Il calcio in televisione
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L'analisi semiologica proposta è quindi una sorta di sguardo fugace, ma allo stesso approfondito, sull'universo segnico che accomuna lo spettacolo sportivo contemporaneo alla ricerca di quella significazione seconda che Barthes chiamava “mito”.
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Il calcio in televisione - Davide Pessach
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1. Un inizio poco promettente
Il primo giorno di agosto del 1936, con quattordici telecamere e un budget pressoché illimitato, iniziano le riprese di un evento che avrebbe cambiato la storia dello sport in televisione, le Olimpiadi di Berlino. Alla regia c'è Leni Riefenstahl, alla telecamera Hans Ertl.
Al di là della polemica, mai conclusasi, su quanto fosse effettivamente vicina al regime la regista tedesca,[1] Olympia (questo il nome del documentario girato dalla regista tedesca) è un documento di imprescindibile importanza per chiunque voglia studiare il segno sportivo televisivo.
Non si tratta delle prime olimpiadi filmate. A testimoniare la vicinanza del gesto sportivo con quello cinematografico si ritrovano tracce di veri e propri tentativi di ripresa già nelle olimpiadi di Atene del 1906, una quarta edizione speciale
della manifestazione sportiva.[2] A filmare sono le case cinematografiche francesi Pathé e Gaumont (che dominavano il mercato dell'epoca), la britannica Warwick Trading Company e l'americana Burton Holmes; siamo ancora lontani dal concetto di lungometraggio e quanto è sopravvissuto al tempo (un girato della Gaumont e uno non identificato) documenta un approccio concentrato sui rituali olimpici e sui gesti atletici singoli.
Olympia trascende la dimensione non solo di reperto, ma anche quello di testimonianza (che pure incorpora, per la gioia degli storici) per offrire, per la prima volta, uno spettacolo mediato vero e proprio, con tanto di protagonisti (gli atleti), comparse (il pubblico), narrazione (le specialità sportive).
Le discipline si susseguono una dietro l'altra offrendo ognuna un piccolo dramma da seguire attraverso un percorso semplicemente costruito, preparazione-performance-pubblico. Ogni tanto un record olimpico, un'emotività accentuata, spesso una musica drammatizzante che aiuta l'atmosfera. Guardare oggi l'opera della regista tedesca stupisce quanto guardare le foto in bianco e nero di quando si era bambini; non colpisce tanto la differenza quanto l'identità calata in una diversa epoca, il ritrovare gesti e intenzioni che ben conosciamo. Nel gesto naturalmente umano di trovare la comunanza piuttosto che la differenza, le riprese della Riefenstahl appaiono spaventosamente simili al montaggio operato da una moderna pay per view.
Nel 1936 nasce quindi lo spettacolo dello sport filmato (per la distribuzione capillare televisiva del prodotto sportivo in senso stretto bisognerà attendere l'edizione del 1960 svoltasi a Roma) e sparge i semi di tendenze la cui maturità possiamo intravedere ancora oggi.
Il racconto è già mitico, sviluppato cioè sull'obiettivo di fornire storie alla società seguendo la scia di una narrazione ancestrale che si ripete in eterno eludendo la storia come mera ripetizione di una tradizione e privilegiando le costanti antropologiche elementari. La funzione è quella del poeta (o del bardo) che rinarra continuamente di eroi senza macchia, di vittime del destino cinico e beffardo, di burloni scanzonati, di sfide impossibili rese possibili; il tutto al fine di fungere da catalizzatore