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La giornata del naso rosso
La giornata del naso rosso
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La giornata del naso rosso

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About this ebook

È la storia di Irma, una donna di mezz’età che vive da sola in un quartiere centrale di Helsinki. Di lei non si sa molto, a parte che ha un figlio, probabilmente impelagato in loschi affari; si può però intuire che la sua vita non sia completamente a posto. Finita per caso davanti alla porta di sconosciuti, si inventa una scusa per poter entrare, il sondaggio per una ricerca di mercato. Dopo questa prima, positiva esperienza socializzante, sempre bisognosa di un contatto umano, si ripresenta, con lo stesso pretesto, sia alla porta di alcune abitazioni del suo stesso quartiere, sia della lontana Kerava. Le domande che pone sono però confuse e bizzarre e qualcuno inizia a dubitare dell’autenticità dell’intervistatrice, tanto da chiamare la polizia. Irma è sconvolta. Aveva fatto in tempo a familiarizzare con la maggior parte delle persone intervistate, sperando nel suo profondo di poter così instaurare quasi un rapporto d’amicizia, e adesso invece è costretta a evitarle. Un avvenimento luttuoso la costringe però a ritornare a Kerava; riesce a fuggire le persone che cercavano di affrontarla, ma non la polizia...

PREMIO FINLANDIA 2010
LanguageItaliano
Release dateSep 18, 2013
ISBN9788865640852
La giornata del naso rosso

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    La giornata del naso rosso - Mikko Rimminen

    rosso

    La giornata del naso rosso

    Mikko Rimminen

    La giornata del naso rosso

    PREMIO FINLANDIA 2010

    Traduzione dal finlandese di Antonio Parente

    I

    All’inizio fraintesi e per un attimo credetti che anche lei si chiamasse Irma, e mi venne da ridere pensando alla confusione che questa omonimia avrebbe creato; ma poi, confusa già oltre l’inverosimile, fui contenta di scoprire di essere l’unica a chiamarsi Irma e che invece lei era Irja, da non confondersi con Arja, che a quel punto non conoscevo ancora.

    Sedeva lì, di fronte a me. Le rughe del sorriso intorno alla bocca e gli orologi di legno e la cucina intorno alla testa. Un ottimo stato in cui trovarsi, secondo me.

    Sul tavolo c’erano il caffè e la brioche a treccia, quella del negozio, un po’ umidiccia, che porta sempre a chiedersi chissà quale veleno usano per farla durante tanto. Gli orologi di legno dietro la testa di Irja segnavano la loro vita fuori sincrono, ce n’erano tanti, più di una decina, ascoltavo il loro stridio e guardavo l’acero in cortile che indossava il suo splendente vestito autunnale, e mi persi per un attimo a pensare alle preoccupazioni che può procurare una vita con tutti quegli orologi; bisogna regolarli di continuo, e poi si arriva al punto che uno dice basta, segnino pure il tempo che vogliono.

    Aveva una casa davvero bella a Kerava, la famiglia Jokipaltio. Trascorsi lì la mattinata, grigia e desolata, almeno per una casalinga come Irja, a giudicare dai suoi discorsi e da altri indizi: il marito al lavoro, all’officina Jormakka di Korso, la figlia alle medie e il figlio a sfacchinare per l’esame di maturità, informazioni delle quali avrei preso nota tornando a casa.

    Ma comunque era un posto piacevole. C’erano gli orologi di legno e altri oggettini, i tulipani di legno, un elefante di vetro, la bottiglia di cognac a forma di torre Eiffel, le conchiglie, una pietra levigata e delle piante verdi che sembravano molto curate, alle quali forse parlava anche; niente di appariscente, ma era come se dicesse: non siamo ricchi da far schifo, ma anche una persona normale può stare bene in casa propria. Tutto era pulito, c’era un buon odore, solo di pulito e non di quei prodotti pungenti per la pulizia come in alcune case, subito sospette. Di spazio sembrava ce ne fosse abbastanza per l’intera famiglia.

    Anche lei era piacevole, Irja intendo. Capii subito che potevamo stare sedute in silenzio a guardare il cortile, senza dover per forza parlare; sotto gli alberi screziati i bambini serpeggiavano con indosso tutine di ogni colore, come i serpenti marini di un documentario sulla natura; poi, in modo naturale, iniziammo a conversare: Ah quelli, ti ricordi?, Oh, mi ricordo, Quelli erano tempi, Proprio così, Ma non è che mi manchino, No, Le tutine per giocare nel fango e tutto il resto, Non me lo dire nemmeno!, Non te lo dico, Cosa?, Era una battuta, Ah, Non molto riuscita, No, sono io a non aver capito.

    «Prima si muore dalla preoccupazione ogni volta che battono la testa contro gli sportelli e poi si ha paura che qualcun altro possa far loro del male» disse Irja. «Le preoccupazioni non finiscono mai».

    «È vero» risposi, anche se probabilmente sarebbe stato sufficiente un mio chiaro segno di assenso.

    La cosa più importante ora, però, era che facevamo delle domande, rispondevamo quando ci sentivamo di farlo, eravamo sedute a bere il caffè. Era stato solo uno sbaglio, il tutto; all’inizio ero venuta a Kerava a prendere un filodendro, qualcuno regalava le piante perché doveva trasferirsi, l’annuncio l’avevano affisso sul muro del mercato coperto di Hakaniemi, non so perché lì, così lontano, e ora non so nemmeno perché fossi finita addirittura a Kerava per prendere quella pianta, ma quando le cose sono gratis le distanze sembrano più brevi di quello che sono. Ad ogni modo ero entrata nella scala sbagliata, e forse anche nell’edificio sbagliato, e sovrappensiero avevo suonato il campanello, quello degli Jokipaltio, in qualche modo sembrava la cosa giusta da fare, e lo sarebbe sembrato anche più tardi, mentre sedevo da loro, benché già dopo la prima tazza di caffè fosse chiaro che non avrebbero distribuito filodendri.

    E non so nemmeno come mai, tutto a un tratto, era così gradevole, davvero lo era, sedere insieme a Irja, conversare, parlare del più e del meno, di qualsiasi cosa. Lo scricchiolio degli orologi di legno tutto a un tratto mi aveva sciolta, stavo chiacchierando con qualcuno, lo stavo facendo, parlavo di questo e di quello, e poi decisi che avrei anche posto delle domande, se fosse stato necessario. Mio figlio dice sempre che converso alla grande. Dice sempre così, un attimo prima di andare via.

    È pur vero che dovevo trovare una scusa per quella mia intrusione, è così difficile ammettere di aver sbagliato. Così d’improvviso mi ritrovai a scarabocchiare degli appunti sulle pagine vuote alla fine dell’agendina e a mormorare qualcosa di vago su sondaggi, ricerche di mercato e altre cose. E poi, quando finalmente mi resi conto che, versato il caffè, Irja si era inaspettatamente fermata alle mie spalle e mi guardava con un’espressione curiosa ma amichevole e con un sorriso da guancia a guancia, sentii il rossore salirmi fino alla fronte. E siccome non riuscivo a pensare a nessuna scusa impellente, cercai di fissare il piattino di ceramica Arabia appeso sopra la cappa, e subito dovetti chiedermi perché fosse appeso lì, in quel posto dove si raccoglie tutto il grasso, di sicuro bisogna pulirlo un paio di volte al giorno. Quando anche questo pensiero non sembrò aiutarmi a far sparire il calore dal viso, indicai all’improvviso la finestra gridando: «Ehi! Quel bambino sta mangiando la sabbia!»

    E ben presto mi ritrovai già alla porta, scusandomi perché quello era il mio primo giorno di lavoro e avevo dimenticato tutti i documenti necessari a casa o in ufficio, o dov’era che li avevo lasciati.

    Quando l’uscio si chiuse sentii una sorta di clic armonizzato. Irja rimase lì a gustare altro caffè, che a me aveva provocato un tremolio accentuato alle mani, ma che comunque non avevamo smesso di bere. Scesi le scale, sulle quali aleggiavo in preda a una strana, colpevole allegria, come il fantasma dell’Opera. Arrivata al pianerottolo del primo piano trovai il coraggio di fermarmi e di poggiare la fronte contro il vetro freddo d’autunno. All’esterno le foglie multicolori macchiettavano il parcheggio.

    «Sta bene?» chiese improvvisamente una voce alle mie spalle.

    «Certo» feci in tempo a dire ancor prima di voltarmi a vedere chi fosse. Cercai di dirlo in modo da infarcire di buonumore le mie parole, ma mi resi conto che suonarono piuttosto come se a pronunciarle fosse stata una vecchia burbera. E poi, quando mi girai, sicuramente con un’espressione di lieve spavento, per un po’ non vidi niente e nessuno, finché non abbassai lo sguardo. Era un ragazzo, forse tredicenne, i cui brufoli e la cui faccia in qualche modo arancione ricordavano un’arancia natalizia con i chiodi di garofano conficcati dappertutto. Tutto sommato quella sua faccia di avannotto e l’espressione che gli calò sul viso mi fecero supporre che fosse stato nutrito con troppe carote e che gli fosse stato ripetuto, forse anche troppe volte, che bisogna essere educati con gli anziani.

    «Ahvabenenienteallora» disse fiondandosi verso i piani superiori.

    «È bello che i giovani d’oggi sappiano dare del lei!» gli gridai a voce inutilmente alta, ancora una volta usando un tono sbagliato e trasalendo per il mio stesso baccano. Gli ultimi metri verso il cortile li percorsi a grandi passi, arrischiando più che potevo, e un misto di panico e gioia, quel formicolio che ricordavo dall’infanzia, mi frizzò nelle gambe, nelle mani e nei denti per l’intero tratto.

    In cortile il sole basso colpiva dritto agli occhi, e per un momento ne fui completamente accecata. Procedendo verso la fermata dell’autobus dissi due volte buongiorno, prima a un tronco di pino, la seconda volta a uno sconosciuto vero e proprio. L’autunno scorreva nei polmoni azzurro ed effervescente.

    Passarono un paio di giorni autunnali, di color pasta sfoglia, durante i quali non riuscii a produrre che pochi pensieri sprimacciati. Così trascorre le giornate chi è felice, pensai, o almeno chi è soddisfatto, o, come dire, normale, ordinario, moderatamente ottimista. Insomma, quando la vita ha un senso ed è sotto controllo.

    Non era una felicità esuberante, naturalmente, ma piuttosto leggera e frondosa. Nulla di essenzialmente diverso dalla normalità. Mi svegliai, andai al mercato di Hakaniemi, mi sedetti ai tavolini del bar, tornai a casa, preparai da mangiare, pranzai, spulciai le riviste, feci il bucato, andai e tornai dalle ville di Linnunlaulu, mi appisolai un attimo davanti alla TV, indossai la camicia da notte. Nei negozi e al bar non parlai molto, non avevo voglia di chiacchierare, non me la sentivo, e non c’era bisogno di sforzarmi, di star seduta in un angolo sotto la tenda del bar pensando di dovere andare dalla padrona di casa a dirle qualcosa di sostanzioso sul tempo.

    Così per prima cosa presi a camminare; mi sedetti in piazza e cominciai a osservare un po’ tutto: i passanti con i loro carichi di forme diverse, il barbone quotidiano che ogni giorno voleva andare a trovare sua madre e perciò aveva bisogno dei soldi per il biglietto dell’autobus e li chiedeva a chiunque incrociasse per strada; l’enorme pescivendolo dai capelli rosso fuoco che iniziava a mercanteggiare con se stesso se il cliente non capiva cosa fosse meglio per lui; la signora della caffetteria, una persona di una piacevole casalinghità, con un’enorme verruca sul setto nasale; la signora sfiorita della bancarella dei fiori che preparava dei bouquet con sorprendente destrezza nonostante non avesse il medio e l’anulare della mano destra. A volte dimenticavo per un po’ di osservare i gabbiani e i passeri, dei quali riuscivo ad ammirare sorprendentemente a lungo quella loro indifferenza, come succede quando si segue con una certa apatia un gran premio che si protrae fino alle ore piccole, o un video musicale. Mi bastava quel loro movimento, ballonzolante e volteggiante.

    Poi rimasi a guardare per una decina di minuti una gomma annerita dai passi, appiccicata a un ciottolo, chiedendomi da quanti anni fosse in attesa di qualcuno che la raschiasse via. Dovevo staccarla. Cercai di farlo prima col cucchiaino di plastica, e dopo, quando si spezzò, con la chiave. Quando finalmente riuscii a sollevare quella cosa appiccicaticcia la gettai nel cestino.

    Infine mi accinsi a tornare a casa. Avevo comprato i fegatini di pollo, le patate le avevo, e anche gli ingredienti per la salsa, la panna e la cipolla, non serve altro per fare la salsina di fegato; la fame era tanta e anche la sete, il caffè non mi aveva dissetato a sufficienza e in ogni caso avevo fretta di uscire dalla tenda dopo l’operazione staccagomma. Camminai sul lungomare verso la punta della penisola, e quindi verso casa, quando improvvisamente mi sentii le gambe molli e dovetti sedermi sulla panchina. Il mare sembrava di grasso e di crema, e vi si rifletteva il cielo. Da una nube solitaria sbucò sulla superficie d’acqua un’anatra, come se quel fiocco nuvoloso avesse partorito un uccello acquatico, del tutto indifferente al miracolo della sua nascita.

    «Vatuttobenesignora?» chiese qualcuno.

    Dopo essere rimasta per un po’ concentrata sulla rigida moltitudine delle forme sabbiose, alzai lo sguardo realizzando di averle fissate per evitare di pensare a quella sensazione di fiacchezza. Di fronte c’erano due teenager, con molto trucco e pochi vestiti; quello che spiccava di loro era soprattutto l’assurdo colore rosa sulla superficie calma dell’acqua.

    Mi impappinai, incapace di dire qualcosa. Fui quasi sul punto di esprimere meraviglia per i modi sospettosamente affinati dei giovani d’oggi, ma non ci riuscii, a volte è impossibile convogliare fino alle labbra la spuma che monta nei pensieri. Comunque alla fine sospirai rispondendo sì. Avrei voluto aggiungere un grazie, ma i suoni mi si seccarono in gola.

    Sedevano entrambe sulla panchina accanto a me, accavallarono le gambe e cominciarono a gorgogliare la loro gioventù. La prima spiegava all’altra, caoticamente, qualcosa di un certo Max e di un altro paio di personaggi dai soprannomi incomprensibili, Non lo capisco, Cioè non può essere, E indovina allora che, Che cosa?, Ha detto che le mie sono buone, Davvero?, E allora io sono rimasta così, Non può essere, E il trucco intorno agli occhi tutto sbavato, No, Davvero. Seduta sull’altro lato della panchina e rannicchiata come se cercassi rifugio, per un po’ le ascoltai, ma ben presto scivolai in una sorta di torpore, sprofondando in una nebbia senza pensieri. All’improvviso, però, rinvenni da quel silenzio lacerato da tutto quel gracchiare e girai la testa, con la massima discrezione. Le ragazze sedevano ancora nella stessa posizione di prima, ma ora i loro occhi sognanti fissavano l’acqua, come fanno gli anziani.

    Poi quella più vicina si voltò verso di me, sorrise e boccheggiò con le sue labbra rosa tre parole tondeggianti, amichevoli, come una serie di palloncini di gomma da masticare: «Bella giornata, oggi».

    Anche queste ragazze erano di buone maniere, se non si contano espressioni tipo c…o, o per dirla tutta cazzo, visto che oggigiorno la si sente anche alla televisione, all’ora di cena, questa parola. Pensavo di rispondere con qualche riferimento descrittivo, e perché no anche di sorellanza, sulle condizioni atmosferiche.

    Mi uscì solo un sì, è vero.

    Ebbi l’impressione che le ragazze fossero in attesa di un seguito. Quando poi constatarono che era inutile aspettarsi un codazzo verboso, l’altra, quella seduta più lontano, riprese il discorso sullo stesso tema: «Non sembra nemmeno autunno».

    «No» risposi talmente in fretta da farmi paura, ma poi di nuovo non mi venne niente da aggiungere, iniziai solo a strofinare le mani. Alla limpida luce diretta del sole parevano quasi trasparenti, le mani, sacche idriche brillanti nelle quali fluttuavano venature nodose e minuscoli frammenti ossei. Le ragazze non avevano l’aria turbata, ma poi quella più vicina nasalizzò ora abbiamo l’intervallo e quindi lanciò uno sguardo sognante verso la baia di Eläintarha. «È bello quando c’è l’intervallo».

    «È un po’ come continuare a vivere l’estate» aggiunse l’altra. Dopodiché si sporse dietro le spalle dell’amica, mi guardò dritto negli occhi e chiese: «Lei è in vacanza, in pensione o qualcosa del genere?»

    Fissai il suo occhio che si avvicinava, i grumi e quell’accozzaglia di mascara ricordavano una rosa canina. Dietro la sua testa, dall’altro lato della baia, il treno ad alta velocità strisciava via lento dalla città; ebbi l’impressione che fosse entrato nell’orecchio sinistro della ragazza per poi sbucare fuori dal destro. Finalmente risposi: «No».

    «Ookeei» replicò la ragazza più vicina allungando la parola come un elastico.

    «In realtà» continuai temendo che la mia risposta fosse potuta sembrare secca e scortese. Poi non mi venne più nulla. Solo dopo un paio di secondi interminabili mi sforzai di aggiungere:

    «In realtà è come se lavorassi mezza giornata».

    «Un bel lusso» disse quella seduta più lontano, con un tono di sincera ammirazione. Entrambe sorrisero.

    Visto però che quei sorrisi sembravano non aver fine cominciai a innervosirmi. Frugai la borsa con gesti teatrali, vigorosi e rumorosi; riconobbi al tatto il sacchetto scivoloso dei fegatini di pollo, palpeggiai il borsellino, il telefono e l’agendina, e poi tirai fuori dei fogli ammucchiandoli in grembo e scartabellandoli freneticamente; avevo stampato quel quinterno un paio di giorni prima. Corrugai la fronte in modo pensieroso, almeno così mi sembrò. Bagnai le dita con la lingua, tirai fuori un nuovo foglio e lanciai uno sguardo alle ragazze, riuscendo in qualche modo persino a sorridere; fecero un cenno simultaneo col capo, come se fossero manovrate con dei fili.

    Ad ogni modo ci capimmo: dei documenti importanti, un vero lavoro. Un vero lusso.

    Continuai a frusciare le carte. A fianco si alzò di nuovo quel brusio intenso, nasale. Il vento sfrascò i detriti tra i piedi, in cima alla collina di Kallio il furgone dei pompieri lanciò un grido, allungandosi poi in lontananza con quel suo lamento. La continuazione dell’estate si estendeva sulla terrazza del ristorante Juttutupa, qualche ubriaco ululava la canzone Dirlanda infarcendola di parolacce nuove. Dalla carreggiata alle mie spalle una voce maschile augurò a qualcuno buona vita, dopodiché sigillò il tutto con lo scroscio finale della portiera.

    Presto non sentii più nulla. Fissai i fogli, presi a sfogliarli e risfogliarli con foga. Una spiacevole certezza iniziò a diffondersi dal torace alla punta dei piedi e delle dita, come se d’improvviso il cuore avesse iniziato a pompare benzina gelata.

    Solo allora compresi quanto fossero state confuse quelle mie domande a Kerava. Riguardavano soprattutto la cura della casa, chiaramente, un argomento naturale per iniziare, ma erano poco credibili, casuali, le domande: ad esempio, mangiate lo yogurt?, quante volte la settimana fate la sauna? E naturalmente Irja aveva risposto una, come avrebbe fatto la maggior parte dei finlandesi. Le nuove domande, invece, erano di gran lunga più plausibili. Quanti operatori telefonici usate in famiglia? Chi decide gli acquisti di prodotti per la pulizia? Preferisce fare la spesa al negozio più vicino oppure in un grande supermercato? E se la risposta prevedeva più opzioni, tanto meglio.

    Il risultato, in ogni caso, fu che cominciai a vergognarmi di quelle domande. Sentivo la testa surriscaldarsi, in qualche modo. E quando iniziai a percepire al mio fianco il fruscio di stoffe che si preparavano ad andare via, il tintinnio della bigiotteria di poco prezzo e qualcosa tipo arrivederci e buona giornata, riuscii a rispondere soltanto sbadatamente con un leggero cenno del capo, con uno strano stridio che mi salì dalla gola e con un tentativo di sorriso simile a una smorfia digrignata, come fanno in America quando si ritrovano di fronte alla macchina fotografica. Forse lì lo insegnano già alla scuola materna che bisogna mettere i denti in bella vista quando ti fotografano.

    Dopo che le ragazze furono scomparse dietro i cespugli arrotolai i fogli ficcandoli in borsa e rimasi a fissare il fondo immobile della baia, nella quale era appena caduta dall’alto la macchia bianca del gabbiano che si spandeva lentamente sull’acqua come un uovo rotto nella padella.

    Sull’autobus mi sedetti nel posto vuoto vicino al finestrino, e piantai la borsa in grembo, come se volessi in qualche modo abbracciarla. Dopo cinque secondi una donna piuttosto in carne sprofondò nel sedile a fianco con un rumore sordo; portava un carico più grande del mio, pur tenendo la sua sporta con una presa simile. Mi affondò il gomito nelle costole, proprio dove non ho niente di morbido.

    Gli autisti si diedero il cambio. L’autobus rimase tremolante a folle al proprio posto, risuonando in modo tale che, di tutte le parti del corpo, fu proprio sulla fronte che d’un tratto sentii un prurito incontrollabile. Cercai di non grattarmi. Sul bordo della piazza gli autisti scambiarono ancora qualche parola accalorata e gesti di mani concitati; erano entrambi stranieri, o dovrei dire stranieri finlandesi, ma ciascuno di un paese completamente diverso. Quello che smontava sembrava turco, quello che iniziava il turno somalo. La conversazione pareva non avere fine. In piazza il lavastrade arancione frustava i sampietrini con colonne d’acqua all’apparenza taglienti. Passando spruzzava via i rifiuti, anche quelli della società, e i piccioni.

    I conducenti si scambiarono delle notizie, e alla fine si abbracciarono e si dettero una pacca sulle spalle. Riportai le labbra in una posizione neutra, rovistai la borsa in cerca del cellulare e per un po’ digitai qualcosa con i pollici, ma quando il campo di testo iniziò a diventare completamente nero perché coperto da una sterpaglia di caratteri casuali e insensati mi stufai dell’apparecchio e lo riposi in borsa.

    Il traffico su via Häme si muoveva a scatti, ansimante. La gente trascinava dei sacchetti di plastica sgargianti. Davanti al negozio di prodotti asiatici una donna imponente con il capo coperto da un foulard dondolava la carrozzina. I tre bambini con lei, già capaci di camminare, erano tenuti con un ingegnoso sistema a tre cinghie attaccate a dei velcri a mo’ di cappellini; potevano muoversi un po’, ciascuno in una direzione, ma non finire in guai seri, ad esempio sotto una macchina. Davanti all’ufficio di collocamento di via Haapaniemi c’erano tre macchine dei pompieri e un gruppetto di curiosi, ma non feci in tempo a veder meglio l’incidente poiché l’autobus era già passato oltre con uno scatto vibrante.

    Arrivammo alla curva di Sörnäinen, con le macchine che si spostavano freneticamente da una parte all’altra e con i perditempo fermi testardamente in mezzo alla strada; attraversammo Vallila, con la chiesa di San Paolo, circondata dagli aceri dai colori ardenti, quindi Kumpula, e infine Koskela. All’inizio dell’autostrada per Lahti cominciai a frugare la borsa tirando fuori i fogli; dovevo fare qualcosa contro le stoccate di gomito che la vicina mi metteva a segno tra le costole. Non che questo ora fosse una sorta di contatto umano, o che cercassi di evitarlo, solo che iniziava a farmi male.

    «Mi scusi» mormorai respingendo il suo arto invadente e spandendo i fogli in grembo. La vicina non proferì parola, ma sorrise, questo sì. Anche io ricambiai il sorriso e iniziai ad analizzare le risposte di Irja; le avevo ricopiate al computer visto che, se avessi continuato a spulciare i foglietti dell’agendina pieni di quelle zampe di gallina, ben presto non mi ci sarei più raccapezzata. Da queste semplici informazioni che riguardavano il quotidiano si capiva qualcosa dell’intervistata; non che la si potesse definire basandosi sull’uso di Wettex o Vileda per pulire il pavimento dalla salsa di mirtilli o dalla pipì di gatto, ma comunque sembravano già sufficientemente valide, quelle schede; sulla prima pagina c’erano l’indirizzo e il numero di telefono del cliente, li avevo pescati in rete, anche quell’inutile rete di comunicazione serve a qualcosa. Non che io sia ostinatamente contraria, ma lo considero il luogo più solitario al mondo, quell’internetto, come dice mio figlio. L’umanità è stata capace di infilare un’immensa solitudine in quello spazio così ristretto.

    A questo pensavo mentre sedevo nell’autobus, e anche a chi mai stessi spiegando tutte queste cose, queste prolusioni che tenevo in mente mia. Fuori passava l’autunno fischiando con lucenti striature, dentro l’autobus si starnutiva, si sbadigliava, si discuteva a bassa voce o si urlava al telefono. Mi allungai per quanto lo permetteva il solido giogo della vicina e appoggiai la tempia sul finestrino freddo, lasciando che la testa ronzasse in quella posizione.

    Poi, in maniera sorprendentemente rapida, arrivò Kerava. A un certo punto scesi, ritrovandomi sotto la pioggerellina che nel frattempo era iniziata a cadere e che non avevo notato dal finestrino dell’autobus, e mi chiesi cosa ci facessi lì. Rimasi immobile sulla banchina al centro di qualcosa che ricordava una piazzetta. Passavano autobus e persone immantellate e ombrellate, a passo svelto; tutte sembravano portare qualche carico, anche chi all’apparenza non portava niente. M’incamminai. La zona della stazione era piena di muri di mattoni rossi e vecchi edifici, ma il paesaggio cambiò rapidamente, e anche se Hakaniemi, per esempio, non è esattamente uno dei luoghi più accoglienti al mondo, questa parte di Kerava era a dir poco, be’, sgradevole. In silenzio sotto la pioggia, il cemento sbiadito, le superfici vetrate dei negozi e l’onnipresente piattezza generale mettevano in qualche modo tristezza. Dovetti pensare a Irja Jokipaltio. Chissà se qui si trovava bene.

    Mi trascinai via dal centro. All’inizio le case si abbassarono, ma poi ricominciarono a crescere. Era anche piovuto di più. Per strada era un ondeggiare d’acqua, i fischi degli pneumatici coprivano il brontolio dei motori. Incrociai tute impermeabili, bastoni da passeggio, cani, motorini. Soltanto grazie al cappellino giallo neon di un vecchietto decrepito che faceva jogging riuscii a notare la nube nera che aveva oscurato il paesaggio. Il suo copricapo illuminava tutto ciò che si trovava in un raggio di dieci metri.

    Ben presto raggiunsi il bosco accanto alla casa. Le foglie gialle e arancioni erano come collegate all’energia elettrica o a fibre luminose, ottiche, o come si chiamano. Mi fermai accanto a un pino alto, dritto e attraversai con lo sguardo il cortile fino al caseggiato grigio, un

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