E per casa una cella
By Giorgia Gay
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E per casa una cella - Giorgia Gay
lavoro.
Brevi cenni teorici
Antropologia della prigione. Le ragioni di un’assenza inspiegabile
Il campo d’indagine etnografico da tempo si è spostato dalle società lontane, primitive
- che storicamente sono state al centro del suo interesse - verso le società occidentali, moderne. Così gli antropologi hanno rivolto il proprio sguardo ai quartieri, alle scuole, alle piccole e grandi comunità. In questo passaggio però si sono dimenticati di gettare l’occhio oltre i muri di cinta. I motivi di questo disinteresse non sono del tutto comprensibili, soprattutto se si considera che il pianeta carcere
di fatto è una comunità in tutto e per tutto «dotata di proprie norme, di propri canali di comunicazione, di un proprio linguaggio, di propri capi e dipendenti, di tutto quanto cioè costituisce la necessaria premessa di un’organizzazione sociale» (Correra M., Martucci P., 2006). È una comunità così vicina eppure lontana, nascosta da un muro di cemento e indifferenza.
In Italia l’antropologia del carcere di fatto non esiste. Per trovare esempi significativi bisogna andare indietro nel tempo, al lavoro di Cesare Lombroso, medico, antropologo, criminologo e giurista di fine Ottocento. A lui si deve la nascita dell’antropologia criminale. Le sue opere si basano sul concetto del criminale per nascita e la sua tesi è che l’origine del comportamento criminale sia insita nelle caratteristiche anatomiche di una persona fisicamente differente dall’uomo normale in quanto dotata di anomalie e atavismi, che ne determinano il comportamento. Sebbene questa teoria sia oggi destituita di ogni fondamento, a Lombroso viene comunque riconosciuto il merito di aver dato avvio agli studi criminologici moderni.
La cecità dell’antropologia risulta ancor più incomprensibile se si considerano le dimensioni della comunità carceraria: agli inizi degli anni ‘90 in Italia contava circa 27 mila persone, diventate 54 mila nel 2001 e oggi salite a oltre 68 mila, con un trend in continuo aumento. Gli istituti di pena sono 206 sul territorio nazionale, disseminati in tutte le regioni. Il carcere, dunque, è sotto gli occhi di tutti eppure l’antropologia finora non ha voluto vedere.
A onor del vero, questo disinteresse non caratterizza solo gli studiosi italiani, bensì è diffuso anche in Europa e in America. Lo dice bene Loïc Wacquant nel suo contributo dal titolo eloquente La curiosa eclissi dell’etnografia della prigione nell’era dell’incarcerazione di massa
(2002): «Dal 1990 la California si è lanciata a capofitto nella più drammatica espansione carceraria ricordata nella storia». Eppure, in questo contesto, «mentre gli studiosi si sono concentrati su studi di forme nuove di controllo sociale decentralizzato nelle scuole, negli uffici pubblici di assistenza e negli ospedali, hanno eliminato le prigioni dai loro radar». Anche in questo caso il mancato interesse non trova giustificazione nei numeri, dal momento che la popolazione detenuta americana è passata bruscamente dalle 380 mila persone del 1975 al milione nel 1990. Un’espansione che non ha precedenti storici «non solo per la sua grandezza e velocità ma anche perché è accaduta in un periodo in cui i livelli di crimine sono rimasti essenzialmente immutati», precisa Wacquant.
Tuttavia, questo boom detentivo non caratterizzò solo i penitenziari statunitensi: le statistiche riferiscono che la popolazione detenuta di Francia è raddoppiata tra il 1975 e il 1995 e quella dei maggiori stati europei e sudamericani è cresciuta enormemente nelle due decadi passate. Come spiega Lorna Rhodes (2001), «l’espansione del sistema penitenziario è iniziata nei primi anni ‘80, con il più alto tasso di incarcerazione nel mondo».
Viene dunque spontaneo chiedersi le ragioni di questa eclissi
. Rhodes segnala tra le possibili cause - almeno parzialmente - le difficoltà burocratiche: vincoli, cavilli e difficoltà nel reperimento di informazioni di prima mano costringono infatti a cercare altre fonti, come report giornalistici e altri studi, denunce dei militanti, racconti dei detenuti, produzione accademica e materiali legali e storici. Facendo riferimento al proprio ambito di lavoro (quello statunitense), la studiosa commenta: «L’etnografia della prigione negli Usa non è solo in via d’estinzione, ma è già una specie estinta. Con le scienze sociali che hanno abbandonato la scena, si è costretti a usare scritti di giornalisti e detenuti per conoscere la vita quotidiana nelle celle americane». Questo avviene perché le prigioni sono diventate organizzazioni opache non facili da penetrare, che pongono ostacoli e impediscono in larga misura un’etnografia tradizionale
, rendendo difficile una vera osservazione partecipante.
Ma sarebbe riduttivo considerare questo come il solo e principale motivo: se così fosse non si spiegherebbe in che modo autori come Fleisher (1989) o Wilson (2004) abbiano potuto condurre le ricerche che sono alla base dei propri lavori. Ci deve essere qualcosa di più. Ecco, dunque, che un ulteriore problema può essere rintracciato, secondo Rhodes, nel disinteresse accademico e nella mancanza di fondi stanziati dalle agenzie governative e dalle fondazioni. «Se un giornalista come Daniel Bergner può stare dieci mesi nella più infame prigione dell’Angola e l’autore freelance Ted Conover è entrato a Sin Sin per un anno come guardia, cosa impedisce a un sociologo o a un antropologo dal fare qualcosa di simile?» si chiede la studiosa. «La risposta è che il Comitato accademico lo proibirebbe. L’oggetto della ricerca gode di uno status inferiore, perché prevede il contatto con una popolazione