La prossima volta
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Book preview
La prossima volta - Alessandra Rizzoli
Epilogo
Prologo
1952
L’ambiguità dei ricordi è un soggetto che meriterebbe di essere studiato con cura
Nonostante io sia solito trascorrere interminabili notti insonni vagando negli abissi ovattati della mia memoria, mi è ancora inspiegabile come tali reminiscenze del mio passato, elementi nati da un’unica fonte originaria, possano far sorgere in me sensazioni talmente lontane nel tempo e così diverse fra loro, pur essendo tutti figlie mie e mie solamente.
Serbo molti ricordi di quando ero bambino. Forse più di quelli che dovrei, almeno secondo qualche studioso della psiche, e senza dubbio più di quelli che vorrei.
Ad ogni modo sì, ricordo fin troppo bene la mia infanzia, nido primario delle più spiacevoli fra le mie memorie, prigione senza scampo di giornate amare come fiele a cui ero stato condannato da un documento che portava la firma del giudice sotto alla scritta lapidaria affidato al padre
.
Ricordo mio padre, diavolo allegro delle mie giornate.
Allegro a causa del vino il cui tanfo dovevo respirare, quando si chinava su di me per darmele. Diavolo perché non ho mai capito come riuscisse a farmi bruciare la pelle a quel modo e tanto a lungo.
D’altronde era colpa mia – tutta colpa tua, moccioso di merda!
Le matite che usavo per mettere su carta gli incubi nati da quelle sevizie facevano rumore, grattando sui fogli, e mio padre era un uomo dall’udito sensibile. Credo che sapesse addirittura suonare il piano.
Questi i ricordi che ancora oggi mi riportano sulla pelle i brividi del panico e non mi lasciano dormire, come quando a nove anni ti sentivo salire le scale con passi pesanti e abbassare la maniglia della mia porta, papà, no, non mi fanno dormire come non mi lascia dormire lo stesso martellante dubbio di sempre: e se non avessi bevuto ogni sera, papà?
Sono profondamente convinto che se mio padre non fosse stato un alcolizzato violento, io ora non custodirei i ricordi raccapriccianti che sanno ancora schiaffarmi nella cella della mia infanzia.
Ma so anche che, se non avessi avuto lo stesso padre che ho odiato al punto da desiderarne la morte e pregare i demoni dell’inferno perché lo trascinassero negli inferi, non sarei mai finito in quell’accademia militare, indegna sede delle più radiose fra le mie memorie.
Ed è di questi ricordi che intendo scrivere in questo diario, anche se già so che mai sarò in grado di mettere nero su bianco ciò che il mio cuore, seppure inaridito, ancora prova quando la mia mente naviga lieta fra le emozioni di quei giorni.
Sì, racconterò la storia del nostro amore.
La racconterò perché gli indegni infelici provino invidia per ciò che abbiamo avuto, perché chi ha perduto la via ritrovi almeno la speranza, perché tutti possano condividere il nostro dolore e rendere meno pesante il fardello che sono rimasto solo a portare.
La racconterò, finalmente, perché devono sapere ciò che è stato.
Ma soprattutto, Elias, la racconterò per avere la scusa di cui ho bisogno per riportare le tue parole sulla carta e rivivere così, anche se solo sotto forma di un’illusione che svanirà non appena il mio sguardo verrà catturato da altro, la luce di cui mi hai inondato sin dal primo giorno.
Ricordi, ricordi quanto erano secche le nostre labbra, prosciugate dall’emozione di incontrarsi?
Ma ora basta, intendo seguire l’ordine dei fatti.
Per coloro che leggono e che ancora non sanno, il mio nome è Joel Allen, e questi sono i miei ricordi felici.
I
Era l’estate dei miei diciott’anni e avevo alle spalle due tentativi di suicidio sventati rispettivamente nel primo pomeriggio del sedici maggio e durante la pausa pranzo del ventinove dello stesso mese dal mio professore di lettere. L’uomo nobile che, per quanto si fosse dimostrato parecchio interessato a che continuassi a respirare – non farlo, sei giovane, hai tutta la vita davanti –, non si era mai preso il tempo di indagare le credenziali di mio padre. Tutto ciò malgrado non fosse tanto distratto da non notare i lividi, almeno quelli lungo l’attaccatura dei capelli.
Ma non l’ho mai odiato. Eravamo in New Jersey, e questo basti a spiegare.
Molto più spaventato dal mio scarso attaccamento alla vita di quanto lo fosse mai stato dal suo malsano amore per vino e tequila, alla fine di giugno mio padre mi fece montare in auto, mi accompagnò alle porte di una fra le più austere accademie militari del Maryland e mi allungò la ricevuta del pagamento della retta scolastica, effettuato a mia totale insaputa.
Era da anni che non gli rivolgevo una singola parola e anche lui aveva sempre preferito comunicarmi l’essenziale in altra maniera, ma quel giorno – quel 30 giugno 1951 – non mi trattenni.
Si parlava della mia vita. Si parlava di un’ulteriore condanna, che avrebbe protratto la mia schiavitù di almeno altri cinque anni.
- Io non ci vado - dichiarai, la gola secca, lasciando cadere il foglio nell’incavo fra il mio sedile e il contenitore vecchio modello dell’airbag.
Con la coda dell’occhio mi accorsi della contrazione muscolare con cui la sua mano strinse il volante e serrai gli occhi per sottrarmi all’attesa di qualcosa che conoscevo bene. Erano state poche le volte in cui avevo accennato a ribellarmi a lui, ma erano state tutte occasioni sbocciate con l’adolescenza. Ormai sapeva come gestirmi.
Il ceffone mi mandò a sbattere contro la portiera dell’auto e qualche passante si voltò per lanciare uno sguardo interrogativo in direzione della nostra vettura prima di riprendere il cammino.
Mio padre mi schiaffò la ricevuta in grembo.
- Devi solo essermi grato. Qui ti salveranno la vita - scandì in tono poco rassicurante. - Mi hai sentito?
- Sì - mormorai, passandomi una mano sulla guancia.
- Torno a prenderti per il Ringraziamento.
Allora annuii, mansueto come usavo essere per la maggior parte del tempo, strinsi la ricevuta fra le dita sudate e uscii dall’automobile evitando i suoi occhi troppo chiari, annebbiati da sempre e per sempre.
Mentre fissavo senza realmente vederla l’auto che sfrecciava via, ansiosa di allontanarsi da un figlio scomodo e portatore di una nomea altrettanto irritante – quello voleva suicidarsi, capisci, morire-, pensai a quante possibilità effettive c’erano che quell’accademia riuscisse ad annullare il fascino che la morte esercitava sul mio animo empio.
Non ricordo esattamente quale fu il risultato del mio calcolo, ma sono certo che mai soppesai l’eventualità che oltre quel portone si celasse la ragione per cui ero al mondo.
Eppure mi bastò attendere ventinove giorni.
Ogni mese l’accademia accoglieva nuove reclute e tutti i frequentanti la scuola e i superiori erano tenuti a presenziare a quella che qualche apparato burocratico aveva avuto l’ironia di chiamare cerimonia di benvenuto
. Come se uno qualsiasi degli uomini che ogni mese si riunivano in quel cortile sterminato fosse contento di trovarsi lì, sull’attenti per onorare il discorso ricco d’enfasi stagionata del generale, obbligati nelle uniformi verde palude e negli stivali di cuoio che parevano sciogliersi sotto il sole cocente di fine luglio.
Al mio primo giorno ero stato assegnato alla sezione