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La via dell'eterno ritorno dello stesso
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Ebook176 pages2 hours

La via dell'eterno ritorno dello stesso

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La via dell'Eterno ritorno dello stesso è il racconto del cammino che va dal mondo (le apparenze) all'Essere. Giunti nell'Essere, la lingua tace, perché esso è immutabile, immobile, eterno. Dopo c’è il ritorno, vale a dire il cammino inverso che va dall'Essere al Mondo.

L’altra metà del racconto, perciò: la vista del Mondo dopo aver raggiunto le dorate spiagge dell’Essere e aperto gli occhi nella sua luce. E qui comincia anche il nuovo linguaggio, come dice il titolo di uno dei suoi libri: Vocabolario. L’evoluzione della lingua.
LanguageItaliano
PublisherWilmo Boraso
Release dateMay 6, 2015
ISBN9786050377194
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    La via dell'eterno ritorno dello stesso - Wilmo Boraso

    La via dell’eterno ritorno dello stesso. Dalle apparenze all’essere

    Wilmo Boraso

    © 2015 – Wilmo Boraso

    Immagine in copertina di Giovanna Boraso

    Tutti i diritti riservati

    Io so che nei miei sogni e nelle mie visioni

    sto attirando altra luce dall’informe.

    Non c’è prima la luce e poi la vita

    e non c’è la vita e quindi c’è la luce,

    ma l’una e l’altra si costituiscono

    in un’uscita concordata.

    Prima parte

    1. Ogni cosa è costituita da due aspetti contrapposti, di cui uno è comunemente noto e l’altro sconosciuto ai più

    Ogni cosa, come ben si sa, ha sempre due aspetti contrapposti: la duplice faccia della moneta o della medaglia, si dice normalmente. La Terra è per metà nella luce e per metà nell’ombra. La Luna volge sempre la stessa faccia e l’altra è ignota; o meglio siamo riusciti a vederla solo da quando le navicelle spaziali l’hanno aggirata inviandoci le foto di quel celeste segreto. Le piante sono per circa metà dentro la terra e il resto nell’aperto luminoso, e chi ha occhi per vederle coglie solo la parte che appare. Gli animali sono contemporaneamente volto e nuca, davanti e dietro, emisfero sinistro del cervello ed emisfero destro, e tale è anche il corpo dell’uomo; il quale però è riuscito a superare l’ostacolo con gli specchi e da molto perciò si vede anche dall’altra parte.

    Ma se passiamo dalla dimensione fisica a quella che chiamiamo psichica, o mentale, o spirituale, allora cade l’asino, il re è nudo. Perché anche in tale dimensione l’uomo ha facce contrapposte: non è solo veglia, ma anche sonno, non solo conscio, ma anche inconscio, non solo vita ma anche morte, ma qui i conti non tornano più, perché è insuperabile il confine. Dalla parte della veglia, del conscio, della vita, si somma, si sottrae, si moltiplica, si divide, e alle volte le operazioni danno risultati strabilianti: tante cose fatte, tanti soldi accumulati, numerosi viaggi, avventure a non finire con le donne, in terre lontane, nei deserti, nei mari, a scalare montagne, a sprofondare in abissi. Ma dall’altra parte il risultato è sempre zero, o quasi. Oppure non si hanno certezze definitive a causa dei metodi adottati. Solo sogni, per lo più, quelli che accadono nel sonno; o complessi nascosti che lo psicanalista è riuscito a far emergere per un po’ dal profondo; o speranze di vita futura che l’Occidente della filosofia e della scienza non può dimostrare e su cui perciò non ha giurisdizione.

    Ma ora viene il bello, – si fa per dire. Siccome ognuno di noi è non solo la prima parte ma anche la seconda, e le due sono indissolubili, ecco perciò cosa accade a tutti, senza esclusioni, – quindi anche ai più grandi, anche ai più celebri, coloro che hanno espresso le maggiori certezze, che hanno occupato cattedre e troni: che a un certo punto per tutti tutto finisce. Perché la prima parte termina e comincia l’altra, e le poche operazioni eseguite nell’altra, come ho detto poco fa, hanno dato risultato nullo, oppure solo qualcosa di indistinto e indeterminato, solo ectoplasmi. Ecco il guaio: siamo due facce e ne conosciamo una sola; siamo una specie di monete che finiscono nel bordo, che diventa quello di un abisso; c’immaginiamo qualche volta circolari, come l’androgeno del mito, ma quando si è presso all’orizzonte arrivano le ombre e poi ci acceca il buio.

    Per questo motivo ogni cosa rimane incompiuta e si dice anche dei più illustri: è nato, ha fatto questo e quello, e poi la caduta nell’Abisso, tutto finisce con la data della morte. Però non ci sta quel limite estremo e poi il nulla, diranno i realisti, quelli che si dedicano pressoché esclusivamente alla parte nota: alle cure del corpo, dei rapporti sessuali, degli affari, del lavoro, dei divertimenti, della politica. Perché se il defunto, prima di diventare tale, ha fatto opere utili, compiuto imprese importanti per sé e gli altri, e se i suoi funerali sono a carico dello Stato e le autorità lo accompagnano e lo onorano, hanno riconoscimento e valore. Alcune di esse, come si sa, si fregiano perfino del titolo di eterne.

    Eterne nella prima metà, dico io, vale a dire nel visibile e nel determinato, dove però, come s’è visto, tutto sorge e tutto tramonta, tutto è veglia e insieme sonno, tutto è conscio sorretto dall’inconscio, dove tutto quello che è determinato giunge dall’indeterminato e in esso va a cadere. E allora, piuttosto che eterne, anche le più grandi, io le chiamerei le trattenute e mantenute di qua; continuamente portate alla ribalta da chi vive, i quali però si succedono in prima linea nella battaglia senza tregua e senza scampo della vita con la morte. Tutto perché l’altra faccia non è nota. Tutto perché, per davvero, non si hanno prove inconfutabili che ci sia stato e ci sia qualcuno tutto tondo, con le due parti non divise e contrapposte. Tutto perché non c’è da questa parte nessun esempio di coincidenza degli opposti.

    2. La mia decisione di affrontare l’altra metà di me stesso

    Dunque, ecco il dramma di questo mondo duplice, da cui poi è sorto il molteplice: essere uno e apparire due, perché è nota solo la metà. Due anche maschio e femmina, questa volta neppure contenuti in uno stesso involucro, come lo sono invece, per esempio, sonno e veglia, ma ancora più separati, uno in un corpo e l’altra in un altro, quasi a sancire l’inappellabilità della condanna, la cosa fatta senza più rimedi. Due e tanti, ecco quello che si vede e che è il mondo della comune e universale esperienza. Ecco la faccia nota delle cose e del loro insieme che si chiama mondo, universo. Il quale può anche essere aumentato ancora, oltre i tredici miliardi di anni luce dei più recenti calcoli, ed è ciò che si sta continuamente facendo, ma senza perciò saperne di più dell’altra parte. Il quale può anche subire variazioni nel numero e forma di aspetti e di facce che lo compongono, – sempre nuove particelle subatomiche vengono tratte dall’indeterminato e dal mistero, o cose nuove entrano in scena prodotte dalle manipolazioni del Dna e dall’ingegneria genetica, mentre di converso antiche facce di animali e tipi di piante scompaiono per l’inquinamento e l’invasione umana – ma non perciò viene scalfito il mistero dell’altra parte, quella che ci portiamo appresso come l’ombra del corpo e l’angoscia della morte.

    Ragion per cui ho cominciato a pensare così: se non m’aggiro non combino niente. Rimarrò sempre un enigma per metà. Sempre un problema irrisolto per quante operazioni io riesca a svolgere, anche se mi faccio aiutare dai computer più potenti. Sempre uno che è arrivato senza volerlo e senza sapere da dove, e che magari è un ritornante ma non ricorda, e poi sparisce, a volte senza nessun preavviso. Per sempre dicono i più.

    3. Come ho iniziato l’avventura

    Certamente uno non si alza la mattina, – magari dopo un incubo notturno o uno di quei sogni che avvengono prima del risveglio e che sembrano anticipare quanto accadrà nel giorno o nel vicino futuro – e dice: qua le cose non sono tanto chiare, anzi tenebrose e paurose, oppure strane e misteriose, e perciò vado a vedere di persona. E siccome si entra sempre nel sonno ogni sera quando si chiudono gli occhi e la mente si spegne, si dovrebbe allora fare in modo di tenerli aperti e rimanere di guardia, per cogliere i sogni quando si presentano e trattenerli finché non confessano chi sono o cosa sono. Ma a far così, non si riuscirebbe a compiere neppure un passo oltre il confine della veglia. E neppure oltre quelli che separano la coscienza dall’inconscio e la vita nella morte. Quest’ultima copia di opposti è poi il campo dell’estrema avventura, quella cui soprattutto mi sono dedicato quando mi sono imposto di andare a vedere. A seguire questo metodo, si riuscirebbe soltanto, come effettivamente avviene per innumerevoli altri motivi legati alla vita di ogni giorno, a prolungare artificialmente la veglia, mai a valicare la soglia fra l’una e l’altra faccia. D’altronde esperimenti di tal genere sono già stati tentati e sono tutti falliti. Il primo è stato quello di Gilgamesh, leggendario re della città di Uruk in Mesopotamia, che fu patria anche di Abramo, dove il papa Giovanni Paolo II sarebbe voluto andare in pellegrinaggio durante la sua recente visita in Israele, ma non gli fu concesso. Gilgamesh aveva un amico, Enkidu, assieme al quale aveva compiuto memorabili imprese. Ma così uniti erano troppo potenti, anzi invincibili, perciò gli dei decisero di separarli per sempre, togliendo ad Enkidu prematuramente la vita. Sconvolto dal dolore, ma anche angosciato dalla morte che per sei giorni e sette notti aveva guatato mentre vegliava l’amico finché i vermi non gli caddero dal naso¹, decise di cercarla ed affrontarla, prima che fosse lei ad aggredirlo alle spalle e all’improvviso, come aveva fatto con Enkidu. L’avventura lo condusse prima a scoprire il cammino del sole dopo il tramonto e nella notte che nessuno prima di lui conosceva, poi, seguendo la sua paura che non aveva mai posa, a tentare l’attraversamento delle acque di morte². Avrebbe superato così il confine della vita e raggiunto l’altra sponda. Ma una prova l’attendeva, che si dimostrò insuperabile: per sei giorni e sette notti senza interruzione avrebbe dovuto valicare da sveglio l’abisso veglia-sonno, che era poi quello che aveva superato quando ha seguito il sole nella notte fino all’alba. L’abisso vita-morte, era, dunque, sette volte più grande, sette volte più difficile. Gilgamesh tentò ma il sonno come una densa nebbia si stese su di lui³ fin dalla prima notte. La prova era fallita, il sogno infranto.

    L’avventura di Gilgamesh, – non riuscita già alcuni millenni fa e poi ripetuta inutilmente anche da altri che forse non conoscevano quel primo esito – non era dunque quella da imitare. Tentativi di tal genere erano tutti destinati al fallimento. Come, allora? Come superare in altro modo l’abisso più ampio e profondo di ogni altro? Tentando da un’altra dimensione, ma lo dirò più avanti da dove. In un compendio, tuttavia, perché diffusamente l’ho già fatto. Semmai informerò dove essa si trova squadernata ad uso di chi vorrà conoscere tutte le informazioni per tentare di ripeterla. Perciò a dopo, perché prima voglio fare cenni di chi mi ha preceduto nel cammino circolare della vita, fino a trovare la fine e a scoprire che essa coincide con l’inizio. E dove fine e inizio stanno assieme, dove sono la stessa cosa, s’apre la Porta di passaggio.

    4. Nel periplo della faccia sconosciuta mi hanno preceduto gli dèi della Grecia antica. L’avventura di Demetra e Persefone

    Se l’avventura non è riuscita la prima volta, anche se l’autore era un eroe dalle braccia potenti e dalle forti gambe, non perciò si è smesso di tentare. Però non più in terra, ma in cielo. Ed è comprensibile: sono minori lassù le resistenze. Ma in cielo ci sono gli dèi e non gli uomini, e, infatti, sono continuati con loro i tentativi.

    Zeus ha mandato Ades a reggere la parte tenebrosa, chiamata in questo caso Inferi. Si dirà: ma questa non è avventura né conquista, ma solo una delega o un incarico. Ma il dio dai riccioli neri non era soltanto un abitante dell’Olimpo, promosso a governare un terzo dell’esistente, – le altre due parti erano il cielo e il mare. Era anche il fratello del re di tutti gli dèi. E c’era anche di più fra di loro: si mormorava addirittura, anche se nel più gran segreto, perché le orecchie e le lingue sarebbero state colpite da una stessa punizione per la temerarietà se le notizie fossero state gridate e diffuse, che Ades fosse solo apparentemente un altro, ma per davvero invece lo stesso Zeus, la sua faccia nascosta, che neppure lui sapeva di avere. Oggi si direbbe il suo inconscio. In tale veste era raffigurato con la testa girata. Ignoto a se stesso per metà, perciò, anche il dio del cielo, e quindi una dualità, con due nomi distinti e due troni in luoghi diametralmente opposti.

    In seguito però si è cercata, se non proprio l’unità, la comunicabilità fra i due regni. Ciò è avvenuto quando Ades, stufo di trovarsi fra le anime dei morti e in quel grigiore, si recò dal fratello e chiese con voce potente di sposare Persefone. Era Persefone, chiamata anche Core – la fanciulla –, la figlia diletta di Demetra, dea delle messi, e Demetra era sorella di Zeus e perciò anche di Ades. Per cui i due erano zii della fanciulla dal volto di bocciolo. Si mormorava anzi fra gli addetti ai Misteri, sempre in gran segreto per i motivi suddetti, che Zeus fosse suo padre. Grande scompiglio in Cielo dopo quella richiesta. Un’insopportabile pretesa, gridarono tutti gli dèi, anche perché il dio dei morti non aveva avanzato una proposta, ma manifestato un volere preciso e irrevocabile accompagnato da una spaventosa minaccia: di lasciare altrimenti senza reggenza il regno oscuro e quindi allo sbaraglio le anime morte, e non c’era nessuno in Cielo disposto ad occupare il suo posto in fondo all’Abisso.

    Inutilmente gli dèi, Zeus in testa, cercarono di ammansirlo e distoglierlo da quella richiesta, ponendo sull’altro piatto della bilancia ricchissimi doni, titoli, prebende. Egli fu irremovibile, e fu giocoforza concederli Persefone all’insaputa della madre, l’unica che era stata tenuta lontana da quel divino consesso con l’inganno.

    Ottenuto il nulla osta, Ades rapì la fanciulla mentre giocava con le figlie di Oceano e scomparve con lei sotto terra per una voragine che s’era aperta appena

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