Formare la crisi - L'approccio critico-narrativo per la gestione del cambiamento nell'evento formativo
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Formare la crisi - L'approccio critico-narrativo per la gestione del cambiamento nell'evento formativo - Nicola Ferrari
FORMARE LA CRISI
L’approccio critico-narrativo
per la gestione del cambiamento
nell’evento formativo
Nicola Ferrari
Proprietà letteraria riservata
© Febbraio 2012 Diritto d’Autore
Sede: via M. Curie 14; Suzzara (MN)
diritto.dautore@libero.it
Narcissus - Self Publishing made serious
Edizione digitale: ottobre 2012
ISBN: 9788890559228
Edizione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl
Parte prima
L’approccio-critico narrativo
Premessa
La struttura è semplice.
Molto semplice.
Sia nei presupposti teorici sia nell’applicazione.
Si tratta di possedere prima una sorta di visione complessiva interiore che serva da costante riferimento e poi i vari passaggi da compiere. Una volta metabolizzato l’approccio, la messa in opera è decisamente facilitata e con un po’ di esperienza e pazienza se ne diventa ogni volta sempre più abili.
Tutte le pagine che seguono partono perciò da questo presupposto: è possibile ‘formare la crisi’ in contesti narrativi di educazione con gli adulti, ottenendo risultati che io per primo mai mi sarei aspettato di vivere. Lo so che non dovrei scriverlo, men che meno pensarlo, perché chiunque legge subito sogghigna: questo si sta facendo i complimenti da solo. Però è vero (non che mi faccio i complimenti): realizzare un evento formativo con lo scopo di mettere in crisi il gruppo dei partecipanti mi ha permesso di attivare una serie così significativa e intensa di conseguenze emotive, culturali e pratiche che non si possono relegare dentro un’esperienza di vita da custodire privatamente.
Bisogna condividerle perché forse altri formatori le potranno a loro volta sperimentare, con tutte le modifiche e variabili possibili date dalla sensibilità e intelligenza di ognuno.
Questo libro ha lo scopo di presentare il modello di riferimento dell’approccio critico-narrativo e come realizzarlo nella pratica formativa; il tutto privilegiando (o almeno ci provo) la sistematicità e consequenzialità nell’introduzione dei vari concetti, le esemplificazioni costanti, le azioni e le cosiddette buone prassi, in modo da poter guidare, passo dopo passo, senza tiritere, all’acquisizione del metodo.
Se così fosse, sarebbe un ottimo inizio per poterlo modificare.
1. IL CONTESTO
Di cosa parliamo quando parliamo d’amore? scriveva Raymond Carver. Quindi: in che ambito siamo? A chi ci stiamo riferendo? Cosa intendiamo per formazione, cambiamento, crisi, narrazione? Quali sono gli obiettivi?
Perché la scelta di questo approccio e non un altro?
Si tratta in altri termini di delimitare il contesto entro il quale ci muoviamo. È il primo passaggio fondamentale: ogni chiarificazione equivale a restringere il cerchio, circoscrivere il campo d’azione, indicare dove, quando e con chi è possibile proporre questo modello formativo. La scelta relativa alla formazione della crisi è, appunto, una scelta fra le tante altre possibili, di medesima, indiscutibile efficacia.
Ma si sa che la vita, gli incontri, la dotazione genetica, la buona sorte (o la disgrazia), la terra dove sei nato, le persone che incontri, la mamma e il papà, il carattere, i soldi, Dio e il fato ti condizionano e ti portano a dire: questo m’interessa, questo no, questo sono capace di farlo, questo neanche per sogno. Interesse e capacità mi hanno condotto qui.
In che ambito siamo
La formazione degli adulti.
Cos’è la formazione
Restando con coerenza agganciato al precedente ineliminabile concetto di ‘tiritera’, la spiegazione del termine formazione è tra l’altro oggetto di apposito corso di laurea quadriennale. Oltre ad essere discretamente noiosi (sia il corso di laurea che la spiegazione) ci sono tante brave persone, non noiose, che parlano e disquisiscono sul concetto, storia, evoluzione della formazione. Personalmente ho sempre trovata semplice, chiara ed efficace l’idea di formazione come un’attività da svolgere in maniera costante, per un periodo di tempo non troppo breve, con la partecipazione attiva di adulti (nel nostro caso normodotati) per promuovere un cambiamento. Formazione è appunto ‘dare forma’ nuova, creare un differente modello d’intervento che per realizzarsi è preceduto da una diversa concezione di sé. Bisogna abbandonare vecchi schemi, o parte di essi, usanze consolidate, metodi di lavoro e di relazione: formarsi è attraversare una complicatissima esperienza di perdita. Si perde realmente una parte di se stessi, quella che si esprimeva tramite un modo stabile di agire e rapportarsi con gli altri, per attivare nuovi atteggiamenti nei confronti della realtà; e questo si può fare, è ovvio, solo se dentro è avvenuto un cambiamento, un cambiamento profondo.
Cambiamento?
Vale come sopra: metabletica, PNL, resilienza…Serve un trattato per essere esaustivi. L’idea di cambiamento ha attraversato le scienze umane e in particolare chi si occupa di educazione degli adulti. E’ interessantissimo analizzare i diversi approcci attualmente sul mercato: le teorie del cambiamento per i comportamentisti, i cognitivisti, la psicoanalisi (in particolare S. Freud, W. Bion, C.G.Jung) e poi tutto l’approccio fenomenologico (A.Maslow, C. Rogers, K. Lewin), sistemico (G: Bateson e P. Watzlawick), psico-sociodrammatico, la gestalt, la psicolinguistica.
Ma anche qui, una scelta. Personalmente per cambiamento intendo la possibilità di trasformare le regole che impediscono ad un sistema di funzionare. Cosa significa allora che un sistema funziona, ad esempio un servizio di assistenza domiciliare a malati gravi, un’associazione di volontariato che si occupa di tossicodipendenti? Di certo non che è coerente con il mio modello di riferimento ma con la visione del mondo alla quale lui stesso s’ispira. La mission, come si dice in altri contesti. Bisogna fare in modo che il gruppo in formazione ri-conosca, ri-comprenda la dimensione teleologica e axiologica alla base delle sue varie attività, che sia in grado cioè di ricordarsi e rimettere al centro il perché si attiva in un certo modo, qual è la visione del problema che è sotteso alle scelte pratiche conseguenti. Lo analizzeremo nei dettagli in seguito: ora è importante definire questo contesto. Cambiare per ri-trovare se stessi, le proprie fondamenta, il cuore dell’agire.
Perché la ‘crisi’?
È il modo migliore, cioè più efficace in tempi non eccessivamente lunghi, di scoprirsi capaci di altro: altri modi di effettuare un servizio, di relazionarsi con persone che soffrono, di organizzare le attività, di scegliere in base a priorità, di dire questo intervento non lo vogliamo fare, questa persona non possiamo accoglierla (sono a mio avviso le decisioni più faticose e coinvolgenti da prendere). Portare il gruppo che sta svolgendo il percorso formativo alla crisi vuol dire destabilizzarlo, mettere in discussione a volte i principi, a volte le attività, a volte la coerenza tra fondamenta e azioni. Il sistema di rappresentazione che il gruppo ha di se stesso va inizialmente in cortocircuito ma, se riesce a vivere e superare questa fase, accede a un’enorme novità: il cambiamento consapevole.
Non sono cioè io che indico la via, la verità e la vita ma permetto all’insieme dei partecipanti di costruirsi una nuova identità, di darsi novità a qualunque livello: nella lettura del problema, nell’erogazione del servizio, nelle dinamiche relazionali interne o con gli utenti.
Perché la narrazione?
La prospettiva narrativa implica una costruzione dialogica di significati tra tutte le persone coinvolte, una serie di processi di elaborazioni collettive e condivise di eventi, vissuti, situazioni. È obbligatorio, così facendo, il coinvolgimento partecipativo di ogni individuo implicato nel processo formativo che deve appunto narrare a se stesso e agli altri e raccontando accoglie, stimola, confronta, rielabora. In questa logica ognuno è impegnato in una ‘costante costruzione e ricostruzione di senso’¹ attraverso ‘processi di elaborazione e riflessione sulle azioni realizzate.’²
Serve allora trovare le parole per nominare gli eventi perché le parole restituiscono qualcosa di autentico e unico sia per chi l’ha vissuto sia per chi lo raccoglie. Il linguaggio ha l’inaudita capacità di tradurre, oggettivare e ricostruire le nostre esperienze, la nostra vita interiore, le nostre azioni pratiche. E trovare un nome per dire le cose della vita, significa contemporaneamente dar loro un senso: ecco quindi che la formazione centrata sulla narrazione diventa un ‘processo di costruzione negoziale e congiunta di senso per le persone’³: si tratta di confrontare diverse forme di sapere portate da ogni partecipante per scoprirne insieme delle nuove, abbandonarne alcune e confermarne altre. Tutto ciò accade attraverso un continuo scambio narrativo e di negoziazione interpersonale.
Non si può immaginare perciò una formazione fondata sul costrutto narrativo che non implichi dinamiche biografiche e conversazionali. Ogni rifiuto del linguaggio sosteneva Roland Bartes, è una morte: il formatore che sceglie questa modalità di lavoro deve esserne pienamente convinto.
La questione infatti diventa non più risolvere il problema ma co-costruire con i partecipanti contesti in cui donarsi reciprocamente la possibilità di narrare: è il presupposto per la risoluzione delle difficoltà. Non serve e non interessa che il formatore abbia risposte, conoscenze, verità da elargire; ci vuole invece una persona presente con tutti i sensi, che partecipa come co-protagonista insieme ad altri co-protagonisti, che non offre soluzioni ma partecipa al processo di co-costruzione dei significati delle narrazioni. Ogni membro del gruppo, formatore compreso, è allo stesso tempo narratore e ascoltatore, autore delle sue storie, lettore di quelle degli altri.
Si tratta non di cercare l’oggettività dei fenomeni che emergono dai racconti e dai rispecchiamenti ma l’esperienza e il significato di chi li ha vissuti. Compito finale di chi si offre come formatore è dunque partecipare alla costruzione di storie possibili che permettano realtà possibili da progettare