I sandali al cocco
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«Quando il mare ti entra dentro diventi come lui»: l’ho sempre detto a tutti.
Ma questi scritti non escludono le esperienze avute nei “di terra” né le impressioni su come l’educazione della nostra società abbia cercato sempre di strapparci via le passioni, di come ci siamo fatti tutti abbindolare da quel luccichio all’orizzonte, avvicinandoci al quale scopriamo però non essere il faro di un porto ma l’avviso di scogli pericolosi.
Questa prova di scrittura è un saggio di vita vissuta da un immigrante figlio di immigranti, che ha mollato gli ormeggi della vita, quelli con i quali tutti ti legano, per cercare dei sogni a diciotto anni, poi a ventitré, a trentanove e a quarantasette... Ma chissà quante altre volte mi toccherà farlo in futuro.
Ad ogni partenza ho affrontato nuove scelte di viaggio. Alcune volte per consentire alla mia anima di sopravvivere altre per una semplice necessità lavorativa; affrontando di petto gli uragani creati dall’economia nel consumismo, le tempeste procurate dalle manipolazioni finanziarie dei banchieri e dalla tormentata sete dei politici per il potere economico.
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Book preview
I sandali al cocco - Armando Richard Addati Ollero
Armando Richard Addati Ollero
I sandali al cocco
Illustrazione by Celina Elmi
Copyright © 2015 Armando Richard Addati Ollero
All rights reserved.
SIAE n° 2014002820
UUID: 35d0fabc-ed91-11e4-bd6f-1dc02b2eb2f5
This ebook was created with BackTypo (http://backtypo.com)
by Simplicissimus Book Farm
Ringraziamenti
Ringrazio e dedico queste pagine ai miei genitori che come tutti gli immigranti hanno avuto dei sogni.
Io sono stato il sogno del loro ultimo viaggio.
Dedico queste pagine a tutti gli immigranti che con la speranza di una vita migliore affrontano qualsiasi cosa e spesso non si rendono conto del male che li attende nella terra promessa.
Indice
Ringraziamenti
Formazione dell'essere
Radici e innesti
Sinossi
Prologo
Anche la fortuna ci aiuta
Born in YV
Il Venezuela degli anni 50’ e 60’
Italiani che fecero fortuna in quegli anni
Noi proponiamo e Dio dispone
Felice e Dora
Nettuno, le sirene e i tritoni
Dopo un po di anni
La Marina
Sensazioni
Senso del dovere
Drammi
Un frutto nutriente
Natali e capodanno
Rapimento
Gli armatori amici di mio padre
Dopo un'altro po di anni
Energia dalla terra e dalle esperienze
Felice e il viaggio in America
I suoi racconti
Col passare del tempo
Verso la Metalùrgica Star
A Caracas la vita scorreva
Più fortunato di Rosario, Roberto e Marisol
Arrivai a Boston con Dora
La storia della mia prima automobile
Cosa piaceva a Felice
All’Università di Boston
Studi alternati
Fare le cose giuste
Apatia o vivere
L'autostima e la sicurezza di farcela sempre
Volare alto. Volere é potere
Da grande voglio essere Felice
Era deciso
Nuovo cambiamento
Ricomincio, sono giovane
Una conquista importante
O juorne 'e Pasca din'ta casa mia
Le onde
Il socio perfetto
Chi era quel francese?
A gonfie vele
Alle prime armi
Tutto a posto e niente in ordine
Incontri inaspettati
L’idea di non produrre niente
Mille progetti
Declino e piano B
C'è chi scende e c'è chi sale
Bisogno del mare e delle sue onde
La scuola di vela
Arrivò Ted
Navigazione in solitario
Cos’è un life coach.
Una nuova dimora
Natale in famiglia
Figlio comprati la barca!
Downshifting in corso.
Il turista, l'imprenditore ed il pescatore
La lista
Little things
Back to basics
Risvegli e nuove consapevolezze terricole
Un uomo libero é mentalmente fuori da ogni sistema
Seguire l'istinto
I viaggi in Venezuela e la nostalgia
Il viaggio in Cina
Una nuova consapevolezza sull'amicizia
I viaggi a Boston e la vera amicizia
On the road again
L'armatore che c'é in me
Rapporti umani
Lo yacthing e gli armatori
Il faro di Aristotele
Il porto base dell'armatore
L'arrivo al porto
La vita di pontile e di banchina
Gli ormeggiatori e le banchine
Le regate da circolo
I compleanni
Gli aperitivi e le cene a bordo
Le cene sul pontile e il bar si sposta!
Il toto fidanzate!
Le cene fuori
Matrimoni e funerali
Seguire i propri sogni.
I viaggi della libertà
La vita sulla terra ferma
L'amicizia é come un faro.
Primo grande viaggio
Altri viaggi meno importanti
Verso le Baleari
Cambio di rotta
Sidi Bu Said - un covo di pirati
Piano B plus: magna tranquillo!
Aldo Franzaldo
Formazione dell'essere
Radici e innesti
Sinossi
Alcune passioni si ereditano altre si formano altre ancora sono nel DNA. Quella che ho per il mare si perde nel tempo: da sempre ho letto, disegnato e scritto del mare e in questo esordio raccolgo filosofie di personaggi conosciuti sui libri come, ad esempio, Bernard Moitessier e di altri conosciuti di persona. Raccolgo esperienze dirette di porti e di navigazioni del mar dei Caraibi e del Mediterraneo, racconto esperienze di paesi apparentemente diversi tra loro come il Venezuela, gli Stati Uniti, la Spagna e l’Italia dove ho vissuto. Ho colto albe e tramonti, affrontato venti e onde che hanno inesorabilmente formato il mio carattere e influenzato ogni scelta di vita.
«Quando il mare ti entra dentro diventi come lui»: l’ho sempre detto a tutti.
Ma questi scritti non escludono le esperienze avute nei territori né le impressioni su come l’educazione della nostra società abbia cercato sempre di strapparci via le passioni, di come ci siamo fatti tutti abbindolare da quel luccichio all’orizzonte, avvicinandoci al quale scopriamo però non essere il faro di un porto ma l’avviso di scogli pericolosi.
Questa prova di scrittura è un saggio di vita vissuta da un immigrante figlio di immigranti, che ha mollato gli ormeggi della vita, quelli con i quali tutti ti legano, per cercare dei sogni a diciotto anni, poi a ventitré, a trentanove e a quarantasette... Ma chissà quante altre volte mi toccherà farlo in futuro.
Ad ogni partenza ho affrontato nuove scelte di viaggio. Alcune volte per consentire alla mia anima di sopravvivere altre per una semplice necessità lavorativa; affrontando di petto gli uragani creati dall’economia nel consumismo, le tempeste procurate dalle manipolazioni finanziarie dei banchieri e dalla tormentata sete dei politici per il potere economico.
Et ventis adversis, con i venti contrari, di questa frase di Gabriele D’Annunzio ho fatto una bandiera quando ho deciso che per cambiare in meglio devo andare contro tutti quelli che dormono a occhi aperti.
Così ho intrapreso da solo la mia lotta contro quelli che guardano senza vedere o per non essere disturbati, coloro che non alzano un dito per migliorare questa disastrata ma meravigliosa Italia.
Pur non essendoci nato mi sento italiano fino al midollo e contro ogni malcostume della cosa pubblica, nella fattispecie quello delle capitanerie di porto e contro gli abusi dei gestori portuali, ho scritto diversi articoli sulla rivista Bolina. Ma non solo: ho avversato chi per strada lascia la macchina in doppia fila e chi butta la carta per terra ma scrivo anche a sindaci e a ministri e ho scritto persino al professor Mario Monti quando finse di voler ascoltare gli italiani. Ho fatto davvero numerosi esposti alla forza pubblica, alcuni con esito positivo altri senza alcun riscontro. I miei amici mi ripetono spesso: «Prima o poi ti bucano una gomma o ti bruciano la barca».
Nel vortice dei miei racconti, nelle sensazioni e nelle scelte che ho provato a trasmettere c’è sempre il mare e il suo profumo è nei miei ricordi. Entrambi creano un imprinting che ha reso la mia vita nostalgica e spesso donchisciottesca
e, credo, lo si percepisca. A darmi la forza ed a ricordarmi che bisogna sperare per il meglio sono l’odore salmastro del mare e quello del cocco che aveva un paio di sandali che mi furono regalati dai miei genitori nelle Antille olandesi.
Scrive lo spagnolo Arturo Pérez-Reverte, nel libro Le barche si perdono a terra: Ci sono uomini che per affogare il proprio dolore e le sconfitte si rifugiano nelle loro barche a navigare perché a terra morirebbero più velocemente come succede alle barche dimenticate nei cantieri.
Questo tipo di uomini si perderebbero irrimediabilmente a terra, difatti alcuni non resistono e crollano, com'è successo al mio amico Bobby.
Noi che siamo in simbiosi con il mare siamo proprio come le barche.
Prologo
Ognuno è artefice del proprio destino.
Una mia compagna di scuola delle elementari mi invitò al suo compleanno. Strano a rifletterci, che quella, tra tante festicciole, mi sia rimasta così impressa; ne conservo un ricordo vivido come se fosse ieri. Elisabetta aveva occhi chiari e capelli a casco che scendevano sul collo come spaghetti di soia dorati. La villa dove abitava era di quelle tipo telefilm Dallas, non finiva più. Quando arrivai e, come vuole il cliché dell’educazione, entrai a salutare la mamma di Elisabetta, questa mi disse che c’era una sorpresa per me, una persona che voleva vedermi. Era Ana, Anita, la seňora de servicio
che per anni aveva lavorato a casa nostra e a cui io ero molto affezionato. Lei ora era occupata nella casa della mia compagna di scuola. Era andata via da noi perché aveva bisogno di vitto e alloggio anche per suo figlio, e noi, per problemi di spazio, non potevamo ospitarli entrambi. Come la maggior parte degli appartamenti borghesi di Caracas, negli anni precedenti alla dittatura democratica di Chavez, anche il nostro appartamento aveva una stanza con bagno separata dal resto della casa, dietro la cucina, il cosiddetto "el cuarto[1] de servicio".
Ad ogni mio compleanno Anita mi faceva dei deliziosi "coquitos[2] acaramelados", delle specie di palline di cocco grattugiato ricoperte di zucchero caramellato.
Sopraffatto dalla piacevole sorpresa, quando la vidi corsi ad abbracciarla con lacrime agli occhi. Mi presentò il figlio che aveva pressappoco la mia età ed io, dimenticando la mia amica, giocai insieme a lui fino a quando non arrivò l’ora di tornarmene a casa. Nel tempo che trascorremmo insieme, il figlio di Ana mi raccontò che quella famiglia lo trattava come un piccolo servo e che la mia amica Elisabetta lo aveva anche accusato di averle rubato un oggetto dalla sua stanza.
Spinto dal candido amore che avevo per Anita e dal senso di ingiustizia che percepivo in quell’accusa, non riuscii a trattenermi e andai a riferire ad Ana ciò che mi aveva raccontato il figlio. Ana si indispettì tantissimo e decise di parlarne subito con la padrona di casa. Successe un pandemonio ed io, che mi trovavo lontano dalla discussione, fui additato più volte anche se gli adulti non mi interpellarono e non seppi mai cosa stessero dicendo a riguardo.
In seguito, non fui più invitato in quella casa e la mia compagna di scuola non fu più la stessa con me; inoltre, non ebbi più alcuna notizia di Ana o di suo figlio e questo mi colpì molto.
All’epoca di quell’evento, non ricordo di preciso se avevo nove o dieci anni, e anche dopo provai forti sensi di colpa e rimasi con la sensazione di aver agito in modo sbagliato. Questo mi rese per lunghi anni insicuro, accadde quando mi trovai in situazioni analoghe e temendo conflitti, anche quando percepivo quale fosse la cosa giusta da fare, non feci più nulla. Nel voler difendere dall’ingiustizia il figlio di Anita probabilmente avevo danneggiato la loro situazione e mi convinsi che in futuro avrei dovuto farmi solo gli affari miei.
Per difendere i principi che mio padre mi aveva insegnato mi beccai anche una sgridata da mia madre, quando venne a sapere dell’accaduto. Come allora, ancora oggi quello stesso ragazzino che si batté per uno sconosciuto, di tanto in tanto, prende però il sopravvento, compromettendo l’efficacia e la spontaneità dei miei buoni propositi. Nonostante con l’esperienza io abbia imparato che, soprattutto noi adulti, non possiamo esprimerci in maniera spontanea come fanno i bambini, il ragazzino che ho dentro riaffiora come fosse uscito da un nascondiglio e così il mio approccio diretto spiazza qualunque interlocutore.
[1] Cuarto de servicio: stanza di servizio o della servitù a seconda del significato che gli si vuole dare.
[2] Coquitos acaramelados significa piccoli cocchi caramellati. E’ una ricetta di origine Cubana.
Anche la fortuna ci aiuta
Non lavorando più, la grande quantità di tempo libero di cui dispongo serve per godermi a pieno la mia barca a vela e il mare, le mie passioni e con il trascorrere dei mesi scopro che la qualità di vita di chi non ha orari è grandissima. In aggiunta a questo, da quando mi sono reso conto di come vanno le cose in Italia, sono talmente arrabbiato che mi trovo spesso ad essere in uno stato mentale per cui tutto ciò che penso lo esprimo a voce alta, noncurante delle possibili conseguenze. Ai tempi in cui avevo voglia di fare carriera, stavo molto attento a quello che dicevo e in compenso apparivo dieci anni più vecchio di adesso. Tenersi le cose dentro fa proprio male e si lo vede anche nei tratti del viso. Guadagnavo bene e mi piaceva molto il lavoro che facevo ma in realtà sognavo una qualità migliore nella gestione del mio tempo, della mia vita. Sognavo di andare per mare almeno per quattro settimane di fila e non essere invece costretto a fare dei viaggi pressato dal tempo e con la necessità di andare a motore, invece che a vela, per poter tornare in tempo.
Oggi sul mio conto corrente arriva poco più di un sesto di quello che solo qualche anno fa il lavoro come dirigente vi faceva confluire, ma il paradosso è che il mio desiderio, quello di una qualità di vita migliore, si è avverato come se avessi sfregato la lampada di Aladino. Credo che, neanche programmandolo, ci sarei riuscito così bene. Tanto per capirci un’estate mi sono potuto permettere di navigare per ben quattordici settimane.
Non me lo sarei mai aspettato ai tempi in cui ero convinto di fare carriera!
Per moltissimi anni ho sperato di poter dire la mia senza dover accettare compromessi, ho immaginato di scrivere un libro e sognato di realizzare questi miei desideri di libertà sulla mia barca. I professionisti li chiamano obbiettivi
ma questi sono semplicemente sogni nel cassetto.
In realtà è stato il flusso degli avvenimenti a farmi realizzare ciò che desideravo, perché la vita è fatta così: non sempre trovi quello che cerchi nel momento in cui lo vorresti e, molte volte, devi accettare tutto quello che viene anche se con tempi diversi da quelli dei tuoi programmi.
L’esperienza e qualche calcio nel sedere mi hanno insegnato che più spesso di quello che si creda bisogna lasciarsi trasportare dagli eventi, proprio quelli che in quel preciso istante della nostra vita ci sembrano negativi e, parimenti, dobbiamo sforzarci per modificarli in qualcosa di positivo per noi.
Se la nostra vita è come un fiume in piena che scorre a gran velocità, a maggior ragione non bisogna cercare di nuotare contro corrente perché rischiamo di affogare. È semplice, direbbe il mio amico Ernesto.
Dopo la mia ultima vacanza - è un modo di dire visto che sono in vacanza tutto l’anno - ho pubblicato qualche foto sul solito social network e una decina tra amici e conoscenti che non vedo e non sento da molti anni mi ha scritto: «non vale mettere le foto di quando avevi diciotto anni!; ehi bastardo, ma come hai fatto a ringiovanire?». Chissà, ho pensato, forse le preoccupazioni degli ultimi dieci anni seguite dal nuovo modello di vita senza orari sono stati costruttivi ed hanno fatto sprigionare qualche elemento chimico che ha steso le rughe della mia faccia… Un altro amico che lavora alla Hellwett Packard è convinto che in tempi non sospetti, anche se con la perdita del lavoro me la sono vista brutta, ho preso le decisioni giuste. «Armando» mi ha detto «io ti vedo come uno che non si perde in depressioni e nei tuoi giorni terribili sei sempre stato convinto che è meglio fare ciò che piace piuttosto che andare a spendere soldi dallo psicologo, e questo ha pagato.»
Se di aiuto natural-terapeutico vogliamo parlare tra la montagna e il mare ho scelto il mare. Quando ero bambino, mio padre mi raccontava storie su storie che avevano sempre per protagonista il mare. Lui era migrato da Napoli in sud America con una nave, e aveva il mare dentro. Dai pori della pelle, al posto del sudore, gli usciva l’acqua del golfo di Napoli.
Quando il mare ti entra dentro, accade che in qualche modo diventi come lui, gli sei complice e sei in grado di avere reazioni esagerate e di compiere azioni di ogni genere proprio come fa lui, il grande mare. A volte la distesa azzurra ti regala giornate stupende e a volte giorni e giorni di burrasca. Il mio carattere non è facile come non era quello di mio padre. Il mare cambia colore e odore ed è sempre in movimento; non sa stare fermo, come capitava a mio padre, ed è imprevedibile come lo sono anch’io.
Sappiamo tutti che il mare è grande e pericoloso ma allo stesso tempo è generoso e ci permette di navigarlo senza dover per forza decidere che rotta prendere. Questo è un grado di libertà che sulla terra ferma, nella società, noi non abbiamo. Nel bene e nel male il mare stimola e allo stesso tempo intimorisce, rilassa, consiglia ma anche castiga se si sbaglia, cosa che non succede ai farabutti che ci governano o che gestiscono la finanza.
Il mare è sempre con me e io so sempre dove trovarlo. A terra mi sento spesso solo. Mi sono preso tempo e sono entrato in simbiosi con lui e mi muovo seguendo il ritmo delle sue onde e adeguandomi ai venti e alle correnti, non gli volto mai le spalle e gli porto molto rispetto. In cambio io sento che lui, pur tenendo le distanze e mettendomi alla prova, mi accetta per come sono, proprio perché io accetto lui così com’é. Quando ho bisogno di parlare con qualcuno e di sfogarmi lui è sempre disponibile, e allora io lo navigo più spesso che posso.
Ero in rada sotto una pioggia fitta e, dopo aver letto un altro capitolo interessante sulla storia dei sommergibili, mi collego a internet. Leggo una serie di email noiose, tra cui quella del mio commercialista che dice di aver calcolato l’IMU[1] per il primo anno che, secondo lui, si aggira intorno a settemila Euro!
. Gli infami dei nostri politici, a quest’ora, se avessero risparmiato in auto blu e assurde spese, sia loro che dei loro partiti, e se avessero controllato meglio gli investimenti immobiliari degli enti non avrebbero avuto bisogno di chiederci altri soldi, anzi il nostro Paese non sarebbe sull’orlo del default. E non parliamo poi delle truffe fatte attraverso le banche e gli enti! Senza quelle ci saremmo potuti comprare la Germania ai tempi della nascita dell’Euro.
Come mia abitudine quando viaggio riassumo la mia giornata in una email e spedisco ai vari amici barcaioli che si trovano in ufficio al lavoro; quel giorno mi risponde Gloria: Armando perché non scrivi un libro che riguardi noi armatori?
.
Io, proprio io, dovrei scrivere un libro? Al liceo avevo l’insufficienza in italiano e la mia grammatica fa schifo! Ci penserò
le rispondo.
Ho sempre scritto moltissimo ma solo per me stesso e qualche anno addietro mi era venuta l’idea di scrivere una storia, ma ne ero poco convinto. La sera stessa dell’email di Gloria provo a buttare giù qualcosa e finisco per scrivere tutta la notte fino all’alba, e le invio tutto con una nota scrivendole che quello era ciò che avevo partorito riguardo noi armatori; l’argomento è comunque molto limitato e soprattutto di interesse per pochi lettori.
Gloria mi risponde il giorno dopo, spronandomi a proseguire, magari con un racconto che contenga anche quello che ho scritto.
L’idea continua a frullarmi in testa per giorni.
Navigo verso sud, destinazione Cipriano, dove ho appuntamento con un mastro velaio perché devo riparare la randa che ho rotto arrivando dal porto di Talamone, in Corsica. Maledette raffiche!
Mi sono fatto trasportare dalla stanchezza dell’attesa e dall’adrenalina, e sono partito pur sapendo che avrei incontrato una sventolata di prua; così ho perso il pannello solare e nell’ammainare la randa il vento me l’ha strappata, al centro in prossimità di un paio di garrocci[2].
Faceva un tempo del cavolo, per essere luglio, avrebbe già dovuto essere estate. A Cipriano mi tocca aspettare per scendere a terra perché il vento è fortissimo e non riesco neppure a vedere la spiaggia per quanto è fitta la pioggia.
Decido di provare a riprendere un racconto che avevo iniziato due anni prima e cerco di adattarlo alla richiesta di Gloria. Ne esce un minestrone senza capo né coda ma glielo invio lo stesso.
Niente da fare: Gloria mi scrive dicendomi che forse devo semplicemente raccontare le mie esperienze e basta. Provaci!
.
D’accordo, ma da dove incomincio?
Nel frattempo spiove, il vento cala e scendo nel mio mini tender per portare la randa a terra, finendo bagnato fradicio fino alle mutande. Il velaio corso, in un italiano francofono, mi promette di ripararla in due giorni e per pochi Euro, e questo non guasta.
Torno in barca, mi asciugo e ho tempo per pensare a cosa scrivere; così l’idea si sviluppa al punto di impedirmi di dormire più di due o tre ore per notte. Non so proprio come si scriva un libro o come si organizzi un lavoro del genere, perciò faccio ricerche su internet e trovo diversi siti con consigli e regole, e scopro che esiste anche un software per organizzare la struttura. Bingo!
Scarico il software e incomincio subito senza neanche sapere se mai porterò a termine questo progetto, anzi con la convinzione che sicuramente mi renderò conto che non ho nessuna chance di farlo pubblicare.
Per fortuna scrivere mi diverte e mi rilassa facendomi sfogare, e poi serve a distrarmi dalle solite preoccupazioni. Avevo letto Adesso Basta
di Simone Perotti e mi rendo conto che molte delle cose scritte dall’autore, da tempo avrei voluto scriverle io, così mi sento battuto sul tempo. Inoltre Perotti è uno scrittore, uno che si occupa di comunicazione per professione, e perciò non penso proprio che riuscirò mai ad essere al suo livello. Sigh!
Ma l’entusiasmo e la presunzione sono più grandi di ogni cosa e, non lavorando, ho una ricchezza che in pochi hanno: il tempo.
Allora eccomi improvvisato scrittore!
[1] IMU: Nuova e altissima imposta della casa nata nel 2011 che sostituì quella precedente.
[2] Garrocci: sono piccoli carrelli cuciti alla vela che servono a farla scorrere lungo un canale o un cavo di acciaio.
Born in YV
Sono nato a in Venezuela[1] ed i miei genitori, quando ne ebbero la cittadinanza, erano ormai due persone di mezza età con storie complicate alle spalle.
Si erano incontrati in una piccola pensione di Caracas,[2] una specie di Bed & Breakfast. Per quanto ne so, mia madre era andata nella città dai tetti rossi
per cercare il suo compagno, un compagno che, per ragioni che nessuno mi ha mai spiegato, se n’era andato da Madrid all’inizio degli anni ‘60 ed aveva aperto una scuola nella capitale Venezuelana.
Mia madre Dora mi raccontò che il suo futuro sposo, mio padre, si era giocato quasi tutto a Montecarlo e che l’ultima volta che era stato al casinò se n’era tornato in treno insieme al suo autista, perché per colpa del gioco aveva venduto anche la macchina. Ma forse la verità non era neppure quella.
Dora era molto fiera di non aver mai sofferto la fame né durante la Guerra civile spagnola né nel resto della Seconda guerra mondiale. Erano solo quattro in famiglia e da buoni contadini lavoravano sodo. Per quanto ho potuto apprendere da mia sorella Marisol,[3] mia madre all’età di sedici anni aveva iniziato una relazione con un avvocato. Un nobile di cognome De Olaňeta.[4] Era molto più vecchio di lei e si invaghì di quella sedicenne bionda con gli occhi azzurri, e tosta di carattere. Quando seppi questa storia, non ne fui sconvolto più di tanto perché ero abituato all’idea che in Venezuela molte giovani donne, non ancora maggiorenni, si sposavano proprio a sedici anni. Dunque, mia madre, figlia dei miei nonni contadini del paese di Moraleja de Enmedio[5], aveva un fortissimo desiderio di emergere e magari il sogno di vivere come una signora borghese, ma la cosa interessante che appresi di lei è che le piaceva molto l’idea di studiare.
Dora colse l’opportunità che le si presentò, lui era un uomo importante ed istruito, e lei raggiunse i suoi obbiettivi, almeno in parte.
Per farla breve, ella rimase incinta di Marisol e fece la bella vita finché le fu possibile. La situazione con l’avvocato però si modificò e qualche anno prima di compiere quarant’anni, la crisi di coppia la portò nel nuovo mondo.
Mia sorella, Marisol, fu cresciuta da una sirvienta,[6] e quando mia madre decise di partire per il Venezuela fu lasciata da lei in un collegio di suore. Per quanto brutto oggi possa sembrare, a quei tempi era normale anzi era un’abitudine delle famiglie benestanti quella di rinchiudere i propri figli in collegio. Ai bei tempi, Dora, nel ruolo di signora di quel nobile avvocato, disponeva di parecchio tempo libero e con le sue amiche giocava spesso a canasta[7] su bellissimi tavoli di feltro verde. Seguiva corsi di vario genere, da quelli per infermiere a quelli di giardinaggio, ma soprattutto non dovette mai pulire i pavimenti di casa né fu mai costretta a cambiare i pannolini a sua figlia.
Mio padre Felice aveva un paio di cose in comune con lei, ma aveva un approccio alla vita diametralmente opposto al suo. Anche lui veniva da una famiglia molto umile e, come mia madre, anche lui voleva migliorare se stesso. Ma essi erano completamente diversi nel modo di agire e nel carattere.
Per cominciare la famiglia di mio padre era costituita da otto figli e in Italia durante la guerra in una città come Napoli la fame c’era e come. Mio nonno, Armando, aveva lavorato sempre sulle navi come capo elettricista e quando tornava a casa si ritrovava con un nuovo figlio da sfamare, frutto dell’allegria del precedente sbarco. Dall’anno 1912, anno di nascita di mio padre, fino alla sua partenza per il Venezuela negli anni ‘60, la famiglia così numerosa aveva sempre arrancato.
A Caracas, Felice, chiamato affettuosamente Felicetto da mia nonna Teresa, alloggiò insieme al suo carissimo amico Corrado nella pensione di una signora spagnola, una certa Oliva che poi era un’amica di mia madre.
Il gioco del destino era fatto e così i due giovani fecero conoscenza, raccontandosi anche quale fosse il motivo che li aveva spinti fino a Caracas. Mi immagino Felicetto a raccontare in dialetto napoletano e Dora a fare domande in spagnolo. Hanno continuato a parlarsi in quel modo fino al giorno in cui mio padre venne a mancare, nel 1996. Questo in parte giustifica il perché a scuola non riuscivo mai a scrivere bene in italiano né in spagnolo.
La storia di quel loro incontro mi scorre davanti, come se fossi stato presente.
Dorita, come la chiamava mio padre, doveva avergli raccontato che era andata a Caracas per cercare l’avvocato De Olañeta, sparito da qualche anno. Lui invece doveva averle confidato che non ne poteva più della sua complessa situazione familiare: in Italia, prima di partire, aveva dovuto sistemare in collegio i due figli, Roberto e Rosaria, mentre la moglie era stata rinchiusa in un ospedale psichiatrico; un luogo che all’epoca, anzi, si chiamava senza mezzi termini manicomio
.
Per completare il quadretto, visto che a quel tempo non si poteva divorziare, papà, invece di risposarsi, aveva dovuto accontentarsi di una nuova relazione, farsi un’amante. Ma immagino che questo dettaglio non lo raccontò subito a mia madre, come spesso succede in queste situazioni.
Insomma, per come era fatto lui, mio madre si mise subito a disposizione di Dorita per aiutarla a trovare l’avvocato De Olañeta. Nel frattempo l’amicizia tra loro crebbe e così anche l’interesse reciproco, nacque un’infatuazione che in breve divenne una passione che presto li portò ad unirsi in matrimonio. Si sa che la carne è debole e mia madre era un bel bocconcino, e proprio nell’età migliore per una donna.
Intanto riuscirono a trovare l’avvocato e lo contattarono per un incontro. Ma un altro personaggio si aggiunse a rendere ancor più intricata la situazione: arrivò a Caracas anche la concubina di mio padre, alla quale daremo un nome di fantasia, la chiameremo Maria
.
A questa operetta da teatrino
alla Eduardo De Filippo mancavano solo il palcoscenico ed un pubblico, che però non tardarono ad arrivare… E tutto quindi finì come in ogni commedia napoletana che si rispetti, della serie Facite ammuina:[8] De Olañeta si mise insieme con la Maria e Felice, beh già lo sapete...
Come se non bastasse, poco dopo arrivarono i miei fratelli da Napoli, Roberto e Rosaria, e prima che io nascessi, arrivò da Madrid anche mia sorella Marisol.
Ma come si suole dire, le cose vanno fatte fino in fondo ed così i miei divennero anche soci in affari. Dorita aveva qualche gioiello, una pelliccia e un po’ di soldi ma non aveva mai lavorato in vita sua e Felicetto era pressoché squattrinato ma conosceva l’arte di arrangiarsi, imparata durante e dopo la guerra. Lui, con una stretta di mano, si era portato con sé delle rappresentanze dall’Italia: una ditta di biliardi di Rutigliano e qualche altra casa produttrice gli diedero l’esclusiva per il Venezuela. Qualcuno a Napoli, inoltre, gli aveva dato il nome e l’indirizzo di un massone di Caracas, a cui mio padre andò a chiedere consigli ed un prestito. Dopo essersi presentato ed aver dato la mano nel modo in cui i massoni si riconoscono, ricevette un assegno in bianco. Ma papà non aveva l'animo del massone e per giunta ebbe paura di usare soldi in prestito, perciò poco dopo, pur ringraziando il massone per il gesto generoso, preferì stracciare l’assegno.
Nel frattempo mamma, che era quasi una quarantenne di bel portamento, dato che in Spagna aveva imparato a fare le iniezioni, trovò lavoro in una farmacia. Ma il primo giorno di lavoro, durante l’orario di chiusura, il proprietario del negozio le chiese di passare uno straccio per terra; Dora scoppiò a piangere e il proprietario, con tanto di camice bianco, si lavò i pavimenti da solo e la mandò a casa. Qualche mese dopo Dora trovò lavoro presso una banca Italo-Francese e grazie alla sua abile gestione del denaro ebbe un discreto riconoscimento professionale. In seguito abbandonò la banca per lavorare con mio padre, anche se, conoscendo la sua indole, posso immaginare che lo scopo fosse quello di controllare la cassa comune e l’amministrazione della società. Mio padre era quello che oggi chiameremmo un