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Il mortale oltraggio
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Il mortale oltraggio

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Un'affascinante storia d’amore e di odio in una cittadina perbenista, ma mai per bene, durante il Fascismo.

Perché Enza, sposa amorevole, si rifiuta al marito reduce dalla prigionia anglo-americana?

Cosa conduce Giorgio ad odiarsi fino all’estremo atto?

Quando Michele si rende conto del tormento vissuto da Enza?

Un bell’affresco di un’epoca buia, di un Regime corrotto e corrompente, di una provincia povera in tutte le accezioni del termine.

Un Romanzo da leggere d’un fiato.
LanguageItaliano
Release dateAug 21, 2015
ISBN9786050402919
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    Il mortale oltraggio - Cataldo Zaffora

    (1972)

    I

    Sistemò i fiori nel vaso, accese un lumino, si segnò e, allontanatosi di un passo, cominciò a recitare mentalmente le preghiere dei defunti. Tutti gli anni, da vent’anni ormai, nel giorno anniversario della morte di Enza, sua moglie, Michele Malaspina compiva gli stessi gesti, recitava le stesse preghiere, ripensava le stesse cose.

    Più che un desiderio da appagare, quella visita era diventata per lui un dovere da compiere ad ogni costo.

    S’allontanò di un altro passo e, segnatosi nuovamente, con l’ombrello appeso al braccio, il cappello in una mano e l’altra affondata nella tasca del cappotto, lentamente cominciò a risalire per uscire dal luogo sacro. La pioggia recente aveva reso lucide le fotografie sulle lapidi, dando a quei volti immobili una qualche parvenza di vitalità che provocò a Michele un piccolo brivido alla schiena, una larvata sensazione di paura.

    Scacciò quel tremito stringendosi nelle spalle e si domandò quanti, di tanti sepolti sotto i ruderi del castello arabo-normanno, ne avesse conosciuti nei settantadue anni della sua vita. Mancavano pochi giorni al suo compleanno, il venti di marzo, e, sebbene non si sentisse ancora vecchio, avvertiva dentro di sé qualcosa che sfioriva.

    Alto, magro, col tempo si era appesantito pur conservando una figura slanciata che lo faceva sembrare un bel po’ più giovane dei suoi anni.

    Non era nato a Caltanissetta, ma, essendosi trasferito in città quando non aveva che tre anni in seguito allo spostamento di suo padre, funzionario di polizia, si considerava nisseno a tutti gli effetti.

    Amava la sua città: gli piacevano le strade, la irregolare struttura urbanistica, i palazzi del centro, la gente. Amava, e potrebbe sembrare macabro dirlo, soprattutto il cimitero. Abbarbicato com’è ai piedi di quel che resta del castello di Pietrarossa, ogni volta che vi andava provava una piacevole sensazione di vertigine guardando i ruderi da sotto in su. Sempre, in quelle occasioni, non mancava di dirsi che era fortunato per il fatto che un giorno avrebbe riposato sotto quelle pietre.

    Appoggiandosi pesantemente all’ombrello come se fosse un bastone ed evitando accuratamente le pietre dell’asfalto smosso delle strade del luogo sacro, raggiunse ansando l’uscita.

    Sulla sua sinistra, come faceva sempre, ammirò l’imponente costruzione che, in un tempo ormai remotissimo, era stata la cattedrale della città e più su, alzando gli occhi, l’ultimo brandello di muro di quello che era stato il Castello delle Donne, per breve tempo sede del Parlamento Siciliano e che, secondo alcuni storici, avrebbe dato il nome alla città.

    Come quando era ragazzo ed accompagnava la madre, il due novembre, per l’annuale visita che lei faceva al cimitero, pur non avendovi parenti sepolti, per accudire un paio di tombe abbandonate, nella segreta speranza che qualcuno facesse altrettanto con le tombe dei suoi cari lassù in quel paese delle Madonie che non le era più riuscito di rivedere, immaginò di essere un antico abitante di quei luoghi misteriosi: si vide in una armatura medioevale, cavalcando un meraviglioso cavallo bianco, scendere per la strada che conduceva al castello e sentì distintamente le trombe che annunciavano il suo arrivo ai castellani.

    Sorridendo a se stesso per la sua ingenuità si calcò il cappello in testa e quasi inconsciamente si fermò: il custode lo stava salutando cordialmente. Scambiò con lui i soliti convenevoli, contento che ciò gli desse la possibilità di riprendere fiato e continuare ancora per qualche minuto a respirare quell’aria pacifica e silente.

    Il rumore di un’automobile lo fece trasalire, si girò e, riconoscendola come quella del figlio, salutò con una stretta di mano il custode e gli andò incontro. Aspettò che Andrea scendesse dall’auto per salutarlo con un abbraccio e dirgli che, mentre egli sarebbe andato a salutare gli estinti, lui avrebbe cominciato lemme lemme a risalire in centro e aggiunse che poteva raggiungerlo dopo con la macchina. Il figlio, come sempre di poche parole, gli sorrise facendogli cenno affermativo con il capo.

    Incamminandosi per la salita s’accorse che la valle alla sua sinistra cominciava a risvegliarsi dal torpore invernale ed aveva un colore quasi primaverile. Il suo sguardo si posò soddisfatto su un unico albero di mandorlo: bianco, piccolo in lontananza, gli sembrò un residuo ciuffo di neve. Si rallegrò che quegli alberi fiorissero così presto e ringraziò Dio per questo. Erano ancora spogli, invece, gli alberi che costeggiavano la strada e gli parvero dei mendicanti che tendessero le mani per un tozzo di pane. Si convinse che era giusto, alla fine, che in quel giorno solo un albero, il mandorlo, fosse fiorito per la sua Enza, alla quale tanto piaceva.

    Inconsciamente, come se non volesse farsi raggiungere dal figlio, accelerò il passo e sbucò, esausto, sullo spiazzo antistante la chiesa della Badia. Un impulso irresistibile gli fece scendere le scale e lo fece entrare in chiesa. Si fece il segno della croce, si sedette e prese mentalmente a recitare vecchie preghiere. Non s’avvide d’essere scivolato nei ricordi. Chiuse gli occhi e gli apparve, come se stesse di nuovo vivendola, la cerimonia del suo matrimonio. Quant’era felice! Com’era bella Enza! Splendida nell’abito bianco di merletto!

    La mano di Andrea gli si posò sulla spalla e l’onda dei ricordi comparve.

    – Ero sicuro di trovarti qui! – disse Andrea sottovoce, sedendogli vicino.

    – Sai, tua madre abitava da queste parti da giovane e ci siamo sposati qui, – rispose lui con la voce rauca per l’emozione.

    – Lo so, me lo hai già detto tante di quelle volte. – gli bisbigliò il figlio quasi con un tono di rimprovero nella voce.

    – Ma davvero? – diss’egli sornione. – Non me lo ricordavo più. Si vede proprio che sto invecchiando. Accompagnami a casa, adesso. – S’alzò, avviandosi verso l’uscita.

    Quando, pochi minuti dopo, passarono davanti al caffè Romano, Calogero Luna disse a Stefano Settesanti:

    – Michele è andato al cimitero stamattina a... – s’interruppe pensando che Stefano nulla sapeva di Michele, e quel giorno non aveva voglia di raccontare, – … oggi non lo vedremo – completò.

    Leccò i lembi della grossa busta per richiuderla, sospirò e si diresse verso l’ingresso per infilarsi cappotto e cappello ed uscire. Diede una sola mandata perché Fernanda, la sua governante, sarebbe tornata dalla spesa di lì a poco.

    Giorgio percorse eccitatissimo Corso Umberto in direzione di Piazza Garibaldi. Reggeva la busta come un trofeo e quasi non s’accorgeva di quanti, amici o conoscenti, lo stessero salutando. Entrò nel grande portone dello studio del notaio, il Dottor Joppoli. Salì leggero le due rampe di scale ed aprì con violenza la porta a vetri. Conosceva bene la strada e, salutando con un cenno della mano la grassa segretaria del professionista, s’infilò sorridendo nella grande stanza del Notaio. Arturo Joppoli s’al-zò e gli andò incontro per stringergli la mano, poi gli indicò una sedia di fronte alla scrivania invitandolo a sedersi.

    Sbrigarono le formalità necessarie in poco tempo: il notaio aveva le carte già pronte e occorse solo leggerle e firmarle. Dopo che i due impiegati dello studio che avevano fatto da testimoni furono usciti, Giorgio si tolse di grembo la grossa busta e la porse al notaio che la soppesò un po’ prima di chiedergli cosa dovesse farne.

    – La dia a mio compare Michele Malaspina dopo aver letto il testamento, senza che nessuno ne sappia niente, – disse secco. Poi gli liquidò con un assegno le competenze, lo ringraziò ed uscì dalla stanza in uno stato di grazia, felice per quanto aveva fatto.

    Lasciò lo studio del notaio, non senza, prima, aver dato una buona mancia ai due impiegati e, a passo misurato, si diresse al caffè: i soliti amici, i soliti discorsi, il solito aperitivo. La sua vita, negli ultimi cinque anni, dopo aver venduta l’impresa di costruzioni, si svolgeva placida e senza scosse, regolata dalle visite al caffè ed al circolo dei nobili, dove non era difficile trovar qualcuno con cui discorrere per ammazzar il tempo.

    Ed anche lui, ogni anno, il giorno dopo l’anniversario della morte di Enza andava a deporre un fiore sulla sua tomba. Oggi lo avrebbe fatto nel pomeriggio.

    Quando fu mezzogiorno e mezzo salutò gli amici dirigendosi verso la sua grande casa in viale Trieste, dove pranzò di gusto e si complimentò con Fernanda per la sua bravura in cucina. Alle tre e mezzo salì in automobile per recarsi al cimitero. Sostò cinque minuti in preghiera di fronte alla tomba di Enza e le confidò quanto aveva intenzione di fare, quella sera stessa. Aspettò, come sempre quando andava a trovarla, che Enza gli desse un cenno, un assenso qualunque, ma nulla... lei distante ed altera come negli ultimi giorni della sua vita continuò ad ignorarlo. Ormai, si disse dovrei esserci abituato, ma mi dà sempre fastidio che lei non mi risponda.

    S’erano fatte quasi le cinque quando rientrò a casa. Fu felice che Fernanda non ci fosse: ciò gli facilitava quanto aveva deciso di fare. Si cambiò la camicia e la cravatta prima di prendere dal cassetto della scrivania la Beretta 7,65. Controllò che ci fosse il caricatore, fece scattare l’otturatore, si sedette, avvicinò l’arma alla tempia e sparò. Si accasciò esanime sulla scrivania mentre un piccolo fiotto di sangue misto a parti di cervello usciva dal foro d’entrata del proiettile.

    Fernanda Dicarlo aveva dedicato molti anni della sua vita a Giorgio Mare, servendolo e curandolo con devozione. Si sentiva, ora che entrambi stavano diventando vecchi, quasi padrona di quella casa che l’aveva accolta, fresca vedova con un gran bisogno di lavorare, per accudire un giovane vedovo con molti impegni e senza figli. Quando accettò quel posto di governante sapeva che la gente avrebbe certamente malignato su di lei, non certo bella né raffinata, ma prospera e sana e, tutto sommato, molto piacente. I modi gentili e distaccati di Giorgio, la sua innata signorilità, la sua generosità la condussero ben presto ad innamorarsi di lui. Era un amore strano, misto ad un senso di timore reverenziale e che mai scese nel desiderio fisico. Per lei Giorgio era come un dio intoccabile e perfetto da adorare per pura edificazione dello spirito. Fernanda attrasse subito gli sguardi e la lascivia del nerboruto lattaio che riforniva la casa e che ben presto riuscì a sedurla. I sensi di lei ne furono soddisfatti, lo spirito un po’ meno, ma riuscì a farsi una ragione del preteso disonore di una situazione come quella e continuò la relazione fino al giorno in cui l’uomo non fu ammazzato per motivi di pascolo. Lei non lo pianse nemmeno. Ma non guardò più nessun altro uomo in quel senso: i due che aveva avuti, il marito ed il lattaio, avevano pienamente soddisfatto la sua femminilità. Aveva solo il cruccio di essere stata sterile.

    Quel pomeriggio, dopo aver gironzolato per diverso tempo per i negozi, andò a trovare una sua cugina e tra una chiacchiera e l’altra non s’accorse che s’era fatto tardi. Non che avesse un sia pur minimo timore d’un rimprovero da parte di Giorgio per il ritardo, eppure si sentiva agitata e confusa mentre, quasi correndo, si dirigeva verso casa. Quando vide le finestre dell’appartamento ancora buie nonostante fossero le otto e un quarto capì che qualcosa fuor di norma era avvenuto. Attese l’ascensore con crescente agitazione. Chiusa dentro quel benedetto trabiccolo che sempre l’impauriva, avvertì di stare scivolando nel panico. Finalmente l’ascensore si fermò e lei uscì già con la chiave in mano. Aprì la porta ed accese la luce. Il primo rapido sguardo non le rivelò nulla di anormale, se non che la porta dello studio era aperta. Vi si diresse e non fece in tempo ad entrare che s’accorse di un qualcosa poggiato alla scrivania. In un primo momento stentò a capire, poi soffocò un urlo portandosi le mani alla bocca ed un violento conato di vomito le attanagliò lo stomaco. Chiuse gli occhi e si sentì mancare. Non resistette, cadde riversa sul pavimento e svenne.

    Il fresco del marmo le fu salutare e, dopo pochi minuti, intorpidita come se avesse dormito per delle ore, riaprì gli occhi. Si stava domandando il perché fosse caduta a quel modo quando si ricordò di quanto aveva intravisto. Con un fremito di paura s’alzò ed accese la luce. Lo spettacolo l’agghiacciò, ma trovò la forza di comporre il 113 ed appena sentì la voce del centralinista come un automa disse la frase che s’era mentalmente preparata:

    – L’ingegnere Giorgio Mare s’è ammazzato. Venite subito. –Proseguì dando l’indirizzo.

    Cinque minuti dopo arrivarono un brigadiere ed una guardia e subito, resisi conto di quanto era avvenuto, avvertirono in Questura.

    Fernanda fu interrogata dal sottufficiale, poi dal vicecommissario, poi dal magistrato arrivato per il sopralluogo. Era così addolorata e spaventata di tutto quel trambusto che solo verso le dieci si ricordò di avvertire i parenti e gli amici di Giorgio.

    Giovanna Malaspina, ultimogenita di Michele, posò la cornetta sulla forcella e, come intontita, rimase per qualche istante immobile. Un violento rumore, forse il cozzo di due veicoli, la scosse. Si rese conto che il padre la stava chiamando per sapere chi fosse al telefono e, quasi che egli potesse sentirla, mormorò:

    – Era Fernanda di zio Giorgio. –

    Michele apparve nel riquadro della porta e chiese con insistenza chi avesse telefonato. Giovanna disse:

    – S’è ammazzato… – e Michele d’improvviso divenne pallido. La sua mente corse ad ognuno dei suoi figli. Nessuno di loro aveva dei problemi tali da condurli ad un simile gesto.

    – Chi s’è ammazzato? – disse poi, con la voce incrinata per l’agitazione.

    – Zio Giorgio – fu la risposta secca e sottovoce di Giovanna.

    Michele sulle prime non provò nulla, poi d’un tratto realizzò che il suo amico d’infanzia, il suo più caro amico, quel fratello che non aveva mai avuto non c’era più di sua propria mano. Avvertì alla gola un dolore sordo e inusitato, molto simile ad una ferrea mano che stringe per soffocare. Cominciò a tossire convulsamente per liberarsi di quel dolore. Non gli fu possibile. Cadde poi, esausto, sulla grande poltrona vicino alla finestra, chiuse gli occhi e si sorprese a mormorare un pater noster. Giovanna gli si avvicinò con un bicchier d’acqua, che egli prese e bevve d’un fiato.

    – Bisogna andarci, – disse la ragazza. E Michele nonostante le gambe pesanti ed il persistente dolore alla gola si alzò e si lasciò infilare giacca e cappotto. Poco dopo, a fatica, saliva le scale del palazzo dov’era l’appartamento di Giorgio.

    Il cadavere, per ordine del magistrato, era stato rimosso ed in casa, oltre a Fernanda, erano rimasti due agenti della scientifica per gli ultimi rilievi. Il suicidio era ormai acclarato e dopo l’autopsia, l’indomani, il cadavere sarebbe stato restituito ai parenti. Michele girò intorno lo sguardo alla ricerca di Fernanda che scoprì appollaiata sullo sgabello del tavolo da disegno di Giorgio, mentre, gli occhi rossi e gonfi, cincischiava un fazzoletto, mormorando qualcosa tra sé e sé, affettuosamente consolata dalla cugina di Giorgio, proprio quella che più di tutti aveva contribuito a spander veleno sul suo conto ed aveva, per molti anni, tolto il saluto a Giorgio a causa di quella convivenza, ai suoi occhi scandalosa. Tutto stava avvenendo come in tutti i funerali da queste parti, pianti, abbracci, baci, condoglianze reciproche, ma una domanda inespressa eppure assillante aleggiava su tutti i presenti, Giovanna, Fernanda, Michele, Teresa, la cugina di Giorgio, ed altri quattro parenti, una domanda che nessuno in quei concitati momenti osava porre nemmeno a se stesso:

    – Perché? –

    Si guardò allo specchio soddisfatta del tailleur grigio fumo che indossava e sul quale avrebbe infilato un giaccone più chiaro, per partecipare al funerale di Giorgio Mare, tra non più di un’ora. Si sedette alla pettiniera per truccarsi, ma poi ci rinunciò dicendosi che, alla fine, era un funerale non una festa. Nel mentre continuava a fissarsi allo specchio, i suoi pensieri vagavano alla ricerca di ricordi di zio Giorgio. Ella l’aveva sempre chiamato così, come le avevano insegnato i suoi genitori, ma sapeva che Giorgio era solo un amico del padre. Non che le riuscisse molto simpatico, specialmente da quando s’era accorta che spesso sorrideva sotto i baffi guardandola. Era successo all’epoca della sua pubertà ed istintivamente aveva pensato che il caro zio Giorgio fosse uno sporcaccione cui piacevano le ragazzine. Mai, però, aveva avuto la minima prova del suo maligno sospetto giovanile e ciò nonostante una certa indifferenza frammista forse ad astio si era insinuata in lei, anche se l’incolpevole Giorgio continuava a riempirla di regali ad ogni suo compleanno ed a comportarsi con estrema gentilezza e civiltà.

    Il telefono squillò un paio di volte ed ella s’affrettò a rispondere convinta di sentire la voce di Calogero, l’uomo che sperava di sposare. Ma fu delusa. Era, invece, la voce quasi roca della segretaria del notaio Joppoli che le chiedeva se conoscesse parenti diretti del povero ingegnere; le elencò quelli che ricordava e l’invitò a telefonare ad uno di loro per conoscere gli altri, quindi riattaccò con una sensazione di delusione dentro perché mentre parlava con quella donna avrebbe potuto chiamare Calogero e trovare occupato. Non fece in tempo a ritornare nella sua stanza che il telefono squillò di nuovo. Quasi saltellando, sicura che fosse Calogero, corse a rispondere e, per parlare con più comodità, si accovacciò sulla poltrona vicino alla finestra ed ascoltò come incantata quello che il suo uomo le diceva. Calogero parlava e lei rispondeva a monosillabi, ma il suo volto era raggiante. Egli tacque e Giovanna, con uno groppo in gola per la gioia, disse:

    – Sono felice, amore mio. Ora potrò dire tutto a papà. Ti penserò mentre non ci sei. Telefonami tutte le sere. Ciao, ti voglio bene. – L’altro riattaccò. Lei guardò la cornetta per un bel pezzo prima di agganciare come a non volersi staccare da quegli istanti deliziosi. Ma poi il triste pensiero del funerale ebbe il sopravvento e lei, felice come era stata poche volte in vita sua, dovette atteggiare il volto a dolore ed uscire per recarsi in chiesa.

    II

    La chiesa del Collegio era affollata. Michele si compiaceva sempre di assistervi alla messa perché ne ammirava molto i fregi barocchi. Quel giorno però non aveva molta voglia di girare intorno lo sguardo per ammirare i pregevoli stucchi ed i finissimi intarsi; era sfinito da due giorni di immobilità, di dolore, di rimpianto e di un assillante arrovellarsi sul perché di un simile gesto, che, per lui attaccato alla vita, era assolutamente incomprensibile, anzi inconcepibile. E, più le ore passavano, più si rendeva conto che forse mai avrebbe saputo darsi una spiegazione plausibile e farsene una ragione, nonostante avesse sempre considerato Giorgio come parte di se stesso, molto più che un amico, un fratello; quell’ultimo atto l’allontanava da lui anni luce.

    La campanella annunciò l'ingresso del celebrante, ed egli si alzò. Come in uno stato di trance seguì le fasi del rito, ascoltò l’omelia che l’anziano sacerdote tenne incentrandola sulla sacralità delle vita senza percepirne il tono di rimprovero, e stette immobile e assorto sino a quando non si verificò un qualcosa che scosse il suo subconscio: il prete era uscito senza dare l'assoluzione al feretro! Si sentì come se tutti i peccati del suo amico fossero ricaduti sulla sua anima e chiese a Dio il perché di una simile esclusione ad un galantuomo come Giorgio.

    Davanti a lui, i cugini di Giorgio in stretto lutto aspettavano di ricevere le condoglianze dagli intervenuti. Poco distante da loro, in un angolo, appoggiata alla colonna, con gli occhi lucidi e una nera veletta calata sul volto, Fernanda. Il volto di lei, così ricoperto, apparve a Michele addirittura bello. Ella piangeva silenziosamente ed egli si domandò se veramente, oltre a lui, non fosse l'unica in chiesa ad essere veramente addolorata per la morte di Giorgio. No, non si sbagliava. Fernanda non riusciva a togliersi dagli occhi il corpo dell’uomo, che era per lei un mito, riverso sulla scrivania, esanime.

    Aveva pulito due o tre volte la scrivania, ma era convinta che un certo alone fosse rimasto e, per lei che credeva negli spiriti, ciò significava che Giorgio, suicida, non riposava in pace. Pregava intensamente, con tutta l'anima e con tutto l'amore di cui il suo semplice cuore era capace, per l'anima di quell'uomo che lei aveva sempre considerato il migliore al mondo. Michele la prese sottobraccio per accompagnarla alla macchina, che, guidata da Vittorio, primogenito di Michele, con a bordo anche Giovanna, si pose dietro al carro funebre per formare il lunghissimo corteo di automobili che avrebbe accompagnato la salma al cimitero.

    Calogero Luna, eminenza grigia dei pettegolezzi da caffè, disse sottovoce alla moglie, eminenza grigia dei pettegolezzi da mercato:

    – Ma talìa Micheli, ora cu li buttani si la fà!¹ – ed avviò il motore scuotendo la testa, più per farci entrare il ricordo di ciò che vedeva che in segno di disapprovazione.

    Le automobili si fermarono nell’ampio spazio antistante l’ingresso del cimitero e tutti ne scesero per accompagnare la bara nella camera mortuaria. Non ci furono pianti ed isterismi, nessuno, oltre a Michele e Fernanda, versò una sola lacrima. Tutto finì ed ognuno degli intervenuti salutò uno o due altri e corse via alle automobili per riprendere la solita vita. La commedia della morte era terminata, si doveva ricominciare a recitar quella della vita.

    Solo mezz'ora dopo, ai tavoli del Caffè Romano, Gaetano Di Bella diceva a Calogero Luna:

    – Hai visto Michele come si coccolava quella troia della Fernanda? –

    – E che? Non me ne sono accorto? Lo dicevo proprio a mia moglie: che spettacolo pietoso! Lui che pare un barone a braccetto ad una contadina che si faceva fottere da tutti. –

    – Michele non ha mai avuto il senso della dignità, – sentenziò Gaetano e rivolse lo sguardo fuori, pochi secondi dopo aggiunse:

    – Minghia, chi gran sticchiunu iè 'a muglieri du dutturi...² –

    Concetto Mare si annodò la cravatta nera e si guardò allo specchio con malcelata soddisfazione per il suo fisico atletico, nonostante i quasi sessant'anni, e poi rivolto alla grassa moglie disse:

    – Appena sistemata l'eredità ti porterò da uno specialista e dovrai tornare snella come prima. –

    Un mugugno fu tutta la risposta che ebbe dalla donna. Sin da piccola le avevano detto che grassezza è mezza bellezza per cui ora non si capacitava dell'astio che il marito nutriva per le persone grasse ed in particolare per lei che grassa lo era diventata dopo la nascita dei tre figli. Ma tant'era, per la pace in famiglia si disse che avrebbe fatto di tutto per dimagrire.

    Uscirono di casa convinti entrambi che le ristrettezze stessero per finire e, con insolito passo spedito e con gli sguardi bassi come s'addice a persone in lutto, s'avviarono verso lo studio del notaio Joppoli per assistere alla lettura del testamento.

    Entrarono nello studio, dove mai avevano messo piede, impacciati e impauriti. La segretaria del notaio notandoli si fece subito loro incontro e, dopo aver loro espresso le condoglianze, li guidò verso la stanza del notaio. Furono gli ultimi e l'entrare in quella stanza già piena di persone fu per loro un vero trauma. Salutarono con uno smozzicato grugnito e, senza che nessuno li avesse invitati, sedettero sulle due uniche sedie libere.

    Il notaio, dopo aver constatato che i possibili eredi erano tutti presenti, diede lettura del verbale d'apertura del testamento segreto redatto appena quindici giorni prima dal defunto Giorgio Mare. Poi rimosse i sigilli della busta che conteneva la scheda testamentaria e lesse:

    «Io sottoscritto Giorgio Mare, sano di mente e di corpo, affido a questo scritto da me autografato in data 27 febbraio 1972 le mie ultime volontà circa la destinazione dei miei beni terreni, avuti in eredità dai miei genitori e accumulati nel corso della mia vita. Ringrazio Iddio per la fortuna che mi ha concesso di essere sempre stato circondato da amici fidati e parenti affezionati.

    Per prima cosa nomino esecutore del presente testamento il mio amico fraterno Michele Malaspina. Per la sua opera, dalla massa ereditaria saranno detratte lire venti milioni a titolo di legato.

    Lego alla cara Fernanda, che mi ha accudito sempre con affetto e rispetto, dopo la perdita della mia cara moglie, la mia casa di abitazione con tutto quanto contiene ed inoltre pongo a carico dell'erede, che sotto nominerò, il pagamento della somma di lire duecentomila mensili finché Fernanda avrà vita. Tale somma dopo il primo anno dovrà essere rivalutata secondo l'indice del caro vita.

    Ai miei cugini lego cinquanta milioni ciascuno. Tutto quanto resta, dedotti i legati, deve passare in eredità alla signorina Giovanna Malaspina, figlia del mio amico Michele e che ho tenuto a battesimo ed ho amato come fosse mia figlia.

    Ringrazio tutti quanti e chiedo preghiere e perdono.

    Giorgio Mare»

    Un lungo attimo di silenzio e di sbigottimento, dopo la lettura di tali disposizioni, sconsigliò il notaio dal continuare con la lettura dell'allegato in cui Giorgio aveva elencato, con minuzia, quali erano i suoi beni e presso quali banche l'esecutore avrebbe rinvenuto i fondi per pagare i legati in denaro.

    Nessuno si aspettava quanto aveva sentito. Tutti avevano dato per scontato il legato a Fernanda, ma il resto proprio non aveva neanche sfiorato la loro mente. Eppure nonostante la delusione evidente, i cugini non ebbero reazione alcuna. Si alzarono uno ad uno e strinsero la mano a tutti i presenti prima d'andar via. In fondo cinquanta milioni non erano bruscolini.

    Rimasero soli, il notaio e Michele. Arturo Joppoli, anche lui molto scosso dalle decisioni di Giorgio, non sapeva, nonostante fosse ormai da gran tempo avvezzo a situazioni simili, cosa dire al padre di quella che era diventata sicuramente la più ricca ragazza della città. Porse a Michele l'elenco e senza dire parola si alzò, aprì la cassaforte e ne trasse la pesante busta che aveva ricevuto da Giorgio.

    – Me l'ha data per lei il giorno che ha depositato il testamento. – Michele soppesò la busta, poi abbassò la testa e disse:

    – Siamo vissuti insieme tanti anni, come fratelli. Credevo di sapere tutto di lui, come lui sapeva di me, ma ora capisco che mai un uomo riesce a conoscere pienamente un altro uomo! –

    – Ha proprio ragione, caro geometra, – acconsentì il notaio.

    – Ora cosa dovrei fare? – chiese Michele con una nota di ansia e di smarrimento nella voce. Il notaio spiegò a Michele quali erano, ora, le sue incombenze. A nessuno dei due sfiorò la mente di avvertire Giovanna di ciò che le era capitato sino a quando il notaio non parlò d'accettazione dell'eredità. Risero di gusto a questa constatazione e Michele, dopo quindici giorni di tensione e rimpianti, sentì allentarsi la morsa che aveva attanagliato il suo petto.

    Stava rientrando da scuola, dove insegnava lingua e letteratura italiana come incaricata a tempo indeterminato, quando in lontananza Giovanna intravide il padre che usciva dallo studio del notaio. Accelerò per raggiungerlo. Lo raggiunse, gli si mise sottobraccio ripetendo lo scherzo che egli le aveva insegnato da bambina e che tanto li faceva ridere:

    – Bel giovanotto, vuole accompagnare una signorina sola? – Michele si voltò verso la figlia e, come se non avesse inteso, disse:

    – Figlia mia come faccio a dirtelo? –

    Giovanna impallidì leggermente e chiese con una nota d'ansia nella voce:

    – È successo qualcosa? –

    – T'ha lasciato tutto.... –

    – Come?! Chi mi ha lasciato tutto?! –

    – Ma zio Giorgio, naturalmente! –

    – A me?! E perché poi? –

    – Era il tuo padrino, te lo ricordi, no? –

    – E con questo? Lo sapevo che aveva qualcosa con me, sto' vecchio!!! –

    – Vecchio? Avevamo la stessa età! – sospirò Michele. La ragazza non s’era minimamente resa conto d'averlo ferito, presa com'era dalla notizia dell’eredità e dai pensieri che le giravano per la testa sul motivo della scelta del povero defunto.

    Camminarono sottobraccio presi ognuno da pensieri simili, ma non dissero altro fino a che non giunsero a casa.

    Parlarono poi per molto tempo, istintivamente a voce bassa come se volessero evitare di essere ascoltati da vicini che non avevano, visto che l'appartamento occupava tutta la superficie dello stabile costruito senza aderenze con altri fabbricati.

    Da principio Giovanna dichiarò solennemente di voler rinunciare a tutto, ma Michele, con ragionamenti pacati da uomo navigato, la convinse ad accettare l'immenso patrimonio di Giorgio e stabilirono che lo stesso pomeriggio sarebbero andati dal notaio per sbrigare le pratiche relative.

    Stabilito quanto avrebbero fatto, Michele, che si sentiva sfinito, disse alla figlia di desiderare distendersi un po’ mentre lei preparava da mangiare.

    Adagiato sul letto, rimuginando sulla giornata, si ricordò della busta che aveva riposto sulla panca dell'ingresso e di cui s’era completamente dimenticato mentre convinceva la figlia ad accettare quella immensa fortuna. Nel breve tragitto dalla sua camera all’ingresso, che percorse per pudore facendo il minor rumore possibile, l’ansia e la preoccupazione per quello che la busta avrebbe potuto contenere gli procurarono un fiatone per lui inconsueto. Mille ipotesi si affacciarono alla sua mente, ma nessuna egli ritenne plausibile. Quando l’ebbe di nuovo in mano la soppesò ancora e rendendosi conto che era molto, molto pesante, un unico pensiero si installò nella sua mente: c’è sicuramente del danaro per le prime spese. Null’altro avrebbe potuto esserci, secondo lui, considerato quanto egli sapeva del modo di pensare del defunto. Ritornò, con fare ancora più circospetto, verso la sua camera da letto. V’entrò e senza quasi rendersene conto chiuse la porta a chiave cercando di fare il minor rumore possibile, poi si sedette sul letto. Guardò ancora quella grossa busta con una sorta di diffidenza prima di decidersi ad aprirla. Ne trasse altre tre buste di varie dimensioni. Una era evidentemente una lettera e recava scritto sopra da aprire per prima; l'altra, un po’ più grande e pesante, aveva scritto sopra un grande numero 1; la terza, più grande e gonfia, aveva scritto sopra il numero 2.

    Stava per chiamare la figlia e farle vedere quello che considerava una stranezza quando sentì dentro di sé una voce che gli suggeriva di non farlo.

    Aprì la busta con la lettera e lesse, come gli capitava quand'era emozionato, borbottando le parole:

    «Caro Michele,

    non mi prendere per pazzo! Non lo sono. Non sono mai stato così lucido. Ho deciso di por fine ai miei giorni. Il nostro Monsignor Francesco si rigirerà nella tomba per quello che sto per fare, ma forse di più per quello che ho fatto, nonostante mi abbia assolto in confessione. Te ne chiedo perdono con il cuore ed il più sincero dei pentimenti. Sono sempre stato convinto che la tua amicizia sia stata più forte del male che ho fatto e ti abbia impedito la giusta vendetta.

    Ti chiedo di non aprire la busta numero 2 se già hai capito quello di cui parlo. In caso contrario aprila, leggi e maledicimi.

    Ancora una cosa. Convinci Giovanna ad accettare quello che le lascio. Tutto quello che è mio deve essere suo. È come un'espiazione del male commesso.

    Apri la busta con il numero 1 ci sono dei soldi in contanti, vi potranno servire prima di entrare in possesso dell'eredità. Non fare andare ai miei cugini quello che è mio, mi hanno sempre odiato per la mia ricchezza. Ti abbraccio di cuore e ripeto l'invocazione al tuo perdono. Addio.

    Giorgio»

    Michele chiuse gli occhi che pian piano gli si riempirono di lacrime. Sapeva, sicuro che sapeva, non in maniera diretta e positiva, ma a livello epidermico, fin da quando era tornato dalla prigionia. Non aveva volutamente indagato per paura di scoprire la verità, che temeva. Gli anni si erano succeduti agli anni ed il dubbio si era stemperato, lasciando il posto all’indifferenza, ma ora tutto gli riappariva in mente come una pellicola in più punti smozzicata. Pianse a lungo, silenziosamente, senza che il pianto lo liberasse dall'angoscia che la lettera gli aveva ingenerato. Non ebbe alcuna curiosità per le altre due buste, anzi! Con un moto di stizza rimise tutto in quella più grande e le ripose nel primo cassetto del settimanile prima di distendersi ed addormentarsi.

    Giovanna si era dedicata a cucinare in uno stato d'animo che neppure lei sarebbe riuscita a descrivere: era felice di essersi lasciata convincere ad accettare l'eredità di cui nulla sapeva se non che era ingente: palazzi in città e a Torino, centinaia di ettari di terra fertilissima, partecipazioni societarie, titoli di stato, obbligazioni, depositi bancari; era preoccupata per quello che avrebbe dovuto affrontare per gestire un tale patrimonio; era impaurita dai perché sussurrati da tutti, quando la notizia si sarebbe sparsa in città. Sicuramente le malignità si sarebbero sprecate sul suo conto e forse il suo onore ne avrebbe molto sofferto. Erano le obbiezioni che aveva posto al padre e che egli aveva confutato affermando, con quella sua aria da pontefice massimo che ariu nittu nun si scanta di trona³.

    Ogni momento avvertiva nascere in lei una grande allegria, che poi ricacciava ripetendosi le medesime cose. E quella gioia rispuntava, agitandola; si sentiva salire il sangue alla testa e subito dopo si sentiva gelare; percepiva il sangue che le circolava nelle vene con paura: e se quell'agitazione fosse sfociata in un qualche problema fisico? Dio mio no, si ripeteva. Si bagnava le mani per cercare di ritrovare un po’ del suo equilibrio, ma non serviva: l'eccitazione permaneva ed anzi cresceva ad ogni momento. Andava da un angolo all'altro della grande cucina in cerca di qualcosa che poco prima ricordava bene dove aveva riposto ed ora non trovava più. Aveva il volto acceso, quasi paonazzo, le mani tremavano ed un gran nodo alla gola, secco e ruvido come carta vetrata, la convinceva che, per un po’, le sarebbe stato difficile parlare. Si predispose ad affettare la cipolla ma, tremante ed agitata com'era, si tagliò un dito e fu la sua salvezza: la vista del suo stesso sangue l'impaurì al punto che scoppiò in un pianto dirotto e liberatore. Pianse per molto tempo, senza un pensiero in testa, solo felice che quelle lacrime la liberassero della sua agitazione.

    Michele si svegliò con la bocca impastata e un brivido alla schiena. Guardò il soffitto e lentamente ricordò quanto aveva vissuto in quella giornata: la lettura del testamento, il colloquio con Giovanna, la lettera di Giorgio. Consultò l'orologio e si accorse che erano già passate le tre. Una certa agitazione lo invase: perché Giovanna non lo aveva chiamato per il pranzo?

    Si alzò dal letto barcollando, quasi intontito, e si diresse verso la cucina con passo malfermo. Sentì il profumo del ragù di Giovanna che tanto gli piaceva e si rasserenò visibilmente. Quando entrò in cucina la trovò che stava buttando in pentola i maccheroni. Osservò in silenzio quella figlia che tanto amava e si intenerì. Tossicchiò per non spaventarla e lei si girò verso di lui sorridente e radiosa e gli disse:

    – Papà, perdonami per averti fatto aspettare tanto, ma con tutto quello che è successo oggi, capirai, mi sono fatta un bel pianto. –

    – Vorrà dire che faremo pranzo e cena insieme, per ricordare questo giorno per te così speciale! – le rispose Michele sedendosi e sorridendo, contento di vederla così tranquilla e sicura.

    Mentre Giovanna apparecchiava fecero progetti e lei, per la prima volta in presenza del padre, si lasciò sfuggire il nome di Calogero. Michele, con finta severità, sgranando gli occhi disse:

    – E cu iè chissu?⁴ – Giovanna divenne rossa, scosse la nuvola di capelli biondi che le incorniciava il viso e gli rispose:

    – Forsi addiventa to jenniru.⁵ –

    – A sì? E tu, frisca frisca, ci dici sti cosi a to patri?⁶ – Michele continuava nel gioco del padre severo, ma sapeva benissimo che se anche gli avesse portato in casa un malfattore a Giovanna non sarebbe stato capace di negare qualcosa.

    Lei, ormai che aveva introdotto quell'argomento, divenne spigliata nell'informarlo di come e quando l'avesse conosciuto; di come e quando egli le avesse detto di volerle bene; di come e quando avessero cominciato a far progetti per il matrimonio; di come e quanto sarebbe stato difficile affrontare le spese per loro, due insegnanti non ancora di ruolo. Michele rise alle preoccupazioni della figlia:

    – Sì, sarà proprio difficile, dopo quello che hai saputo stamattina! – le disse ironicamente.

    Ed anche lei, rendendosi conto che ormai altre sarebbero state le difficoltà ma non certo quelle economiche, scoppiò nel suo riso argentino e coinvolgente.

    C O M M E D I A

    (1929)

    III

    Riempivano il corso, dopo la messa delle undici al Collegio, conversando in crocchi, che si spostavano quasi involontariamente sospinti dalla marea di persone, nel primo tiepido sole marzolino: era la borghesia agricola e commerciale della città. Era stata da poco annunciata la firma dei Patti Lateranensi che ponevano fine alla Questione Romana, riconoscevano al Papa la sovranità sulla Città del Vaticano, introducevano il matrimonio concordatario e creavano la congrua per i sacerdoti. Inoltre il 24 marzo si sarebbe tenuto il plebiscito per l’elezione della Camera.

    Il brusio riempiva il corso come quello d'uno sciame d'api riempie un'arnia. Parlavano dei recenti fatti e tutti riconoscevano che quelli erano colpi da maestro per attirare il popolo verso il regime.

    Tutti, nessuno escluso, convenivano, con varie sfumature, su questa constatazione e proprio i più refrattari al fascismo ammettevano che ben difficilmente ora il regime si sarebbe potuto battere senza spargimenti di sangue. Nel gruppo di amici di Michele Malaspina solo Vincenzo Di Buono aveva le idee più che chiare in proposito: il padre, socialista da sempre, divenuto comunista dopo la scissione di questo partito, considerava Benito Mussolini un traditore della classe operaia ed un arrivista senza scrupoli e queste sue idee aveva cercato d'inculcare nel figlio.

    Vincenzo, dotato di intelligenza pronta e vivace, non aveva preso tutto quello che gli raccontava il padre per oro colato, ma, osservando e capendo, dopo il delitto Matteotti, non aveva avuto più dubbi e si era schierato fermamente e coscientemente fra gli antifascisti.

    Quella mattina di domenica stavano appunto discutendo dei Patti quando lo sgomitare di Michele per sopravanzarli li fece zittire per un istante. Di fronte a loro, a circa una ventina di metri, camminavano un uomo alto oltre la media ed altrettanto grosso, con al braccio una piacente signora, molto elegante, e, un passo dietro la coppia, una giovane di non più di vent'anni. Era la famiglia del commendatore Nicodemo Vegliardi, agiato commerciante di granaglie, fascista marcia su Roma, segretario comunale del Fascio di San Cataldo.

    L'avanzare di Michele oltre il gruppo dei suoi amici ottenne l'effetto sperato: si venne a trovare proprio sulla traiettoria della famiglia Vegliardi e s'atteggiò a sorriso preparandosi alla scappellata e forse alla sosta per i convenevoli. Nicodemo Vegliardi avrebbe voluto non fermarsi, ma la moglie, abilmente premendo sul braccio dell'uomo, riuscì a fargli intendere che era meglio ricevere il saluto di Michele.

    – Buon giorno, signori, – disse Michele avvicinandosi.

    – Buon giorno a lei, caro camerata, – gli rispose per tutti il commendatore Vegliardi, e Michele strinse la mano nell'ordine alla signora Vegliardi, al commendatore ed alla figlia.

    Era questa una splendida ragazza a cui la moda del tempo, svasata e goffa, non rendeva di sicuro giustizia. Non molto alta, con la carnagione olivastra, i capelli neri, con riflessi bruno dorati, e due grandi, grandissimi occhi di un verde abbacinante, si era insediata nel cuore di Michele la sera del recente Gran Ballo di Carnevale al Teatro Margherita. Avevano ballato insieme per due volte, si erano scambiati sì e no venti parole, eppure Michele se ne diceva innamorato perdutamente e già aveva pregato la madre di chiederla in sposa.

    Era proprio per questo che l'accorto commendatore non voleva fermarsi, ma alla moglie, che aveva avuto dalla figlia un assenso di massima, parve la giusta occasione per farli incontrare per cui ora, fatti i debiti saluti, i due si trovavano a guardarsi l'un l'altro imbarazzati e indecisi su cosa dire. L'ingenuità e la freschezza della giovane Enza risolsero il problema.

    – Ricordo sempre la piacevole serata trascorsa al Margherita, ci siamo veramente molto divertiti, – disse rivolta a Michele.

    – La ricordo anch'io con piacere, – rispose questi guardando negli occhi la giovane così insistentemente da farle abbassare lo sguardo e da farla arrossire.

    – Finita la quaresima, chiederò a mio marito di dare una festa e mi auguro che vorrà onorarci, caro geometra, – intervenne la signora Vegliardi, ormai uscita dall'attimo di smarrimento seguito ai saluti.

    Il corpulento commendatore, abituato a pensare d'esser lui a guidare le trattative d'affari, le discussioni politiche e la vita domestica, o perlomeno di esserne protagonista, si sentì scavalcato nella sua sacrosanta autorità e gratificò moglie, figlia e pretendente di un'occhiata che era ad un tempo di rimprovero per le donne e di sfida al giovane, come a dire: Vediamo se sarai capace di convincermi a darti mia figlia.

    Ma ad alta voce disse:

    – Vedremo, vedremo... Beh, ho avuto piacere di rivederla, – e porse la mano a Michele, indicando con quel gesto che il colloquio era finito. Michele rifece i saluti e, ancora con il cappello in mano, raggiunse il gruppo di amici che aveva proseguito ed aveva già svoltato per corso Vittorio Emanuele.

    Fu accolto con pacche sulle spalle e strette di mano, perché era ormai chiaro a tutti che era seriamente innamorato e si apprestava a cambiare vita con il matrimonio. Nonostante si schermisse, rosso e nervoso, le insistenze degli amici lo costrinsero ad ammettere che aveva chiesto Enza Vegliardi in moglie. Avrebbe compiuto presto ventinove anni, era impiegato al Regio Catasto, aveva una piccola rendita derivante da alcune case che il padre aveva comprato con la dote della madre; era in una parola abbastanza agiato da consentirgli di mantenere decorosamente la famiglia. Perché dunque non sistemarsi, specie ora che aveva trovato la donna che riteneva giusta? Era questo il ragionamento che aveva fatto alla madre quando le aveva parlato della ragazza conosciuta al ballo di carnevale e le aveva chiesto di domandarla in sposa. La vecchia signora Malaspina, piccola e minuta, dolce e gentile, timida e timorosa, si era messa in agitazione. Non pensava che, morto il marito, sarebbe toccato a lei adempiere a quella incombenza e fu più volte sul punto di dire al figlio d'arrangiarsi da solo ché lei non era capace di una simile cosa, ma poi ricordò che

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