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Storia della letteratura padana dall’antichità all’unità d’Italia
Storia della letteratura padana dall’antichità all’unità d’Italia
Storia della letteratura padana dall’antichità all’unità d’Italia
Ebook449 pages5 hours

Storia della letteratura padana dall’antichità all’unità d’Italia

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Il volume rappresenta la prima rassegna storico culturale di quanto prodotto letterariamente in questa parte d’Italia intesa come un mondo complessivo e dotato, pur nelle differenze regionali, di una certa omogeneità, legata alla struttura del territorio bagnato dal Po e all’uguaglianza di fondo in ambito linguistico e antropico, nonché di una forma di autonomia creativa. L’autore segue un file rouge espressivo che si dipana nel tempo sia attraverso le opere in lingua latina e poi italiana, sia attraverso gli scritti declinati nelle varie lingue locali e dialettali, patrimonio vastissimo nella sua ricchezza e per certi aspetti un po’ dimenticato. Vengono presi in considerazione, nel Medioevo e nell’età moderna, anche quegli scrittori che non hanno privilegiato solo la narrazione e la poesia, approfondendo argomenti volta per volta di ordine filosofico, storiografico, politico, artistico e culturale.
LanguageItaliano
Release dateJul 16, 2015
ISBN9788879807159
Storia della letteratura padana dall’antichità all’unità d’Italia

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    Storia della letteratura padana dall’antichità all’unità d’Italia - Andrea Rognoni

    © copyright 2015 

    by Greco&Greco editori 

    Via Verona, 10 - 20135

    Milano www.grecoegrecoeditori.it 

    ISBN 978-88-7980-715-9

    Questo volume rappresenta una rielaborazione ampliata di una serie di articoli pubblicati, tra l’inverno del 1999 e l’estate del 2002, sulla rivista settimanale Il sole delle Alpi

    Dalla Preistoria al Protoromanticismo

    Dai primordi alle muse dei Galli Cisalpini

    I primi abitanti della Padania respirarono, si mossero e manifestarono i loro sentimenti circa 150mila anni fa. A quei tempi, come dimostrano resti e oggetti ritrovati a Quinzano, in provincia di Verona, l’essere umano era in grado di fare un uso sofisticato della pietra scheggiata: i primi uomini padani sapevano lavorarla su entrambi i lati e in forma ovale per raschiare pelli e coltelli. La successiva manifestazione di umanità padana fu quella legata al cosiddetto uomo di Grimaldi, vissuto circa 30mila anni fa. La lavorazione dell’osso aveva sostituito quella della pietra, come si scopre andando a visitare la famosa grotta dei Balzi Rossi, nella parte più sudoccidentale della Padania, al confine tra Liguria e Francia. Qualche millennio più tardi, attorno ai 10mila anni fa, l’uomo padano era in grado di addomesticare gli animali, specie i suini, che rimarranno il cuore dell’allevamento di casa nostra fino a oggi, e di dedicarsi alla pesca nei fiumi e nel mare. Nell’età del Neolitico, come mostra la necropoli di Remedello, in provincia di Brescia, i padani praticavano già sepolture in terra all’interno di un villaggio palafitticolo all’aperto, arrivando a produrre vasi di ceramica a forma di campana ampiamente decorati. Durante l’età del bronzo, tra 2500 e 1000 avanti Cristo, la Padania divenne culla di nuove civiltà, alquanto diverse da quelle insediatesi nella penisola italica. Molte di esse, come dimostrano anche le curiose abitazioni delle terramare in Emilia, seppero raggiungere un livello notevole di espressività artistica e architettonica. Furono però i celti, arrivati in Padania attorno all’800 a.C., a usare per primi la scrittura, mezzo di espressione del pensiero atto a stabilire una più intensa comunicazione, preludendo anche a manifestazioni di tipo letterario.

    Della cultura gallica, già a partire della cosiddetta civiltà di Golasecca, ci sono arrivati numerosi reperti che ci fanno intendere l’alto livello espressivo attraverso produzioni artistiche e militari, come monete, vasi, armi, monili, fibule, preziosi e altre suppellettili.

    Ci sono anche delle interessantissime iscrizioni sopra vasellame di ceramica e blocchi di arenaria. Gli esperti di linguistica hanno identificato in queste iscrizioni l’uso di una lingua autonoma e originale, sia rispetto all’etrusco che all’antico latino, detta dagli esperti alfabeto leponzio. Si tratta soprattutto di dediche scritte in onore di personaggi passati a miglior vita e firmate col nome di altre persone care. ll tutto però deve tener conto che all’interno dell’intero mondo celtico, sia d’Oltralpe che padano, si tendeva a preferire, per una somma di motivi di carattere religioso e morale, una cultura di carattere orale, diffusa soprattutto da parte dei mitici druidi, sacerdoti gallici a conoscenza di profondissimi segreti sul senso della vita e della morte. In ogni caso, come scrive il filologo Aldo Luigi Prosdocimi, i celti d’Italia del sesto secolo avanti Cristo non usavano l’alfabeto latino perché la romanità doveva esser negata per un’affermazione ideologica di autoidentità culturale, di cui essi andavano molto fieri. Peccato che del loro patrimonio originario in ambito letterario poco o nulla sia rimasto. Soltanto nel 300 a. C. la romanizzazione si farà così forzata che poeti e scrittori celti saranno costretti, come vedremo nella prossima puntata della nostra storia, a esprimersi con la lingua degli oppressori latini.

    Cecilio Stazio, il primo padano in esilio a Roma

    Il primo grande padano costretto a emigrare a Roma, riuscendo a far conoscere il suo genio creativo ma non vedendo riconosciuta la sua origine celtica, risponde al nome di Cecilio Stazio, milanese vissuto tra il 225 e il 168 avanti Cristo. Pensate che fu fatto schiavo proprio durante quella battaglia di Casteggio, nell’Oltrepò Pavese, che segnò purtroppo la prima grossa sconfitta dei celti da parte degli invasori, con la triste fine del capo insubre Virdumarus a opera del cinico e sanguinario console romano Claudio Marcello.

    A Roma visse i primi anni con estrema fatica, avversato e denigrato da molti; dovette fare i conti, lui precoce commediografo di grande talento, con Plauto e le sue opere piene di volgarità. Dopo la morte di quest’ultimo cominciò a veder riconosciuta la sua bravura e scrisse una quarantina di opere con titolo greco o latino. Significativo il fatto che col passare del tempo si rivolse a una lingua e a una cultura, quella greca, che sentiva forse meno oppressiva e arrogante di quella romana. Si rifece infatti al teatro ellenistico di Menandro, più raffinato e spirituale di quello fino allora dato in pasto alle plebi romane.

    Ne uscì un tipo di rappresentazione al tempo stesso meno contorta e meno volgare di quella plautina, che rispecchiava soprattutto la saggia schiettezza celtica, che non ha bisogno di parolacce e compromessi per esprimere le verità più profonde dell’animo umano.

    Furono in molti i critici teatrali di allora ad ammettere la grande vivacità dei colori e delle immagini inventate da Cecilio e, sul piano del contenuto, la forte e coraggiosa denuncia della mania tutta borghese di comprare e vendere certi sentimenti che in realtà più facilmente «si nascondono sotto un lacero mantello», quale emerge in commedie come Fallacia (L’inganno) ed Epicleros (L’ereditiera) ma soprattutto in una delle ultime opere, Obolostates (L’usuraio), che denuncia un vezzo tutto italiota che si è trascinato fino a oggi.

    A fronte di lodi rimaste immortali (così si esprime Volcacio Sedigito: «La palma do a Cecilio Stazio che imita la vita», in un’immaginaria classifica dei maggiori commediografi) il Nostro ricevette invece aspre critiche da parte di tutti quelli, contemporanei a lui o vissuti secoli dopo, che non accettarono mai che l’arte potesse attingere a una compostezza stilistica e scenografica in grado di rispecchiare un’innata armonia interiore. È il caso per esempio di Aulo Gellio, cisteverino autore delle Notti Attiche, palestra di eclettismo esibizionista e fine a se stesso, che nel 150 d.C., all’inizio del peggior Impero Romano, dimostrerà una notevole incomprensione nei confronti del teatro ceciliano, arrivando a definirlo «troppo realistico» solo perché capace di denunciare l’ipocrisia di certi individui.

    Ci fu anche chi non tollerò mai che in una commedia del primo periodo romano, L’esule, Cecilio facesse probabilmente riferimento alla sua esperienza di insubre lontano dalla patria, esule in un’urbe che non poté mai, nonostante il successo, considerare familiare e cara.

    «Homo Homini deus est, si suum officium sciat», ci dispiace che ci sia arrivato in lingua latina e non in lingua celtica, che pur siamo convinti conoscesse bene, il testamento spirituale dell’esule Cecilio: «L’uomo è un dio per l’uomo se sa compiere il proprio dovere». Aggiungiamo noi: anche se è costretto a viver lontano dalla sua terra.

    E lontano dalla sua terra venne sepolto, proprio su quel colle del Gianicolo che sembra guardare Roma da oltre il fiume per ricordarle, col sue verde intonso, quante vittime ha voluto immolare, anche nel campo della cultura, un Urbano Potere che dopo duemila anni continua imperterrito a sfruttare e corrompere.

    Gli enigmi del mantovano Virgilio

    L’opera di Publio Virgilio Marone (il cognome è davvero padanissimo) ha avuto una fortuna enorme, grazie allo stile esemplare e ai contenuti profondissimi, tanto che il mantovano ancora oggi viene considerato il più grande poeta dell’antichità.

    Nato ad Andes, nella dolce campagna mantovana, fece i primi studi nella città di Cremona, nelle cui scuole la grammatica si masticava alla grande, e si spostò successivamente a Milano per studiare retorica. Nel 41 a.C., a trent’anni circa, si trovava a Mantova quando Roma attuò, con calcolato cinismo, l’espropriazione dei territori agricoli per ridistribuirli ai cosiddetti veterani, sorta di parlamentari a vita del tempo, vecchi tromboni impenitenti che erano riusciti a stare sempre dalla parte dei vincitori. Così la sua famiglia fu costretta ad abbandonare la piccola proprietà e lui fu ricompensato con una casetta sul colle Esquilino, nell’urbe stessa. Quando arrivò a Roma, aveva già finito di scrivere le Georgiche, poema in quattro libri sulla funzione dell’agricoltura che risente chiaramente dell’ambientazione e della mentalità padane: il lavoro, in particolare quello contadino, non vien più visto, come fanno nelle loro opere romani e italici, limitazione del piacere, bensì necessità e missione della specie umana, mezzo di nobilitazione, fonte di felicità e di saggezza. Ci voleva un padano per far passare il concetto nella cultura latina…

    Virgilio era entrato nell’orbita di Mecenate, che gli permetteva di vivere nel benessere, e dello stesso Augusto, che divenne primo imperatore romano nel 29 avanti Cristo. Sulla base del successo anche di un’altra opera, di ispirazione pastorale e padana, le Bucoliche, in dieci idilli in esametri, detti egloghe, il nostro fu spinto a scrivere quella che doveva diventare, nella mente dei capitolini, l’opera immortale della storia di Roma, più grande dell’Iliade e dell’Odissea di Omero. Nacque così l’Eneide, poema in dodici libri che prende l’avvio dall’arrivo di Enea, grande eroe troiano, sulle coste laziali, con l’inaugurazione, attraverso i primi re di Alba Longa, della stirpe che avrebbe portato fino alla famiglia Giulia e a Cesare Augusto. In realtà il poeta padano non riuscì a portare a termine l’intera opera, la cui reale ricomposizione e rifinitura fu affidata a due oscuri autori romani due anni dopo la sua morte, avvenuta per malattia nel 19 a.C. all’età di circa cinquant’anni. Lo spirito che anima l’Eneide, al di là delle imposizioni storico contenutistiche che il poeta non poteva condividere nell’intimo, si alimenta a un’arte che si rifà a una visione del mondo fondata su due forze fondamentali, per certi aspetti complementari: quella del Fato e quella della Pietà.

    Occorre amare il prossimo e portargli sempre rispetto e devozione perché solo così facendo diamo un senso a una esistenza fortemente condizionata dal destino, voluto dalla realtà divina. In effetti il mantovano non sentì mai Roma come sua patria, tanto che fuggiva spesso a Napoli o in Grecia, non potendo in ogni caso rientrare in Padania. Rimangono, nella sua biografia e nella sua letteratura, delle ombre e degli enigmi, come l’amore incompreso per la sua terra di origine e il rifiuto, mentale e fisico, di portare a termine un’opera di cui non riusciva forse ad accettare i presupposti apologetici.

    I Neoteri, o nuovi poeti padani, conquistano Roma

    Nella prima parte del primo secolo a.C. arrivò a Roma un gruppo di padani conosciuti come neoteri, o nuovi poeti, destinati a costituire un sodalizio di esuli che seppe rinnovare profondamente la poesia e la letteratura latina. Il più importante, probabilmente il fondatore della scuola, è sicuramente Valerio Catone, di origine emiliana o lombarda. Non fu trattato bene, se, come attestano alcuni storici e scrittori, fu costretto, nonostante avesse raggiunto una fama notevole, a trascorrere la seconda parte della sua esistenza in una povera capanna accanto a un orticello che gli forniva «tre cavoletti, mezza libra di farro e due grappoli d’uva». Catone era esperto di grammatica e insegnante di letteratura ma si fece conoscere e apprezzare soprattutto come poeta, attraverso due poemetti dal titolo Lydia e Dictynna: nel primo si parla d’amore, nel secondo si descrive il mito della ninfa Diana, gemella della dea che, caduta in mare per sfuggire a Minosse re di Creta, fu salvata con una rete da pesca.

    Ci ha sempre affascinato il fatto che il primo poeta padano che scrisse in lingua latina non decise di illustrare un mito maggiore, ma si soffermò su una storia minore che dai romani non era mai stata presa in considerazione, scegliendo un personaggio, la dea della caccia, che, guarda caso, è la più nordica ed europea delle varie divinità presenti a Roma, come attesta l’antropologo Frazer nel suo famosissimo libro Il ramo d’oro.

    Il fatto che l’alterego della dea della caccia venisse salvata con uno strumento tipico della cattura di altri animali deve aver colpito il padano Catone, attento da bravo grammatico alle figure retoriche che descrivono un forte contrasto tra due termini.

    Allievo prediletto di Catone fu Furio Bibaculo, nato nel 103 sulle rive del grande padre Po, a Cremona. Può darsi che il cognome derivi dalla particolare predilezione per il vino, come sostiene il lariano Plinio il Vecchio, ma abbiamo il sospetto che fin da allora alcuni romani avessero il vizio di classificare sommariamente i padani sulla base di alcuni luoghi comuni… A ogni modo Furio riuscì a farsi strada anche a Roma grazie alla sua notevole arguzia e a quel gusto della battuta che nelle sua provincia di origine non ha mai cessato di venire esercitata (si pensi al cremonese Tognazzi). Arrivò così a comporre degli epigrammi tesi a sottolineare alcuni difetti di Cesare e di Ottaviano: evidentemente noi padani avevamo già fin d’allora la voglia e la capacità di fare della satira contro il Potere… Ma il merito maggiore di Furio Bibaculo è nell’avere scritto una versione alternativa della storia della guerra gallica rispetto al bollettino governativo compilato da Cesare stesso: peccato che ne siano rimasti solo pochi frammenti. Da citare infine, tra i nuovi poeti nati e cresciuti in Padania verso la fine del primo millennio a.C., Caio Elvio Cinna, nativo di Brescia e amico del grande sirmionese Catullo, di cui parleremo nel prossimo paragrafo.

    Nelle sue opere Cinna guarda spesso con nostalgia alla terra dei galli Cenomani, caratterizzata da una fitta vegetazioni di salici. In un suo frammento (sarà un caso che di molti poeti padani che hanno scritto in latino siano rimaste solo delle parti di opere o dei frammenti sparsi?) Elvio si descrive intento a correre sul cocchio celtico a quattro ruote guidato da piccoli muli in mezzo alla campagna bresciana. Un magico flash al quale è bene ritornare ogni tanto per addolcirci il cuore.

    Il grande Catullo, sconfitto dalla prostituzione romana

    Caio Catullo era nato a Verona, già allora prospera città padana. I compilatori dei manuali scolastici del liceo classico scrivono che il grande poeta discendeva probabilmente da una famiglia nobile di origine romana ma, a un’attenta analisi, il suo cognome potrebbe risultare derivante dalla radice celtica Cat, come sostengono alcuni filologi che ritrovano nella poesia del veronese dei tratti e dei motivi di impronta chiaramente celtica. Scrisse le sue prime rime sulle rive del Benaco (attuale lago di Garda) attorno al 70 a.C., quando aveva solo diciassette anni, come ricorda con nostalgia e rimpianto nel famoso carme numero Sessantotto. Quando arrivò a Roma, a vent’anni, trovò, lui ingenuo padano dagli alti ideali e dalla sana e robusta costituzione, una società già estremamente corrotta, caratterizzata soprattutto dalla presenza della prostituzione d’élite, alimentata da ragazze o donne più attempate di elevate classi sociali, disposte a vivacizzare al massimo la scena pubblica con scandali più o meno clamorosi e irretire attraverso sottili arti di seduzione chiunque, maschio o femmina, giovane o vecchio avesse la sfortuna di venir risucchiato dagli allettamenti professionali e politici dell’Urbe. A Roma Catullo ritrova Clodia, moglie del console Quinto Metello Celere, già conosciuta nella casa paterna di Verona durante una delle vacanze a sfondo erotico che la donna teverina amava trascorrere in ogni parte del vasto territorio sottoposto al dominio romano. In poco tempo l’inesperto veronese divenne succube della volontà di Clodia, che venne non a caso da lui soprannominata Lesbia: protagonista indiscussa, con la sua bieca infedeltà, della maggior parte delle sue bellissime e amare poesie d’amore. È un sentimento delicato e profondo, dettato dalla lealtà e dalla fedeltà di chi non era abituato ai sordidi compromessi morali di una grande città mediterranea ma lei, pronta a qualsiasi esperienza e disposta a tornare da lui solo a tempo perso presentandosi ogni volta con sempre falsi slanci passionali, lo prendeva in giro, occupata com’era a soddisfare le voglie di più danarosi protagonisti delle orge, sessuali e politiche. Sentiamo Catullo in una poesia accorata, in cui si dichiara stanco delle angherie e dei tradimenti della meretrice: Viva pure felice/ma non si curi come un tempo/di questo mio amore/che per colpa sua è caduto come un fiore/al margine del prato travolto/dall’aratro che passa. E in un altro dei centosedici canti che fan parte dell’immortale Liber Catullianum: Ora ti ho conosciuta; e anche se brucio più forte/tuttavia mi sei molto più vile e leggera./Come è possibile? dici. Perché tale offesa costringe/l’amante ad amare di più, ma ne spegne l’affetto. Deluso dal’Urbe, il veronese, dopo un triste viaggio in Bitinia per visitare la tomba del fratello (ne sarà il frutto una poesia famosa riscritta dal padano Foscolo in età moderna), ritornò in Padania e visse gli ultimi anni, minato da una grave malattia, nel magnifico rifugio di Sirmione, una bellissima penisola, ove ancora oggi si possono visitare le grotte a lui intitolate.

    La cultura cosmopolita dei due Plinii

    Plinio il Vecchio e Plinio il Giovane, due padani dalla grandissima cultura che segnarono con la loro opera i primi 150 anni dell’era cristiana. L’ambiente geografico che vide i loro natali e la loro educazione fu quello del Lario, l’attuale lago di Como, il cui clima dolcissimo e i cui scorci spettacolari erano noti in tutto l’Impero romano.

    Il Vecchio ebbe una gioventù di grande esperienza militare e politica: cavaliere in terra di Germania e procuratore in Gallia transalpina, in ogni occasione tenace e onesto, puntuale e fiero. Ne nacque una sua opera sull’arte militare, Del lanciare a cavallo, che rimane un irrinunciabile punto di riferimento per tutti quelli che amano l’arte equestre. In età matura si diede alla sua grande passione, la scienza, che introdusse finalmente all’interno della cultura latina con tutta la precisione che caratterizza il temperamento padano. Secondo lui solo la scienza, studiata nella sua totalità, può permetterci di sciogliere i misteri del mondo e dell’universo, facendoci capire che la natura in moltissimi casi è superiore all’uomo, il quale rappresenta solo un misero frutto di essa in grado purtroppo di diffondere il male pensando di favorire il bene. La Storia naturale del grande lariano rimane la massima espressione letteraria del mondo antico che abbia affrontato uno spettro vastissimo di scienze naturali e umane, dall’astronomia alla cosmologia, dalla geografia alla zoologia e alla botanica, dalla mineralogia alla metallurgia, dall’antropologia alla fisiologia e alla medicina. Si tratta di un’opera straordinaria e geniale, un’enciclopedia dell’universo che per tanti secoli nessuno riuscì a eguagliare: non venne portata a termine a causa della precoce e sfortunata morte dell’autore sotto l’eruzione del Vesuvio nel 79 dopo Cristo.

    Il nipote di Plinio il Vecchio, Plinio Cecilio Secondo detto appunto il Giovane, si alimentò dell’educazione cosmopolita dello zio, ma preferì orientare i suoi interessi verso il mondo umanistico, arrivando a promuovere, specie presso la città di Como, un livello altissimo di conoscenze storico-artistiche. Ammirato dall’imperatore Traiano, fu inviato nella parte orientale dell’Impero come legato consolare, brillando anche lì come amministratore e organizzatore di cultura. L’Epistolario di Plinio il Giovane, in dieci libri, costituisce una delle più belle raccolte di lettere di tutti i tempi e paesi. Le 247 missive, i cui destinatari sono soprattutto amici e parenti, sono scritte in maniera molto elegante e a tratti un po’ ridondante, ma sanno andare al cuore di certi comportamenti dell’epoca, dimostrando un’eccezionale esperienza di vita e un amore sconfinato per l’arte e la società civile. Memorabili sono le descrizioni di certi paesaggi, come quello umbro del Clitumno che verrà ripreso da Giosuè Carducci, rivissuti non più con lo spirito classificatore dello zio; ma con lo sguardo indagatore sulla civiltà che partendo dalla natura li ha portati a uno stadio di perfezione. Ci sono poi esemplari figure di giovani donne lariane, di cui l’autore sottolinea la bellezza interiore più ancora che quella esteriore. Tanta era la sua esigenza di pulizia, non solo morale, che durante il suo breve consolato romano (103-104 d.C.), Plinio il Giovane riuscì a compiere un vero e proprio miracolo: risanare le acque delle fogne dell’Urbe.

    Cornelio Nepote e Tito Livio: due storici padani in esilio a Roma

    I due più grandi storici padani del mondo antico rispondono al nome di Cornelio Nepote, pavese, e Tito Livio, padovano.

    Videro la luce sulle rive del Po o nelle sue vicinanze ma finirono purtroppo per celebrare, direttamente o indirettamente, specie il patavino, la gloria di Roma, anche se lo fecero sempre con quel gusto della ricerca che caratterizza la nostra civiltà in ogni campo di studio o settore lavorativo.

    Cornelio ebbe una vita dall’alto livello morale, perché non scese mai a compromesso con certe esigenze politiche e visse appartato, sia a Roma che in Padania. La sua opera principale è una raccolta di biografie di personaggi noti, da re a generali, da poeti a giuristi e statisti. Dalla parte dell’opera che è arrivata fino a noi, intitolata: De excellentibus ducibus exterarum gentium, emerge una non casuale simpatia nei confronti di uomini politici estranei al mondo latino e romano, come i greci Milziade, Temistocle, Pausania, Alcibiade e i cartaginesi Amilcare e Annibale, tutti personaggi che ancora oggi suscitano nei padanisti una certa ammirazione, per il fatto di aver contrastato con grande coraggio l’invasione preislamica dei persiani e l’occupazione dell’Europa da parte dei romani stessi. Attraverso la capacità di scavo psicologico e il rigore storiografico del Nepote riusciamo ad apprezzare ancora oggi le virtù dei vari statisti, assai meno avidi di potere dei vari Cesari che hanno funestato la storia di Roma e pronti spesso solo a difendere le radici e la dignità del proprio piccolo popolo. I critici hanno riconosciuto nel Nostro la grande obiettività di giudizio, esercitata con uno stile molto semplice e chiaro. Tuttavia lo hanno sempre considerato autore di serie B rispetto a Livio e a Tacito proprio perché non ha celebrato esplicitamente origini e sviluppi dell’epos romano, finendo col ricordare di lui solo la biografia di Catone il censore, uggioso moralista dell’Urbe il cui modello doveva servire per limitare i diritti umani.

    La figura di Tito Livio è associata spesso alla grandezza della città di Padova, la romana Patavia, le cui origini erano collegate all’arrivo in Padania del troiano Agenore (quando i romani dovevano a tutti i costi negare le origini celtiche della Gallia Cisalpina ricorrevano alle leggende sui grandi nemici dei Greci) e di cui tutti riconoscevano la grande religiosità. Così il Livio fu famoso per il suo spessore morale più che per l’impronta tipicamente padano-veneta del suo stile di scrittore, mai accettata dai critici italici, che lo accusano ancora oggi di patavinità, come se certi tratti linguistici e semantici fossero un marchio di rozzezza e idiozia rispetto alla purezza della vera lingua latina (purtroppo posizioni simili sussistono da parte dei puristi della lingua italiana nei confronti dei letterati padani che maggiormente risentono della loro educazione dialettale).

    Il capolavoro di Tito Livio, i 142 libri delle Storie intitolati anche Ab Urbe condita, tracciano la storia di Roma dalla sua fondazione fino ai tempi di Augusto, primo imperatore romano che fu amico e mecenate dello storico stesso: l’evidente intento apologetico non fa certo onore al padano, pronto a narrare tutto quello che contribuì a far grande la città che lo ospitò e foraggiò. Dichiarazioni come questa «nessuna città fu mai più grande di Roma né più santa e ricca di buoni esempi» fanno venire in mente certi più recenti atti di omaggio servile. Quel che però più ferisce nell’opera liviana è il modo col quale venne trattata l’occupazione del suolo padano da parte dei latini invasori, ritenuti dal padovano legittimi proprietari delle terre abitate dai Celti (libri 31-36), quantunque lo storico sia stato costretto a riconoscere nella società celtica un forte sentimento di solidarietà nazionale.

    La Padania ai tempi di Sant’Ambrogio e Sant’Agostino

    La seconda metà del quarto secolo dopo Cristo fu vissuto dalla Padania nel segno di una profonda religiosità cristiana, che condizionò anche la sua vita letteraria dei secoli a venire.

    Dopo l’Editto di Milano, voluto da Costantino nel 313 per affermare definitivamente la libertà e la diffusione del culto cristiano rispetto al mondo pagano, le terre poste a nord degli Appennini, e in particolare quelle a nord del Po, acquisirono un volto più definito e autonomo in ambito culturale, politico e religioso, arrivando a vivere una sorta di primo Rinascimento spirituale sotto la guida del vescovo Ambrogio, venuto dalla Gallia (la renana Treviri, per l’esattezza), per amministrare dapprima le provincie della Liguria e dell’Emilia come proconsole e diventare, nel fatidico giorno del 7 dicembre 374 (ancora oggi i milanesi lo festeggiano appena prima dell’Immacolata) vescovo cristiano della città fondata da Belloveso, al posto di Aussenzio, vescovo ariano molto contestato dai cittadini. Esemplare rimane l’atteggiamento di Ambrogio nei confronti dell’imperatore romano Teodosio, costretto da lui alla pubblica penitenza e minacciato di scomunica per la perpetuazione delle scelte violente e repressive dei suoi predecessori. Il Trevirese, divenuto ormai padano nell’animo (di origine celtica lo era già), fu l’iniziatore di un rito, detto tuttora ambrosiano, che testimonia tutto l’orgoglio della spiritualità lombarda rispetto a quella delle regioni a rito romano. La fondazione infine di conventi e centri di studio biblico in Padania fece di lui un grande promotore di cultura, disposto a tutto pur di accrescere le conoscenze dei suoi fedeli.

    Ma a noi qui interessa soprattutto l’Ambrogio letterato: e in effetti non c’è che l’imbarazzo della scelta per il fatto che la sua produzione è vastissima e tutta di alta qualità. Il meglio forse è costituito dalle opere di contenuto etico-morale, come il De bono mortis e il De officiis ministrorum, nei quali si elogia il senso del dovere, in vista del trapasso verso miglior vita, che si basa sull’equazione filosofica tra onestà e utilità, dato appunto che nell’esistenza risulta realmente utile solo ciò che viene svolto con onestà; il resto è solo una perdita di tempo. Lo stile di Sant’Ambrogio, quale emerge anche dalle famose Lettere indirizzate a papi, imperatori e altri vescovi, è caratterizzato da proposizioni brevi ma assai efficaci, in grado di tradurre in termini semplici e divulgativi anche i concetti più complessi.

    Dalla predicazione di Ambrogio rimase affascinato, tra gli altri, un giovane e inquieto insegnante, di nome Agostino, arrivato in Padania per salire sulla cattedra milanese di retorica. Tra Milano, la Brianza e il Varesino, si verificò, nel 386 e nel 387, il processo di conversione al cattolicesimo di Sant’Agostino, come, con tono commovente, si trova scritto nel suo immortale capolavoro, Le Confessioni. La Padania quindi come chiave di volta della spiritualità del più grande Padre della Chiesa, come luogo privilegiato dell’incontro con Dio: fu Milano, attraverso le stesse mani di Ambrogio, a battezzarlo nel giorno del Sabato Santo e Pavia, posta proprio vicino al Po, raccolse le spoglie dopo la sua morte nel monastero di San Pietro in Ciel d’Oro.

    Gli ultimi letterati padani dell’evo antico

    A partire dal quarto secolo dopo Cristo l’Impero Romano subì un più marcato processo di sgretolamento, grazie anche all’arrivo delle popolazioni cosiddette barbariche le quali contribuirono, tra le altre cose, a far evolvere le varie parlate locali, caratterizzate da morfologia e lessico latini, verso una sempre maggiore autonomia di termini e di suoni, che sarebbe stata la premessa, qualche secolo più tardi, della nascita delle lingue regionali e nazionali. Così anche il latino del V e VI secolo non era più legato ai modelli classici, libero da regole precostituite e aderente soprattutto al fiorire della nuova religiosità cristiana. Una certa regionalità linguistica e letteraria poteva intravedersi anche negli autori padani, che usavano il latino con la chiarezza della loro origine celtica e la praticità dell’influsso germanico.

    È il caso di Rufino d’Aquileia, noto soprattutto per l’Apologia del 401, scritta a favore della filosofia di Origene e in aperta polemica con le idee di San Gerolamo, dotto traduttore della Bibbia, il quale ultimo era nato in Dalmazia ed era vissuto per un certo periodo nella stessa Padania orientale. Non va dimenticato poi che in Padania operò e scrisse per un certo periodo della sua vita quel Severino Boezio (480-524), romano ma miracolosamente aperto alle altre culture europee, collaboratore del re dei Goti Teodorico, autore di uno dei trattati che maggiore fortuna ebbero nel Medioevo, il De consolatione philosophiae, dove si celebra la grandezza di un Dio che governa provvidenzialmente ogni cosa, conoscendola già anticipatamente.

    Da citare anche Magno Felice Annodio, originario della Gallia transalpina ma vissuto a lungo in Padania: divenne vescovo di Pavia, dove morì nel 521. Scrisse la Biografia di Epifanio (a capo della Chiesa Pavese prima di lui) e un magnifico Panegirico su Teodorico, in cui viene apprezzata la figura del re goto; tutt’altro che sgradevoli le Poesie, che risentono ampiamente del paesaggio e della mentalità della Valle del Po. Un amico di Annodio, il ligure Aratore, insegnò magistralmente la retorica a Ravenna e divenne famoso per una sua interessante Storia degli Apostoli, che regala un misticismo autentico, fino ad allora sconosciuto nella penisola. Ma l’ultimo grande autore padano di letteratura cristiana antica risponde sicuramente al nome di Venanzio Fortunato, morto nel ’600. Trevigiano di nascita, ebbe grande fortuna in Gallia transalpina, diventando vescovo di Poitiers, dove scrisse il De Vita Sancti Martini, che

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