Le impronte dell'angelo
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Le impronte dell'angelo - Alessandro Panico
Alessandro Panico
Le impronte dell’angelo
Romanzo
© 2012
Il Tempo, nel suo scorrere perpetuo e irresistibile, trascina via con sé tutte le cose create e le sprofonda negli abissi dell’oscurità, siano esse azioni di nessun conto o, al contrario, azioni degne di essere celebrate.
Esso, come dice il poeta porta alla luce ciò che era nascosto e avvolge nell’oscurità ciò che è manifesto
.
Ma il racconto è un valido argine contro il fluire del tempo, in certo modo costituisce un ostacolo al suo flusso irresistibile e, afferrando con una salda presa quante più cose galleggiano sulla sua superficie, impedisce che scivolino via e si perdano nell’abisso dell’oblio.
Alessiade - Proemio
Anna Comnena
1083 - 1153
PROLOGO
Castello di Melfi. 31 agosto 1231. Vespri.
È il tramonto di una calda giornata di fine estate. Mentre il giorno s’immerge oltre il baluardo naturale delle colline, gli ultimi riflessi arancio penetrano nella torre dei sette venti attraverso il piccolo squarcio della finestra occidentale. Incorniciata dall’arco di pietra grigia, l’imponente figura di Michael Scot proietta una lunga ombra verso l’interno della piccola sala disadorna, tingendo di viola un tavolaccio ottagonale impreziosito da quattro calici d’argento e una scacchiera. Su di essa, pezzi d’avorio e vetro di trasparente amaranto sono sfiorati dalle dita incerte di Hermann Von Salza, concentrato a valutare la prossima mossa. In un angolo in disparte, una cassapanca d’antica quercia sorregge un candido manto di lino ben ripiegato.
«Ci siamo, Hermann. Ecco finalmente messere Leonardo che spunta dall’orizzonte delle serre. Disperavo ormai che giungesse a castello prima dei vespri.»
«L’intrico di squadri, grome, quadranti e baculi che il nostro matematico ha trascinato con sé avrà rallentato il suo cammino. Tutto quell’armamentario peserà almeno quanto un intero raccolto di quattro tomoli di grano.»
«Non credo che sia questa la causa del suo ritardo. Da ciò che vedo, lo accompagnano un palafreniere, due servi, due militi e quattro muli: un ausilio adeguato per trasportare un po’ di carte e strumenti d’agrimensura. Dev’esserci dell’altro.»
«Forse avete ragione. Si tratta di un fine algebrista, quindi avrà saputo calcolare bene il suo fardello. Non come certi funzionari del giustiziere, che sul campo misurano la colletta fino alla colma, per il buon peso del signore, ma poi nei granai riversano la misura al raso.»
«Avete la lingua tagliente come una spada, Ermanno, ma vi conviene serbarla per il giustiziere, visto che sta per raggiungerci. Tornando a messere Leonardo, credo che un grande intrico ce l’abbia soprattutto in testa, almeno a giudicare dal suo incedere così pensieroso.»
«Pazientate Michael, tra un po’ sentiremo. Intanto, v’informo che il mio cavallo ha appena abbattuto il vostro vescovo.»
Ancora per qualche istante Scot segue il percorso della piccola carovana mentre discende il versante interno della collina, si lascia alle spalle le misere tintorie della giudecca di San Pietro e comincia a inerpicarsi lungo un sentiero che, attraverso un ponticello sulla fiumara, conduce verso la porta Troiana e quindi a castello. Poi si volta e si avvicina lentamente al tavolo, volgendo lo sguardo alle sessantaquattro caselle della scacchiera. I lineamenti del suo volto, illuminati dai raggi obliqui del sole, raccontano la solenne fierezza di un guerriero celtico più che l’espressione gentile di un uomo di studi. Il piglio da cavaliere boreale è confermato da una folta barba rossiccia, ostinatamente esibita nonostante la recente moda dei visi tonsi, e da un dragone bluastro dipinto sul dorso della mano destra che si protende in un rapido movimento dei pezzi in gioco.
«Arrocco! Vedete, Hermann, non ho ancora capito se questo pisano possieda davvero le superbe virtù logiche che l’imperatore gli riconosce, a parte aver saputo risolvere quell’indovinello sulla riproduzione dei conigli, qualche anno fa.»
«Tra i vizi capitali eccellete nell’invidia, sir Michael. Io invece sono convinto che le virtù di Leonardo sopravanzino di molto quelle che l’imperatore riconosce a un selvatico druido, scoto e ciarlatano quale voi siete, anche se vi atteggiate ad astrologo indovino. Comunque, sono davvero curioso di incontrare questo matematico. Regina muove e scacco.»
Senza distogliere lo sguardo dal gioco Scot si siede, distende il braccio verso uno dei calici, lo avvicina alle labbra e sorseggia lentamente il vino rosso che contiene. Poi lo depone nuovamente sul tavolo e, facendo scivolare il cavallo d’avorio contro la regina di cristallo, s’illumina d’un sorriso beffardo.
«Servito. Sarebbe indubbiamente un giudizio degno di considerazione il vostro, se non provenisse da un vecchio barbaro franco, cresciuto in un’oscura valle alemana al cui confronto i miei verdi colli di Scozia sembrano i gioghi del Parnaso.»
«Dite bene, ma tralasciate di ricordare che la mia vallata selvaggia dista solo poche miglia da quella di Hohenstaufen. Chissà cosa ne penserebbe Friedrich di queste vostre idee sulla civiltà dei Franchi.»
«Sarebbe d’accordo con me, non v’è dubbio: l’imperatore non ha mai nascosto la sua avversione per le remote lande alemane. Quanto a voi invece, da quando vi ha incaricato di convertire la Prussia a Cristo siete diventato ancora più barbaro.»
«Non divagate, ormai siete con le spalle al muro Michael: torre muove e scacco matto! Anche stavolta il vostro oracolo vi ha tradito. Sono qui da tre giorni e vi ho già battuto tre volte.»
«Mi dà piacere farvi divertire, Hermann. Evidentemente questo soggiorno presso la Magna Curia sta rendendo più gentile il vostro duro contegno marziale, per il quale siete tristemente noto. D’altronde, il compito che ci attende richiede calma e serenità.»
«Riconosco che qui mi trovo a perfetto agio, in compagnia dei miei migliori amici. Ricordate tuttavia che ufficialmente sono a castello solamente per assistere alla promulgazione del Liber Augustalis.»
«Non dubitate, nessuno si stupirà della vostra presenza a corte. Tutti sanno che siete il consigliere più fidato dell’imperatore Federico.»
Questo giocoso incrociar di spade è interrotto in quell’istante da un tintinnio di ferraglia, accompagnato dall’eco di numerosi passi e da un intenso vociare, che annunciano l’ingresso in sala di Riccardo da Montenero. Il giustiziere irrompe trafelato, seguìto da un anziano ospite, da un sarto e da due servi carichi di ceste da soma piene di strumenti metrici e rotoli di carte. Dopo avere deposto il bagaglio in terra i due famigli, indietreggiando e porgendo un deferente saluto alle persone presenti in sala, escono velocemente come sono entrati.
Riccardo indossa con poca grazia una lunga tunica di foggia saracena con maniche svasate e orlate di greche d’oro, che ricopre una camicia di lino e braghe di tessuto scuro. La casacca è stretta in vita da una cintura di pelle, impreziosita con una ricca fibula che il sarto tenta invano di fissargli, mentre questi si dimena tra i drappeggi incalzando di domande il suo ospite.
«Dunque si tratta di buone nuove, messere Leonardo. Potete essere più preciso?»
«Come vi accennavo», risponde tutto d’un fiato il nuovo arrivato «ictu oculi il colle presso la badia di Santa Maria del Monte è perfettamente idoneo alla costruzione del novo castro e appare isolato nella piana.»
«Ottimo: sarà anche ben soleggiato, dunque.»
«Da laudi a vespro. In verità fin troppo di questa stagione» aggiunge Leonardo dopo aver deglutito, mentre si asciuga il grigio sudore che copiosamente gli sgorga dalla fronte impolverata. «Dalla sua cima lo sguardo s’orizzonta a tutti i venti, senza ostacoli fino quasi al mare.»
«Bene. Occorrerà informare subito l’imperatore.»
«Lo farete adesso, mastro giustiziere?»
«No, ormai è tardi: lo farò domattina, al suo risveglio. A quest’ora Federico è già a riposo nei suoi appartamenti.»
«Così presto?»
«Come vi ho detto, è rientrato stamane da una lunga battuta di caccia nei boschi del Lacus Pensilis e ha subito chiesto di voi. Non potendo incontrarvi, ha mutato argomenti e ha deciso di tenere concilio fino a tardi con i notari Jacopo de Lentino e Piero delle Vigne, sulle ultime questioni per la lettura di domattina. Ma torniamo alle vostre ricerche: come intendete procedere?»
Leonardo da Pisa è ormai tutt’uno con la sua fradicia camicia di lino bianco, dai lacci slabbrati sul torace e risvoltata su braghe di tela di colore indefinibile. I radi capelli bianchi, le rughe accentuate, il respiro corto e l’andatura malferma tradiscono la fatica dello studioso da scriptorium, che ha superato ormai i sessant’anni e non è avvezzo a svolgere estenuanti operazioni d’agrimensura sul campo. Il suo viso è un misto di rossore, sudore, polvere ed eccitazione.
«Vorrei tornare presto in loco, per tracciare i primi allineamenti secondo i disegni dell’augusto imperatore. Come vi dicevo...»
«Messere Leonardo, alla buon’ora!» irrompe a quel punto Michel Scot rivolgendosi al nuovo arrivato. «V’aspettavamo stamane: ma vedo che siete alquanto incline a indugiare. Non vorrete confezionare voi stesso la tunica del mastro giustiziere per la solenne lettura di domani? Perdonatelo, messere Riccardo: costui è di costume poco gentile, ma è pur sempre un eccellente algebrista, come direbbero gli Arabi. Del resto, bonae mentis soror est paupertas, per cui sarà il caso di rivestirlo in una maniera che si conviene, sempre che il tutto avvenga entro la fine di quest’anno, ossia entro domattina, giorno d’indizione. A tal proposito, se vi aggrada, insieme al qui presente messere Da Salza mi caricherò volentieri del compito di dare a mastro Leonardo delle sembianze decenti e, al contempo, di levarvelo da torno almeno per questa sera.»
«Sarà bene il caso», ammicca il giustiziere. «Da un po’ di tempo mi pare infatti di non essere più il maestro della giustizia, ma un dottore d’abaco o addirittura un capo sarto. A proposito: è ora che mi ritiri, in modo che almeno io riesca ad assumere entro domattina le sembianze decenti che voi auspicate. Vi auguro una serena notte.»
Subito dopo quello scambio di battute Riccardo esce dalla sala canticchiando versi amorosi, seguìto immediatamente dal sarto.
Appena la porta si richiude, Michael si avvicina al tavolo e preleva dalla scacchiera la regina di cristallo scuro, sollevandola per ammirarne la fine lavorazione in controluce agli ultimi raggi di sole, con l’orecchio teso verso i passi che lentamente scemano lungo la scala. Poi, con lo sguardo sempre fisso sul prezioso manufatto, si disegna sul volto lo stesso sorriso servito poco prima al Von Salza.
«‘Concilio con notar Piero e notar Jacopo’. Siccome da ieri vedo circolare per il castello una balia che tenta d’acquietare una biondina in fasce, la quale a me pare essere la piccola Costanza, deduco che l’imperatore stia tenendo concilio nell’alcova, e con ben altra compagnia. Lì, dopo compieta, la calura che emana la sua pelle dopo un intero giorno di caccia sarà diradata dal soffio fresco e leggiero di donna Bianca Lanza. Quanto a voi, caro Leonardo, perdonate il motteggio tipico di noi Scoti, ma m’era parso il momento di condurre rapidamente a termine questa vostra discussione col giustiziere. Come avrete intuito, sia io che il nostro illustre ospite siamo impazienti di conoscere gli esiti reali delle vostre ricerche, prima di riferirli domattina all’imperatore. Noto tuttavia che la vostra eloquenza non fa il paio col rigore delle vostre doti di magister abaci nel misurare il tempo. A proposito, vogliate gradire che v'introduca al cavaliere ser Hermanno da Salza, della nobile casa di Turingia, gran mastro d’Ordine dei Frati della Casa Hospitale di Santa Maria dei Teutoni, in Gerusalemme. Come potrete comprendere dal suo alto officio, egli è molto interessato alle nostre ricerche riservate, per espresso desiderio dell’augusto Cesare. Tuttavia è superfluo rammentarvi che, ufficialmente, egli è qui in Apulia per un periodo di riposo e per seguire personalmente i lavori di ampliamento all’abbazia di San Leonardo in Siponto. Dopo il nostro prezioso ritrovamento di tre anni fa, infatti, l’imperatore ha deciso di aggregare quel monastero alla balìa dell’Ordine hospitaliero, per evidenti ragioni di sicurezza. Ciò detto, herr Hermann, vogliate gradire che vi presenti l’eccelso maestro d’abaco ser Leonardo Bigollo da Pisa, figlio di Guglielmo de'Bonacci.»
«La vostra fama vi ha preceduto», esordisce finalmente Von Salza rivolgendosi al nuovo arrivato, dopo essere rimasto per tutto il tempo in disparte a godersi la scena.
«Avevo già sentito raccontare da mastro Teodoro di come sorprendeste l’imperatore nella vostra città, otto anni orsono, risolvendo brillantemente un indovinello sulla riproduzione dei conigli. E poc’anzi anche messer Scoto ha tessuto mirabilmente le vostre lodi, mostrandomi una splendida edizione del vostro Liber abaci, da lui appena commissionata allo scriptorium imperiale. Ora bandiamo le ciarle e diteci quello che avete scoperto.»
«Sono onorato di conoscere il gran mastro dei cavalieri teutonici. La vostra badìa di San Leonardo è un esempio mirabile di armonia di forme e proporzioni, sulle quali avrei piacere di tornare un giorno a conversare con voi. Senza tralasciare il profondo significato che Siponto ha avuto in tutta la nostra storia, oltre alla circostanza non irrilevante che quel monastero porta il mio nome. Ma veniamo a quanto giustamente mi chiedete.»
Dopo aver a lungo rovistato nelle ceste trasportate fin lassù dai servi, l’anziano matematico ne estrae un compasso e una pergamena. La luce che ancora filtra dalle finestre si è fatta nel frattempo più tenue e violacea, ma nessuno dei presenti, ormai già attratti nella discussione che sta per aprirsi, si preoccupa di uscire a cercare una lampada o una torcia.
«Nonostante i molti anni da me impiegati a studiare i segreti dei numeri», prosegue Leonardo «devo dire che gli esiti delle misurazioni e dei rilievi di questi giorni, alla luce di quanto abbiamo appreso nelle segrete carte, hanno generato nel mio spirito una profonda emozione, di cui vorrei rendere grazie recandomi al più presto pellegrino sul Sacro Monte. Magari tra qualche settimana...»
«Andiamo al punto, Fi’Bonacci!» interviene Scot spazientito. Dopo un lieve sussulto, il pisano distende la pergamena sul tavolo appoggiando ai suoi angoli quattro pezzi da gioco, in modo da reggerne i lembi ben distesi. I due cortigiani si avvicinano con un filo d’emozione.
«Ecco. Ho riportato tutto su questo brandello di mappa, che ho disegnato secondo le indicazioni sulla tracciatura dei peripli descritte da Mohammed al Idrisi nel suo Liber Rogerii. Come potete vedere osservando la stoffa, in questo punto in alto ho indicato il colle di Santa Maria del Monte presso Andria, che ho individuato come il luogo ideale per edificare il nuovo tempio. Infatti secondo i vostri calcoli, sir Michael, avverrà che ogni anno, mancando quattro dì al Natale di Nostro Signore, proprio nel giorno in cui più breve è il percorso del sole nel cielo, se il nostro imperatore si destasse per mirar l’alba dalla finestra del suo palatium di Foggia, vedrebbe sorgere l’astro nel punto d’orizzonte dove sapremo trovarsi il novo castello.»
«Andiamo piano, messere», interviene Von Salza. «Il palazzo di Foggia è questo qui al centro?»
«Dite bene. Similmente, se Federico intendesse un dì affacciarsi da una torre ponentina di tale nuovo maniero, volgendo lo sguardo qui in basso verso occidente in una dolce serata d’estate nel giorno più lungo dell’anno, vedrebbe tramontare il sole esattamente dietro le spalle della sua reggia di Foggia. Poi, proseguendo idealmente oltre essa, sempre verso il sole calante, l’occhio suo incontrerebbe anche la torriola di Castel Fiorentino, presso la guarnigione saracena di Lucera. Eccola qua, ancora più in basso.»
«Tutto qui?» interrompe Scot. «Abbiamo dunque allineato due dimore di Cesare e un castelletto, lungo il percorso dell’astro solare, in due giorni notevoli dell’anno? Non più di quanto un qualsiasi signorotto potrebbe fare costruendo torri di guardia e possedendo semplici rudimenti d’astrologia.»
«Niente affatto!» riprende Fibonacci. «Sappiate che i due edifici, così allineati, disteranno tra loro dieci poste, tre miglia e trecento trentatré braccia.
«Dunque?»
«È la medesima distanza che separerà il nuovo castro dal Sacro Monte, come s’intravede guardando a settentrione, con precisione d’agrimensore, qui a sinistra verso la grotta dell’Arcangelo.»
«Che cosa vuol dire?»
«Che questi tre luoghi formeranno tra loro un notevole trigono, quello che i geometri chiamano isoscele, il cui angolo più convesso sarà d’ampiezza pari alla metà di ciascuno degli angoli identici. Ecco: ho tracciato tutto qui, su quest’altra mappata.»
«Sì, il trigono si vede benissimo. Ma cosa sono queste altre linee?»
«L’accorto osservatore che sia stato reso edotto sulla potenza di tale trigono, guardando dal Sacro Monte verso mezzogiorno e questa città di Melfi, qui verso destra, incrocerà con l’occhio la cima isolata del Vulture, quale si erge maestoso sulla piana. Orbene, questa cima si trova sul prolungamento dell’emiretta che, secando in due parti uguali l’angolo di cui la grotta dell’Arcangelo è vertice, costruisce due nuovi angoli, identici per ampiezza a quello di cui sarà vertice il novo castro. Inoltre, tale cima sarà raggiunta dallo sguardo a una distanza doppia di quella che separa l’osservatore dall’intersezione del suo sguardo col lato opposto del trigono.»
«Hermann non ci avrà capito molto, ma a me pare davvero straordinario» esclama lo Scot, stavolta visibilmente emozionato.
«Sarà così finalmente ricongiunta l’impronta che l’Arcangelo ha posto sul Gargano, con quella che gli piacque calcare nella sua sacra lavra su questo monte.»
«Vi sia ancor più noto, messer Michele, che tale linea bisecante frazionerà il lato opposto del trigono, quello che congiunge Foggia col novo castello, in due sezioni tali che l’intero sta alla maggiore come la maggiore sta alla minore ed etiam quanto la minore sta alla differenza tra la maggiore e se stessa.»
«Divina proporzione!» esclama Scot.
«Allo stesso modo avverrà che, guardando a settentrione dalla cima del Vulture verso il Gargano, la linea ideale che attraversa la sacra spelonca si prolungherà verso il mare e, a una distanza doppia dalla prima, incontrerà la lontana isola che i naviganti d’Adriatico chiamano Pelagosa.»
«Ne ho sentito parlare a Siponto», si intromette Von Salza. «Si tratta di un remoto scoglio, su cui gli Italici si tramandano riposare i resti mortali di Diomede, l’antico civilizzatore di questa Daunia così cara al nostro imperatore».
«Dite bene. Stiamo parlando del mitico fondatore di Siponto, ma anche di Andria, Venosa e tante altre città d’Apulia. Non tralascerò infine di dirvi che la base del colle da me ispezionato rispecchia mirabilmente l’idea del Celeste Architetto, perché ha la forma perfetta di un pentagono, un fatto su cui converrà che si ragioni molto.»
«Senza dubbio», replica Scot. «In tal caso, sarà ancora più agevole realizzare l’armonico e sublime congegno voluto da Friedrich, che faccia comprendere ai giusti la perfezione dei tre numeri sacri: cinque, otto e dieci. Ma di ciò discorreremo al tempo dovuto.»
«Speriamo di essere capaci di condurre bene a termine il nostro compito», interviene Von Salza «affinché, come dice il profeta: ‘Nessuno degli empi capirà, ma capiranno i saggi’. Messere Leonardo, questa sera abbiamo avuto conferma, se ve ne fosse ancora bisogno, della cruciale importanza dei segreti che qui custodite e del sacro messaggio che si cela nel grande Libro della natura. Prima di riferire domani all’imperatore sulle conclusioni dei vostri studi, dobbiamo ora disporci a rileggere le vostre carte dall’inizio, affinché anche io comprenda fino in fondo tutta la storia. Sir Michael, vi prego di procedere.»
Aderendo all’invito di Von Salza, Scot esce dalla sala. Hermann si sposta quindi verso la panca su cui è ripiegato con cura il suo lungo mantello bianco e nerocrociato. Rimuovendolo delicatamente, il cavaliere svela un codice composto da vari quaderni di pergamena rilegati e racchiusi in una coperta di cuoio, che reca impressa a secco una banda diagonale a doppi scacchi dipinti di rosso e d’argento.
Preleva con grande attenzione il libro e lo porta verso il tavolo centrale, da cui Leonardo Fibonacci ha intanto già rimosso sia la scacchiera che i calici. Nel frattempo Michael Scot rientra portando con sé una lampada a olio accesa, accompagnato dal giovane notaio di corte Jacopo da Lentini, il quale saluta con un cortese e silenzioso cenno del capo i presenti, che ricambiano allo stesso modo. La lampada viene collocata in alto, sospesa a una fune che si trova già fissata al centro della volta, sulla verticale del tavolo. Leonardo procede quindi a serrare la porta, lasciando aperte le due finestre da cui inizia a infiltrarsi qualche leggero spiraglio di brezza vespertina. Poi, lentamente, i quattro si raccolgono attorno al tavolo in un silenzio interrotto solo dal frinire dei grilli e, dopo qualche istante, dalla voce grave e solenne del Von Salza: «Noctem quietam et finem perfectum tribuat nobis Omnipotens et Misericors Dominus.»
«Amen.» Alcuni minuti dopo, terminata la liturgia di compieta, mentre le ombre proiettate sulle pareti ondeggiano sempre più lentamente e la lampada rallenta il suo lieve pendolare nella ferma aria estiva, i quattro uomini finalmente si siedono attorno al tavolo. Sir Michael rivolge agli altri uno sguardo d’intesa e, dopo aver sciolto i lacci di cuoio, porge il libro a Jacopo che dà inizio alla lettura.
Sia l’officio d’ogni mio successore trascrivere questa cronica ne la favella de’ suoi tempi. E così di seguito, di mano in mano, di penna in penna, di lingua in lingua, in una continua tradizione affinché ti giunga, o lettor nel tempo tuo, manifesta con chiaro intelletto la ragion de le cose ch’abbiamo visto e narrato.
Explicit. Baltazzar Judaeus. Chronicon. AD MLIX.
Descriptio prima. Guillelmus Apuliensis. AD MCXI.
Descriptio secunda. Noslo Remerii. AD MCLIII.
Descriptio tertia. An. AD MCLXXXXIII.
Descritione quarta. Vulg. Anon. AD MCCXV.
Descrizione quinta. Jacopo de Lentini. AD MCCLI.
Seguono varie altre trascrizioni.
Autori e date non riportati.
PARTE I -Wilhelm
"Tu, Daniele, tieni nascoste queste parole
e sigilla il libro sino al tempo della fine.
Molti lo studieranno con cura
e la conoscenza aumenterà".
Dan 12,4.
A.D. 1047. XV ind. Normandia. Abbaye du Bec.
Incipit. Giunsi in vista di Bec quando il sole era già alto. Avevo lasciato Rouen il giorno prima, terminato il salmo dell’ora sesta, decidendo per una sola posta. La prima lettera di salvacondotto con cui il vescovo acheruntino Stefano mi aveva introdotto all’arcivescovo Mauger aveva ormai assolto il suo compito.
Quell’incontro mi aveva turbato: per quanto fossi preparato e avessi già dimestichezza con questa gente, ero rimasto interdetto dall’impatto personale con quell’uomo dagli occhi glaciali, la pelle color latte e due mani così enormi da sembrare intagliate nel legno dei drakkar, i leggendari vascelli con cui il suo popolo razziava il mondo civile. Ci sarebbe davvero da credere nella Provvidenza dei cristiani al solo pensare che un truce barbaro di tali fattezze sia diventato l’autorità religiosa più importante di tutto il ducato che i Franchi chiamano Normandia. Eppure, la comune discendenza dell’arcivescovo e del suo giovane nipote Wilhelm da quello stesso selvaggio di nome Göngu-Hrólfur, un demonio spuntato da Dio - solo - sa - dove - tra - i - ghiacci un brutto giorno di mezzo secolo prima, aveva compiuto evidentemente il miracolo.
Ero stato ammesso alla sua presenza in una sala fredda e buia, con le volte sorrette da esili colonne di pietra grigia i cui capitelli erano rozzamente scolpiti con motivi floreali di differente fattura. Lì avevo dovuto attendere con deferenza che l’arcivescovo aprisse la lettera, la rivoltasse con sospetto da tutti i lati e sul retro, fosse poi colpito da un improvviso accesso di tosse, si schiarisse la voce, convocasse un giovane chierico urlando nella sua orrenda lingua e infine, senza proferire parola, gli porgesse la cartapecora in modo che questi, non senza averla prima orientata nel verso giusto, gliela leggesse con la sua voce incerta, ma alta e squillante da fanciullo.
Compresi ben presto che di quella lettura Mauger aveva afferrato poche cose essenziali.
«Dunque sei un giudeo.»
«Sì, sono ebreo, padre.»
«E vieni dall’Apulia.»
«Sì, dite bene.»
«Che si trova...»
«Presso il Sacro Monte dell’Arcangelo, padre.»
«Già, certo, il Sacro Monte. E laggiù sei finito al servizio di uno di noi.»
«Sì, un vik. Il figlio di un piccolo dominus del Cotentin, padre.»
«Conosco bene quel contado: si trova quasi a cento miglia da qui, verso ponente. Ci sono solo villaggi di poveri pecorai e pescatori.»
Era all’incirca così. Da quel remoto lembo di terra il mio giovane dominus era partito una decina d’anni prima, diretto a mezzogiorno lungo la via Franzesca come tanti altri suoi compagni in cerca di miglior fortuna, accompagnato solamente da due fratelli e da un’idea precisa.
«E cosa ci vai a fare ora nel Cotentin, giudeo?»
«Vedete, padre, come è spiegato nella lettera io dovrei incontrare...»
«Lascia stare, non mi interessa. A me basta il guidatico col sigillo del pastore. Sappi però che abbiamo appena sventato una congiura nei confronti di mio nipote Wilhelm.»
«Me ne compiaccio, padre. So che il dux è giovane, ma già molto saggio.»
«Governa questa terra dall’età di sette anni. Una schiatta precoce, la nostra. Vedi questo giovane chierichetto? È suo fratello. Dì al giudeo quanti anni hai, Oddon.»
«Undici, monsieur.»
«Undici anni e già sa leggere, non è straordinario? Tra un paio d’anni al massimo lo farò nominare vescovo a Bayeux, qui vicino.»
«Mi congratulo, è evidente che il ragazzo ne ha sommo merito» replicai con la voce un po’ alterata, dopo aver a lungo deglutito.
«Vedo che sei sveglio. Comunque, stavo dicendo che tutta la Normandia è ancora in uno stato di grande confusione a causa della recente congiura e perciò» fece qui una lunga pausa fissandomi gelido «non sono affatto sicuro che tu riesca ad arrivare vivo a destinazione.»
Dopo aver pronunciato quelle inquietanti parole, l’arcivescovo mi aveva guardato severamente per qualche altro istante e poi era scoppiato in una sonora risata: «Non preoccuparti. Lo so come siete fatti voi giudei: avete sette vite, come i bracci del vostro strano candelabro. Sono certo che te la caverai.»
Con questo rassicurante incoraggiamento mi aveva congedato, affidandomi alla protezione di Odino e, bontà sua, anche a quella più tangibile di un cavaliere ricoperto da un giaco di ferro e armato di arco e lancia, che mi avrebbe scortato fino all’Abbazia di Notre Dame du Bec. Da lì avrei dovuto proseguire per altri cinque o sei giorni di marcia fino al monastero di Mont-Saint-Michel al pericolo del mare.
Così, dopo un intero giorno e una notte passati a ripensare a quell’incontro, cavalcando insieme a un milite che non aveva emesso neanche un suono, a parte qualche flatulenza e un selvatico richiamo a una lepre che aveva preso commiato da questo mondo sulla nostra brace, la vista dell’abbazia mi restituiva finalmente alla civiltà, almeno quella spirituale.
Il mio prossimo ospite era longobardo, come il mio antico dominus Ismael. A lui avrei dunque presentato la seconda delle tre lettere che mi servivano da guidaticum: quella scritta dall’abate Julius di Sant’Ippolito in Monticulum, un’abbazia ben più antica di questo recente e pur già celebre cenobio boreale.
Secondo le informazioni che avevo ricevuto da Arduin, Lanfrancus da Pavia era un uomo di lettere ancor prima che di fede. Aveva fondato una scuola di dialettica ad Avranches, poi si era fatto monaco ed era entrato a Bec cinque anni prima, si dice come voto di ringraziamento per essere stato rilasciato dai banditi, che lo avevano rapito sulla via di Rouen.
Comunque, in soli tre anni aveva scalato tutte le gerarchie ed era diventato priore, la carica più alta cui si potesse aspirare in questi strani monasteri che aderivano alla grande fratellanza di Cluny. A differenza di abbazie aut