l’ultimo posto in cui il professore aveva lavorato fino ad alcuni anni prima, come avevo appreso da I miei matti. Colpo di fortuna. La persona che rispose al telefono sembrava conoscere e stimare Andreoli, e gentilmente mi fornì il numero di telefono che ho subito chiamato. Rispose una segreteria telefonica in cui lasciai un breve messaggio. Due minuti dopo squillò il telefono, e una voce come da lontano diceva: Sono il professor Vittorino Andreoli…
Tre giorni dopo, in una serata d’autunno, entravo in una vecchia casa stile veneziano di Veronetta e, dopo aver suonato il campanello, sentii dei passi piuttosto decisi. Venne alla porta Andreoli stesso, che mi condusse attraverso un labirinto di corridoi fino a un salotto in cui si sedette, lui su un divano e io su una poltrona. L’arredamento della stanza era piuttosto vecchio, la luce soffusa:
«Il professore era un interlocutore ideale per una serata... i suoi grandi occhi neri e profondi, impenetrabili. Misteriosi, era meglio dire, perché in quegli occhi ti perdevi e ti impaurivi. Non faceva nulla per togliersi di dosso l’alone di mistero che gli avevano attaccato. Lui si atteggiava in modo naturale e del resto uno che si occupa di svelare il comportamento, al di là delle apparenze, è meglio non si nasconda, e dunque lasci da parte le formalità e le maschere del perbenismo. Era letteralmente spettinato e sembrava che al mattino, mentre tutte le persone comuni si mettono davanti ad uno specchio e usano il pettine per mettere in ordine i propri capelli, lui li spettinasse, seguisse il criterio opposto e così li facesse andare in ogni direzione, a raggiera; e non si può meravigliare se il professore di greco che lo incontrava, pensasse alla Medusa. Tutto contribuiva a creare un alone strano, e lui non faceva nulla per opporvi una sua visione, che certo aveva diritto di essere ritenuta quella vera. Anche le cravatte, possono essere strane, ma almeno vedi che il nodo rimanga aderente al collo della camicia. L’abito blu da montanaro, ogni tanto cambialo altrimenti la gente dice: Ma è sporco
. Pochi sapevano che ne aveva comperati quattro tutti uguali e che quindi anche se sembrasse il contrario, li cambiava e si poteva dire tutto, ma non che fosse trascurato. Ma allora dillo. Così per i capelli, due parole: Non amo stare davanti allo specchio e non ho simpatia per il barbiere
. Capisco, poteva fare imbestialire una categoria. Giochi di diplomazia: Amerei tanto sedermi su una poltrona da parrucchiere, ma mi manca il tempo
. Espressione più carina rispetto al commento dominante della gente: Sta ore a spettinarsi
. Certo alle sopracciglia non poteva fare nulla: erano folte come dei boschi abbandonati e sovrastavano gli occhi che, così, apparivano ancora più fondi e neri come il carbone del Transvaal o come quelli del demonio. Se ti guardava diritto e ti fissava, sentivi le ginocchia piegarsi e la bocca che automaticamente recitava un Requiem. (RS 32-33)»
Le ginocchia non mi si sono piegate, non mi sono impaurito e non ho recitato il Requiem. Al contrario. L’incontro fu piacevole ed efficace. La traduzione era stata inviata e durante il lavoro nei mesi seguenti ci incontrammo spesso, perché avevo bisogno di spiegazioni, che il professore mi forniva pazientemente. Poi il libro è uscito, e siamo andati insieme a Cracovia per presentarlo all’università, al dipartimento di psichiatria. Tutto questo ci ha discretamente legato e mi ha permesso di conoscere meglio l’autore e i suoi scritti.
Col passare del tempo questa conoscenza è divenuta oggetto di riflessione e doveva trovare quindi una propria espressione ben concreta. Così è nata l’idea di scrivere un saggio. Ma è emersa subito anche la questione: come realizzarlo? La personalità e la storia di Andreoli mi parevano interessanti, ma non avevo alcuna voglia di scrivere una biografia per diversi ragioni che non vale qui la pena di elencare. D’altra parte, c’erano i suoi libri, un corpus
di notevole dimensione. Cercavo di tenere distinte queste due realtà, ma non era facile. Lo stesso Andreoli mi venne in aiuto scrivendo Il matto di carta (2008) che mi indusse a pensare all’Andreoli di carta
. Qui sotto, sulla falsa riga di alcune pagine di questo libro (cfr. MC 58), attraverso una variazione sul tema
spiego meglio l’approccio che ho seguito in questo saggio.
Andreoli di carta
è un’espressione che mi piace molto. Una di quelle combinazioni di parole che finisce per assumere un fascino oscuro, capace di stimolare pensieri e suscitare emozioni. Non è facile indicarne il perché: forse è altrettanto difficile come spiegare la particolare colorazione che suscita un verso poetico. Si può tentare di trovare una spiegazione, ma rimane sempre una parte oscura e strana, un po’ misteriosa, ma non per questo meno interessante e intrigante.
Andreoli
è un personaggio da alcuni ben conosciuto, per altri totalmente ignoto, uno scienziato, uno psichiatra, una personalità pubblica della TV, uno scrittore, un uomo con la sua storia, la sua ricerca, le sue imprese riuscite e fallite, uno che è pro e contro e verso cui si può essere pro e contro, uno che affascina e che spaventa.
L’espressione di carta
indica una netta contrapposizione all’Andreoli di carne, che conosco meno di quello di carta. Questo secondo esiste nei libri, ha un profilo ben preciso e relativamente facile a tracciarsi partendo dai testi che egli ha scritto. È un personaggio che si è fatto racconto e quindi è diventato l’opera
.
Si può e si deve distinguere l’Andreoli di carne
dall’Andreoli di carta
, tuttavia non si può separarli. È un po’ come con il Giardino di San Giacomo a Verona, questo reale e, quello descritto da Andreoli, in cui la realtà e la scrittura mi sembra si sovrappongano e si completino a vicenda, e io mi trovo tranquillo tra due mondi, il reale e quello di carta. Ma non mi preoccupo molto di questa tensione, non devo fare né il filosofo, né il critico letterario. Semplicemente leggo, guardo, mi muovo tra la realtà e la carta con lo scrivere. Questi due mondi si rispecchiano reciprocamente, l’uno nell’altro, senza fine, fanno parte di me e io faccio parte di loro.
2.Una biblioteca a due piani
Non credo che abbia bisogno di introduzione la seguente citazione di Andreoli: Amo i libri, sono un oggetto straordinario. Mi piace scriverli, leggerli, raccoglierli. Qualche volta ho pensato di portarmeli a letto. Un oggetto d’amore, di piacere. Provo rispetto e timore, curiosità e fascino. Un oggetto sacro. Mi commuovo ancora, e ormai di figli di carta ne ho riempito una biblioteca e di molti mi sono addirittura dimenticato. Sono attratto sempre dal figlio che non ho, e abbandono quelli che mi girano attorno. Talora mi infastidiscono, poiché non si rendono conto che sono occupato a fare un loro fratello. Si chiama sindrome di Saturno: faccio libri e poi me ne dimentico, li abbandono
(CS 88). E non credo che sia da commentare. Voglio semplicemente ricordarla, voglio che sia presente in questo saggio come un’iscrizione sopra una porta che conduce, per esempio, a una biblioteca immaginaria, in cui i libri sarebbero collocati su diversi piani, sale e scaffali, secondo gli argomenti.
In tale biblioteca alcuni dei testi di Vittorino Andreoli si troverebbero nel settore della psichiatria, e tra di essi soprattutto Un secolo di follia. Il novecento fra terapia della parola e dei farmaci (1991), che può essere considerato una storia divulgativa della psichiatria del XX° secolo, ossia l’orizzonte dell’intera opera di questo autore. Accanto a questo volume ci starebbe bene il libro I miei matti (2004), che riprende la stessa tematica in prospettiva autobiografica: ottima introduzione per conoscere l’autore, alcune vicende della sua vita e il modo in cui ha vissuto da psichiatra. Poi Il medico e la droga (1979), uno fra primi libri scritti in Italia su tale argomento, e in seguito ripreso, rielaborato e ampliato trent’anni più tardi col titolo La testa piena di droga (2008). Il quadro andrebbe completato con L’uomo folle. Terza via della psichiatria (2007), una forma di credo psichiatrico di Andreoli, e con i trenta volumi della Biblioteca della mente, usciti con il Corriere della Sera nel 2011/2012, una forma di canone o di rassegna dei classici per i vari scrutatori dell’anima, della mente e del cervello.
Nella sala accanto, dedicata alla psicologia, si troverebbero i saggi più conosciuti del professore, come Giovani. Sfida, rivolta, speranza, futuro (1995) che è stato venduto in Italia forse in un mezzo milione di copie, a cui andrebbero aggiunte le famose e non meno lette Lettere
, che qualcuno con ironico sorriso ha definito Encicliche di Andreoli
: Lettera a un adolescente (2004), Lettera alla tua famiglia (2005), Lettera a un insegnante (2006), Carissimo amico. Lettera sulla droga (2009). Un valido bibliotecario nello stesso scaffale potrebbe collocare: Dalla parte dei bambini (1998), Istruzioni per essere normali (1999), Capire il dolore (2003), Dietro lo specchio. Realtà e sogni dell’uomo di oggi (2005), Alfabeto delle relazioni (2005), La vita digitale (2007), L’uomo di vetro (2008), Le nostre paure (2010), Il denaro in testa (2011). Sono titoli parlano da sé
e messi insieme dimostrano chiaramente l’ambito tematico in cui con questo tipo di saggistica si muove Andreoli. Tutt’altro discorso è come
lo fa, perché è proprio questo come
che valorizza questi testi e ha reso il loro autore così conosciuto e letto. Questo come
è un insieme di vari elementi: la passione e la compassione, il desiderio di aiutare e di condividere le proprie esperienze e le proprie preoccupazioni, l’erudizione e lo studio arduo della problematica trattata, l’attenzione a quello che interessa e a ciò di cui c’è bisogno di parlare, la mente dedicata alla riflessione e l’indubbio talento letterario, nonché un lavoro tenace, a cui aggiungo anche il misterioso ed ineffabile demone
che spinge chiunque lo fa a dedicarsi alla scrittura.
Ma torniamo alla nostra visita nella biblioteca immaginaria. Andreoli, che per anni ha lavorato come perito dei tribunali sui crimini più acclamati della recente storia italiana, ha scritto anche libri come Voglia di ammazzare (1996), Delitti. Un grande psichiatra indaga su dieci storie vere di crimine e di follia (2001), Il lato oscuro (2001). Un bibliotecario attento dovrebbe collocare questi testi nella sala dedicata alla criminologia. Non intendiamo soffermarci a lungo su questo punto, notiamo solamente che, accanto all’aspetto consolatorio
o terapeutico
della saggistica di Andreoli, abbiamo a che fare con il tema inquietante e molto reale della violenza nelle sue forme più spietate ed inimmaginabili. Riguardo a tale tema segnalo il libro La violenza. Dentro di noi, attorno a noi (1993); guardo la sua copertina rossa, ma per ora