La Spirale del Falco
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La Spirale del Falco - Roberto Bologna
FONTI
PROLOGO
Gli animali usano tecniche di caccia particolari e differenti fra loro. Le orche si lanciano nel bagno asciuga per catturare i leoni marini. Altre volte invece nuotano nell’acqua a grande velocità in modo tale da creare una potente onda d’urto che, sbattendo contro i pezzi di ghiaccio, fa cadere in acqua le foche che vi stanno sopra.
La tecnica di caccia dei felini si basa più sulla sorpresa e sulla fulmineità del balzo che sulla costanza nell'inseguimento. A volte, per poter attaccare nelle condizioni più favorevoli, si servono anche di tecniche di caccia collettive. Il giaguaro spesso infila la punta della coda in acqua come esca per attirare i pesci.
Fra i rettili, i coccodrilli stanno in attesa sotto il pelo dell’acqua per sorprendere gli animali che si abbeverano.
Molti insetti si mimetizzano. Ci sono due principali tipi di mimetismo. Quello criptico, che consente al predatore di confondersi con il contesto in cui si trova, come fa ad esempio l’aracnide. Questa tecnica gli consente anche di avere una buona difesa nei confronti di eventuali predatori.
Poi c’è il metodo mulleriano, dove l’insetto predatore imita la preda, in modo da potersi avvicinare ad essa indisturbato. Usano questa particolare tecnica i ragni trappola, le vespe cacciatrici e le libellule.
Il polpo sfrutta la capacità di mutare sia il colore del suo corpo che la sua forma. Questa tecnica gli consente di poter assumere le sembianze di un pezzo di un corallo o di una parte del fondale o addirittura quelle di un serpente marino, tale da trarre in inganno sia le prede che i predatori.
Il pesce arciere cattura gli insetti che si trovano sulle foglie a pelo dell’acqua sparando acqua dalla bocca con estrema precisione e potenza.
Il diavolo del deserto, una lucertola dalla pelle spinosa, riesce a divorare una grande quantità di formiche standoci nel mezzo ed estendendo fuori dalla bocca la sua lingua adesiva. Una volta che le formiche vi finiscono sopra, la ritira ad una velocità incredibile ed il gioco è fatto. Il ragno trappola per cacciare le sue prede costruisce un nascondiglio sottoterra ricoperto da una botola e vi si apposta dentro. Appena un insetto passa sopra la botola, il ragno scatta fuori e cattura la preda.
Il falco pellegrino, uno dei predatori più temibili grazie ad una vista acutissima e ad una eccezionale abilità di volo, la cui velocità può raggiungere anche i 300 Km/h, per catturare la sua preda sfrutta una tecnica ancora più particolare. Per piombare su di essa non sceglie mai la via rettilinea, che sarebbe certamente più breve e più veloce, ma, pur scendendo in picchiata sul suo obiettivo, segue un andamento che a prima vista potrebbe sembrare circolare, ma che in realtà è a spirale. Usa questa tecnica perché i suoi occhi guardano lateralmente e per vedere la preda dovrebbe ruotare la testa peggiorando l’assetto aerodinamico. Seguendo invece un percorso a spirale il falco riesce a tenere la testa dritta in modo da non perdere di vista il suo obiettivo ed al tempo stesso massimizzare la velocità.
Il falco tutto questo lo sa.
Sa perfettamente che quello della spirale è un metodo infallibile che lo condurrà alla cattura della sua preda.
Il Commissario Leonardo Giannetti, invece, ancora non lo sa e non sospetta neppure minimamente che, seguendo vorticosamente quella spirale verso il centro del mistero in cui suo malgrado si ritrova ad indagare, è destinato ben presto a mutare la sua condizione da cacciatore a preda.
Capitolo 1
DA UN DIARIO - UN RICORDO DI MOLTI ANNI PRIMA
"E se guarderai a lungo nell'abisso
anche l'abisso vorrà guardare in te".
Edgar Allan Poe (1809-1849)
Era il 2 maggio del 1945, abitavamo nel piccolo centro abitato di Pisino, situato quasi al centro dell’Istria, allora ancora terra d’Italia. Erano le prime ore del pomeriggio, faceva molto caldo e avevamo smesso di giocare. Ci presero e ci portarono tutti a Cernovizza, davanti ad una gigantesca bocca, che in paese era conosciuta come l’inghiottitoio.
"Sto precipitando. Lo sto ancora facendo. Da sempre ormai. Lo faccio da una vita. Dall’infinito verso l’infinito attraverso una infinita discesa. E’ una spirale. Una spirale di morte. Ho solo sette anni e sto cadendo. Ma non sto cadendo come conseguenza di un gioco. Non sto correndo sui prati. Non sto giocando. Loro non vogliono. Non vogliono più che giochi in queste terre. Non sono le mie ginocchia che si stanno sbucciando. E’ tutta la pelle del mio corpo che si strappa e scivola via mentre precipito. Tutto il male è rimasto sopra. E’ pesante il mio cuore mentre cade giù. Eppure si tratta di un cuore minuscolo. Ma la forza di gravità quando si precipita non ha misericordia per nessuno e per niente. Nessuna pietà per esso e per chi lo contiene. Sono solo un cosa piccola. Una cosa piccola che sta precipitando addosso ad altri. Forse altri cento. Tutti ammucchiati l’uno sull’altro. Ci sono anche molti bambini. Dall’alto riesco a scorgerne alcuni che riconosco. C’è Paolo, che ha la mia stessa età. C’è Anna, che mi era antipatica. C’è Stefano, che è più piccolo di me. Diventa pesante il mio cuore, ma resto a mezz’aria. Unico cuore fra i tanti. Sto precipitando su una montagna in costante formazione. Una montagna umana che cresce di continuo. Ma una montagna si scala o da essa si precipita. Io invece sto per diventarne la vetta. E dopo di me molti altri ancora. Un precipizio infinito. I pensieri si fanno adulti in una mente infantile. Si cresce in fretta durante la caduta. Se il male sta sopra, come può essere il bene quella montagna di carne umana pronta a marcire? Un pensiero antico mi affligge. Non ho dignità sufficiente per vivere oltre la montagna. Un’altra certezza mi annienta. La storia non avrà memoria di me. La storia si dimenticherà di me. La storia, si sa, non può scriverla chi muore. La scrive chi vive, chi resta. Solo chi resta può ancora tenere una matita fra le dita. Chi muore no. Scrivere, ecco quel che faranno dopo. Io precipito e loro scriveranno. Scriveranno la loro storia ed altri la leggeranno, la studieranno, la commenteranno, la impareranno a memoria, la faranno propria e la riterranno tale. Mi domando: chi correggerà mai la loro storia? Chi avrà il coraggio di uscire dall’oblio? Forse io? Ma ancora precipito … E continuo a farlo. Anche oggi, che sono ancora qui. La cima di una montagna non franata a valle, da sempre ancorata alla vita. Ma quale vita? Avevo solo sette anni. Sette anni sono pochi per ricordare il volto della propria madre o del proprio padre, ma sono più che sufficienti per non dimenticare quello di colui che ti ha spinto giù.
Avevo solo sette anni! Il mio orologio si è fermato a quell’età anche se le lancette hanno continuato a girare sul resto del mondo. Quanti giri hanno già fatto intorno alla vita che mi resta? Deve esserci un motivo perché io sono ancora qui. Deve pur esserci una verità in fondo al pozzo che ha inghiottito la mia anima molti anni fa. La verità è che, dopo tanto vagare nel profondo, finalmente l’ho ritrovato. Ora devo solo agire. Questa sproporzione è durata fin troppo. Per quanto ormai lui sia un povero vecchio, ha comunque potuto vivere quella giovinezza che invece è stata privata a me. Una domanda non ha mai avuto risposta. Quale enorme sproporzione regola la vita dell’uomo? Ora, finalmente, una luce all’orizzonte. Una luce fioca ma capace di squarciare il sipario della vergogna. L’occhio della verità. L’inizio della spirale destinata a ristabilire il giusto equilibrio. Perché chi di sproporzione ferisce di proporzione infine perisce."
Capitolo 2
20 settembre 2014, SARZANA, Ospedale Michelucci, Chirurgia sezione uomini, Ore 9,00 circa
-Ha aperto gli occhi! Ha riaperto gli occhi! Ispettore Vezzoli! Ispettore, presto! Ha riaperto gli occhi!-
La voce dell’agente Balduzzi aveva risuonato per tutto il reparto Chirurgia dell’Ospedale Giovanni Michelucci di Sarzana. Molti dei parenti in visita ai pazienti ricoverati nelle sale adiacenti, allarmati dalle grida e preoccupati che fosse accaduto qualcosa di grave, si erano affacciati incuriositi sul grande corridoio centrale. Qualcuno, vedendo l’Ispettore Nicola Vezzoli, al quale era rivolto il richiamo del collega, percorrere a tutta velocità il lungo corridoio del reparto, si era lamentato scuotendo il capo, qualcun altro aveva allargato le braccia in segno di rassegnazione, altri invece si erano limitati a zittire il poliziotto mimandogli il dito indice sul naso.
-Ma che succede? Siamo in un ospedale, non siamo mica al mercato! Cos’è tutto questo baccano?- aveva domandato un’infermiera che, uscendo in tutta fretta da una delle camere con un catetere ciondolante fra le mani, per poco non fu investita dall’Ispettore che stava accorrendo in piena corsa.
-Ha aperto gli occhi! Non capisce? Mi scusi, infermiera, ma il mio collega dice che ha riaperto gli occhi. Il paziente della 16! Ha capito cosa le sto dicendo? Presto, avverta il capo reparto ed il medico di turno.- aveva risposto in piena concitazione l’Ispettore Vezzoli, non rallentando di un millimetro la sua corsa.
-Il mio catetere! Infermiera, il mio catetere! Ma cosa diavolo succede? Infermiera! Mi serve il catetere. Devo pisciare! C’è qualcuno in questo cazzo di ospedale che sa che fine ha fatto il mio catetere?- aveva vanamente urlato il paziente della camera attigua, senza minimamente sospettare che il catetere tanto atteso era già finito lungo e disteso in mezzo al corridoio, mentre l’infermiera che aveva il compito di sistemarglielo si era subito precipitata al telefono della sua postazione per avvisare il capo sala ed il medico di turno.
Appena entrato nella Camera 16, l’Ispettore Vezzoli, dopo aver posato lo sguardo per pochi secondi sul paziente che ospitava, lo aveva dirottato su quello tutto eccitato dell’agente Balduzzi, che, preso per il colletto della camicia, era stato pesantemente sballottato contro il muro dal nuovo arrivato.
-Santa pippa, Balduzzi! Che cazzo stai dicendo? E’ pallido mummifico e cadaverico come sempre. Ha la solita espressione di quando poco fa sono uscito da questa stanza che puzza di morte. Accidenti, Balduzzi! Non ce li ha solo chiusi gli occhi, ma di più. Come se il suo oceano fosse sprofondato del tutto nelle Fosse delle Marianne! E lo sai quanto sono profonde quelle fosse? Lo sai o no, agente Balduzzi? Chi cade in quegli abissi non torna più su! Nessuno è mai tornato! Capito? Nessuno!-
-Ispettore, le assicuro. Prima ce li aveva aperti. E’ stata una questione di pochi secondi. Forse anche meno. Stavo leggendo il mio solito Maigret. Poi senza alcun motivo ho alzato lo sguardo e ho visto i suoi occhi aperti e fissi su di me. Aveva le pupille dilatate. Glielo garantisco. Sembravano gli occhi di E.T. Si, si, proprio così. Precisi identici a quelli del pupazzo alieno di Carlo Rambaldi. Forse li aveva aperti già da un po’, o forse li ha aperti proprio in quello stesso istante. Non saprei, era come se mi guardasse, ma che non percepisse affatto di compiere quell’azione. Chissà? Le ripeto, Ispettore, una questione di secondi. Sembrava che volesse parlarmi. Le assicuro, ... non ho le traveggole. Sembrava davvero che volesse dirmi qualcosa, … ma le parole sembravano strozzate in gola. Poi però …-
-Poi però?- aveva domandato concitato l’Ispettore.
-Poi però li ha richiusi quasi subito, ma ha cominciato a farsi capire in un altro modo.-
-In che modo? In che cazzo di modo? Cosa diavolo stai dicendo, Balduzzi? E’ in coma da quasi sei mesi ormai! Ogni giorno che passa le speranze che si risvegli si riducono sempre più. E tu mi dici che sta cercando di farsi capire in un altro modo?- poi l’Ispettore Vezzoli aveva lentamente mollato la presa e, con le mani raccolte sul viso, si era seduto affranto ai bordi dell’altro letto presente nella Camera, assumendo un tono di voce meno concitato -Siamo tutti molto stanchi, agente. Devi scusarmi. Hai appena trascorso la notte fra queste pareti che sono pregne di dolore. E’ la terza volta questa settimana, vero?-
L’agente Balduzzi non aveva risposto, ma aveva accompagnato il capo in segno di assenso, lasciando proseguire lo sfogo del suo superiore.
-Ti capisco, agente. Sarai stanco da morire. Vai pure. Per quest’ultima ora ti do il cambio io. Vai pure, Balduzzi. Tanto io a casa che ci torno a fare? Non riuscirei certo a dormire. Resto io. Ci vediamo in Commissariato appena arriva l’agente Nocera a darmi il cambio.-
-Non sono stanco, Ispettore! E le ripeto che non ho le traveggole! … Ha pianto! Le sto dicendo che ha pianto. Ha capito che cosa ha fatto? Ha pianto! Dopo aver riaperto gli occhi e dopo aver capito che non sarebbe riuscito a parlare ha iniziato a piangere. Controlli pure anche lei. Guardi bene e mi dica lei se quelle che gli stanno scivolando dagli occhi non sono delle lacrime.-
L’Ispettore Vezzoli vedendole aveva cominciato ad aggiungerne subito altre. Delle sue. Un misto di felicità e rabbia. Lacrime copiose. Le une in sincronia con le altre. Poi le aveva raccolte con il dorso delle dita. Se le era portate al viso. E con esse si era inumidito le labbra. Il sale dell’oceano di Leonardo. Era vero. Leonardo stava piangendo. Con gli occhi ancora chiusi. Ma le sue palpebre non erano più immobili. Ed attraverso le ciglia, delle lacrime copiose avevano preso a scendere dalle guance scivolando fin sopra il cuscino. L’agente Balduzzi uscì dalla stanza subito dopo. Nel farlo aveva bloccato sulla porta le infermiere ed il medico di turno che compresero la situazione e restarono sulla soglia in segno di rispetto. Quelle lacrime dovevano scendere da sole. Da una parte e dall’altra. Senza altri occhi ad osservarle. Poi Nicola avrebbe asciugato prima quelle di Leonardo ed infine le sue, mentre per molti minuti ancora dall’Ipad di un giovane paziente, ricoverato nella stanza accanto con una gamba ingessata, il grido di Hozier, con la sua Take me to church
, struggente canzone mai sentita prima, avrebbe continuato a diffondere nell’aria parole di speranza e di preghiera che arrivavano diritte al suo cuore.
Capitolo 3
20 settembre 2014, SARZANA, Ospedale Michelucci, Chirurgia sezione uomini, Ore 9 e 15 circa
Erano le nove e qualche minuto del mattino del 20 settembre del 2014. Erano trascorsi quasi sei mesi da quel giorno ed il Commissario Leonardo Giannetti pianse per oltre un quarto d’ora. Un’ora più tardi i suoi occhi erano definitivamente aperti e l’oceano che era rimasto nascosto per quasi sei mesi aveva gradualmente ripreso il suo naturale moto ondoso. Le due ore successive l’Ispettore Vezzoli, incalzato dal medico di turno e dalle infermiere di tutto il piano, le aveva trascorse accanto al suo letto a sillabare, in modo lento e ripetitivo, come se l’interlocutore fosse un extraterrestre, sempre le solite domande: Leo-nar-do-mi-senti?-So-no-Ni-co-la.-Lo-sai-do-ve-ti-tro-vi-ora?-Ri-cor-di-co-sa-ti-è-suc-ces-so?
.
Infine, dopo l’ennesima domanda rivoltagli dal suo amico Ispettore, a mezzogiorno in punto, Leonardo finalmente aprì bocca e disse: -Ho fame!-
-Ha fame?- si stupì il medico di turno guardandosi attorno con espressione di meraviglia.
-Lei mi sorprende, dottore! Cosa accidenti può volere uno che si risveglia da un letargo lungo quasi sei mesi se non mettere subito qualcosa nella sua pancia?- la voce roca dell’agente Nocera, appena entrato nella stanza per dare il cambio al collega Balduzzi, era risuonata fra le pareti riportando la realtà in quel letto d’ospedale e, come qualcuno ebbe poi modo di riferire in seguito, strappando un primo sorriso a Leonardo. La terza parola proferita da Leonardo dopo sei mesi di silenzio fu una domanda. Quella più prevedibile. Quella che Nicola temeva più di tutte.
-Laura?-
-Ora devi solo riposare, Leo. Solo riposare.- aveva cercato di rispondere Nicola con fatica ed abbassando gli occhi. Ma Leonardo era tornato e, come suo solito, ad ogni domanda esigeva sempre una risposta.
-Laura. Laura dov’è?- chiese nuovamente cercando conforto anche nel nuovo arrivato, ma l’agente Nocera a quella domanda aveva preferito distogliere fintamente lo sguardo, facendo un passo indietro ed indicando con un leggero gesto del capo Nicola, che invece di rispondere aveva continuato a fissare i piedi del letto. Infine, tenendo i pugni chiusi sotto il mento, aveva appoggiato i suoi occhi su quelli di Leonardo ed aveva faticosamente provato a dirgli almeno un pezzo di verità, cercando di utilizzare un tono di voce il più delicato possibile e dosando al massimo le parole da utilizzare.
-Laura non è più con noi, Leo. Devi farti coraggio. E’ stata dura per tutti, … non sai quanto.-
Nicola parlò senza sosta per oltre mezz’ora ma la sua voce sembrava trapassare Leonardo che, impassibile ed attonito, rimase in balia di quel vortice all’incontrario che sputava fuori un passato finora a lui sconosciuto. Elena, intanto, seduta sull’altro lato del letto, notando che gli occhi di Leonardo si erano nuovamente inumiditi, era intervenuta come per soccorrerlo ed aveva cominciato ad accarezzargli delicatamente la fronte che cominciava a scottare, raccogliendogli all’indietro i cappelli stopposi ed ancora raggrumati.
Elena, padrona assoluta del limbo ove era precipitato tempo prima.
Elena, la ragazzina morta da trent’anni.
Elena, il suo primo ed innocente adolescenziale amore, sempre al suo fianco.
Elena, la ragazzina morta annegata in un lago di alta montagna insieme alla madre di Leonardo, a seguito dell’esondazione di un torrente durante un improvviso nubifragio.
Elena, la donna che nei successivi trent’anni ed oltre aveva continuato a vivere e crescere comunque accanto a Leonardo ed alla sua schizofrenica immaginazione.
Non piangere più, Leo, dolce amore mio. Io ci sono. Non sono mai andata via. Sono stata sempre qui al tuo fianco per tutti questi giorni e queste notti e non me andrò fino a quando non sarai completamente tornato alla vita. Almeno tu.
Per quanto il corpo di Leonardo fosse ormai quasi interamente privo di liquidi in eccesso da quasi sei mesi, per via dell’alimentazione endovenosa a cui era stato forzatamente sottoposto per protocollo medico, dopo le parole di Elena, le lacrime, meste e silenziose, continuarono a uscire dai suoi occhi per molto tempo ancora. Almeno fino a quando il corpo di Laura, inanimato e disteso a terra, a seguito di uno scontro a fuoco avvenuto più di sei mesi prima in un anonimo appartamento del centro storico di Sarzana, non prese nitidamente forma nei suoi ancora annebbiati ricordi.
Capitolo 4
SEI MESI PRIMA, 24 marzo 2014, SARZANA, Via Mascardi, Appartamento del Commissario Giannetti, Ore 1 e 50 circa della notte
La musica e le dolci parole di amicizia di Antony e Battiato, nella poesia Del suo veloce volo
, si stavano magicamente diffondendo con un moto armonico semplice lungo le pareti del piccolo appartamento del Commissario Leonardo Giannetti. E sarebbero anche uscite in strada a confondersi con l’odore della notte se solo le finestre non fossero state improvvisamente accostate dal padrone di casa. Era giunta l’ora di andare.
-E’ il momento, Laura. Rivestiti in fretta.-
-Ho voglia di fare l’amore, Leo.-
-Lo abbiamo appena fatto.-
-Di nuovo, Leo.-
-Dobbiamo andare, Laura, sono quasi le due. L’appuntamento con gli altri è fra mezz’ora in Commissariato. Il piano prevede che l’irruzione inizi alle tre in punto. Ci sono ancora alcuni dettagli da sistemare. Per esempio, qualcuno da posizionare di vedetta sul tetto di fronte, caso mai si fosse preparato una via di fuga dall’alto ...-
Ma Laura non lo ascoltava già più.
-Laura, … per favore.-
Le sue labbra gli impedirono di andare oltre.
-Sssssh… Fai silenzio. Sai benissimo che si tratta di un edificio isolato dagli altri. Per scappare dal tetto dovrebbe fare un salto di cinque metri. Ed il nostro uomo non è certamente un atleta, … scopami, Leo. Ora scopami e basta.-
Era bastato che il corpo di Laura scivolasse fuori dal letto. Ambra e paradiso. Al resto aveva pensato la penombra notturna ed il gioco di chiaro scuro che l’insegna del Pub sottostante proiettava contro le pareti dell’appartamento di Leonardo attraverso le persiane appena accostate. Le parole di Laura erano rimaste solo in sottofondo. Soffocate dalle braccia di Leonardo che le cingevano la vita, mentre quelle di Antony e Battiato, in versione live, avrebbero fatto loro ricordare che finita la musica, oltre quella porta, il caso dell’ uomo della proporzione
forse, finalmente, avrebbe avuto una svolta definitiva.
Capitolo 5
Sempre sei mesi prima, 24 marzo 2014, SARZANA, via Dietro al Teatro, Luogo dell’irruzione, Ore 3 della notte
L’irruzione nell’appartamento del signor Bacci Giancarlo, nella vicina via Dietro al Teatro, a pochi passi dal Commissariato Lunense, iniziò alle tre in punto del mattino. Il signor Bacci Giancarlo, fino a prova contraria, era uno dei cinque sospettati di uno di altrettanti omicidi, se non forse di tutti, che avevano suscitato enorme clamore nel Circondario del Levante sia per l’assoluta insussistenza di qualsiasi movente che per la particolare condizione in cui erano state fatte ritrovare tutte le vittime oltre che per l’estrema ed agghiacciante efferatezza con la quale erano stati consumati i delitti.
L’agente Balduzzi aveva abilmente aperto la porta dell’alloggio del sospettato, posto al terzo piano di una storica casa in linea, con un normalissimo passepartout
, poi, fattosi da parte, aveva fatto entrare, uno dietro l’altro, il Commissario Giannetti, il suo vice, il dottor Vezzoli, e infine anche l’Ispettore Laura Conti.
Gli agenti Straccini ed Acetoni, per tutti Starci ed Haci, per via della loro straordinaria somiglianza con i due detective americani della nota serie televisiva in auge negli anni "80, seguivano le operazioni dal basso, incaricati di monitorare le uniche tre finestre dell’appartamento che prospettavano su via Dietro al Teatro. L’agente scelto Nocera, il più anziano del Commissariato, invece, sbadigliando a più non posso, era già da un pezzo al suo posto, perfettamente appollaiato sul tetto a capanna dell’edificio prospettante alla palazzina oggetto di irruzione e con la sicura della pistola alla mano già tolta. Sarebbe stato assolutamente invisibile se non fosse stato per il lumicino della sigaretta perennemente accesa, che però, per via dell’aumento di intensità ad ogni sua tirata, poteva essere tranquillamente scambiato con il lampeggio continuo di un moderno sistema di allarme.
-Buonasera, Commissario! O dovrei forse dire buon mattino? Non c’era bisogno di forzare la porta. Bastava bussare e vi avrei aperto personalmente.-
La voce, sicura e profonda, risuonò improvvisa nella penombra. Lo stupore congelò il tempo per infiniti attimi e la ragione prese altre strade. Il Commissario Giannetti cercò di individuarne la provenienza, poi tutto accadde così velocemente che anche l’Ispettore Vezzoli, l’unico, in seguito, in grado di raccontare come si erano realmente svolti i fatti, faticò non poco a rimettere in fila tutti gli istanti che si succedettero. Nell’oscurità del salone di ingresso un’ombra sembrò alzarsi dal divano rivolto di spalle. La figura dapprima alzò le mani in segno di resa, o almeno così parve a tutti, poi però con uno scatto improvviso si abbassò, come per raccogliere qualcosa sul tavolinetto in cristallo posto a fianco del divano. Il Commissario intimò: -Fermo o sparo!- ma la figura nella penombra, come incurante dell’imposizione del Commissario, continuò nel suo movimento inconsulto e sembrò gettarsi a capofitto sul tavolinetto in cristallo che andò in mille frantumi in un bailamme infernale. Poi il tempo prese una di quelle pieghe che nessuno vorrebbe mai percorrere, soprattutto attraverso i ricordi. Una manciata di secondi dopo era già tutto finito. Nei minuti immediatamente successivi le luci azzurre delle ambulanze e delle auto di ordinanza si erano impadronite della penombra in cui fino a pochi istanti prima era immersa via Dietro il Teatro. Padrone assolute del buio di un mattino ancora acerbo che sarebbe rimasto notte fonda per molto tempo ancora. A seguire, con frenetico incessante brulicare, il via vai di medici e infermieri, lettighe cariche di corpi e sangue dappertutto, con le sirene dei mezzi di soccorso in un continuo andirivieni fra le strade della città destatasi anzitempo. Infine era toccato il turno dei tecnici di medicina legale, compreso il dottor Tomic, assonnato, inebetito e sconvolto, tanto da lasciare il suo maggiolone celeste, senza il freno a mano tirato e con il motore acceso in folle, libero di adagiarsi indisturbato contro i gradini del sagrato dell’attigua Cattedrale di Santa Maria. In ultimo, a seguire, il turno degli uomini della scientifica per i rilievi di rito e la consueta campagna fotografica prima dell’apposizione dei sigilli disposti dalla Procura. Il Questore in persona, giunto sul luogo con il personale della scientifica, aveva pensato che aver fatto trascorrere un’ora buona dalla sparatoria potesse essere un margine di tempo sufficientemente ragionevole per sentire direttamente dalla voce dell’ispettore Vezzoli, l’unico testimone in grado di ricostruire gli eventi, come si erano realmente succeduti i fatti e soprattutto come si era svolta la sparatoria, ma si sbagliava.
-Ispettore? Ispettore Vezzoli, mi ascolta? Se la sente ora di raccontarmi cos’è successo? Chi ha fatto fuoco per primo?-
-Non se la sente ancora, signor Questore.- era subito intervenuto l’agente Balduzzi -È ancor troppo sconvolto. Tutto è durato non più di dieci secondi. Io stavo per entrare, ero il quarto, ma non ne ho avuto il tempo materiale.-
L’Ispettore Vezzoli cominciò nuovamente a parlare solo dopo che le luci artificiali delle sirene si erano quasi totalmente diradate e quelle naturali provenienti da est avevano cominciato a rischiarare il cielo. Dapprima aveva descritto al Questore per filo per segno il momento iniziale dell’irruzione, sino a quando il sospettato si era letteralmente buttato sul tavolinetto in cristallo mandandolo in frantumi, poi con maggior fatica e molto più lentamente, come se si trattasse di un evento remoto nel tempo, anche tutto il resto.
-Chiunque a quel punto si sarebbe immaginato che volesse reagire sparando, signor Questore. Il più veloce a sparare però è stato il Commissario, che ha anche cercato di mirare il più in basso possibile al fine di evitare di inferire colpi mortali. Due colpi in tutto. Poi il silenzio per circa tre secondi, forse quattro. Santa pippa, un silenzio infinito. Nessuno aveva idea di cosa fosse successo. In seguito, però, un altro piccolo movimento si è levato dal centro del salone. Come rumori di vetro schiacciato. Dopo aver sentito quella specie di scricchiolio, Laura, brandendo in mano la sua piccola pistola, ha fatto volontariamente un passo in avanti. Leonardo, percependo le sue intenzioni, senza fiatare e con scatto felino, l’ha afferrata per il braccio destro, impedendole di anteporsi totalmente fra lui e la vista buia del salone. Saranno trascorsi al massimo altri due secondi di silenzio assoluto. Infine dal centro del salone sono partiti altri quattro colpi sordi di una pistola dal suono smorzato che hanno colpito Laura che si è subito accasciata a terra. L’urlo di Leonardo è stato straziante. Lancinante e prolungato. E mentre lo emetteva ha letteralmente svuotato il caricatore su ogni cosa davanti a lui, dove le luci dei colpi esplosi, moltiplicate dal riflesso dei numerosi specchi a parete di cui era ricca la casa, hanno letteralmente illuminato a giorno l’intero salone. E’ stato a quel punto che ho visto gli occhi profondi e spiritati di Leonardo alla disperata ricerca di ogni cosa in movimento, prima di perdere definitivamente i sensi colpito anch’esso dagli ultimi due colpi provenienti dal centro del salone.-
Avrebbe ricordato solo più tardi, ma con fatica, l’ispettore Vezzoli, di aver anche visto gli occhi di Leonardo chiudersi lentamente, combattuti fra il desiderio di restare ancora aperti e fissi sul corpo esanime di Laura, distesa accanto a lui, ed il timore di chiudersi per sempre nella triste consapevolezza di non poterla accompagnare nel suo ultimo viaggio. Avrebbe anche ricordato, ma solo molto tempo dopo, che prima dell’oblio Leonardo aveva ancora avuto la forza di emettere un prolungato: -Nooooo!- seguito più volte sempre dalla solita parola che dava il senso dell’abbandono in cui era precipitato: -Spira…. Spira….-
Non avrebbe invece potuto in alcun modo ricordare le parole pronunciate da Elena, che forse neanche Leonardo ormai era in grado di ascoltare più: Non sei solo, Leo. Io sono qua, amore mio. Sono e resto accanto a te. Dovesse anche questa spirale ruotare all’infinito intorno all’oblio in cui ora stai precipitando.
Così come Leonardo non avrebbe potuto udire il resto delle parole profetiche di Antony e Battiato, già ascoltate poco prima con Laura, che come per uno stupido scherzo del destino continuavano ad uscire monotone dalla piccola radio d’epoca rimasta accesa nell’appartamento dove era avvenuta la sparatoria. Il fatto poi che la strana figura nella penombra, corrispondente alla persona del sospettato Bacci Giancarlo, professione agente di viaggio e benefattore di fama conclamata, dopo aver dato il buongiorno ai poliziotti introdottisi in casa propria, fosse semplicemente e maldestramente inciampato nel tavolinetto in cristallo nel suo soggiorno riducendolo in frantumi e che aveva risposto al fuoco solo per legittima difesa, beh, quello fu appurato solo in seguito dagli stessi tecnici della scientifica, che, dopo una attenta e puntuale ricomposizione della scena della sparatoria attraverso il rilevamento dei colpi esplosi, ricostruirono minuziosamente e cronologicamente quello che era accaduto in quei fatidici dieci secondi. Fatta eccezione, però, per quella strana maschera facciale che riprendeva la caricatura di un famoso uomo politico che, molto tempo prima, aveva tragicamente terminato la sua esistenza nel bagagliaio di una Renault rossa parcheggiata in via Caetani a Roma il 9 maggio del 1978 e che restò impassibile appesa alla parete del soggiorno del signor Bacci Giancarlo.
Capitolo 6
NUOVAMENTE NEL 2014, 21 settembre 2014, SARZANA, Ospedale Michelucci, Chirurgia sezione uomini, Ore 9 e 30 circa
Il giorno dopo il suo risveglio, Leonardo aveva trascorso le prime ore del mattino cercando di pronunciare alcune parole. Le più semplici. Come bere, bagno e cibo. Mano a mano che la sua voce si faceva più chiara, le parole che riusciva a pronunciare uscivano dalla sua bocca sempre più articolate, fino a quando proferì una frase che lasciò interdetta l’infermiera di turno.
Uscendo dalla camera per cercare quanto richiesto, dopo aver visto con disgusto che il poliziotto di piantone, che rispondeva al nome dell’agente scelto Nocera, teneva ansimando una strana sigaretta fra le dita, aveva incontrato l’Ispettore Vezzoli, al quale aveva confidato lo strano desiderio del Commissario.
-Non riesce ancora a parlare bene, ma credo che voglia scrivere qualcosa su un pezzo di carta. Ha chiesto una matita.-
-Una matita?-
-Si, si, proprio così, una matita. Una matita gialla, per la precisione.-
-Gialla? Una matita gialla? Santa pippa! Allora è tornato in sé. Se ha bisogno della matita gialla vuol dire che il suo cervello ha ripreso a funzionargli benissimo. Ora ha solo bisogno di scaricare la tensione che è rimasta latente dentro lui per quasi sei mesi. La matita gialla non gli serve per scrivere, ma solo per torturarla e fletterla all’inverosimile. Niente di più.-
-E il foglio? Che faccio, il foglio non glielo porto?- aveva domandato ancora più sorpresa di prima l’infermiera.
-Lasci perdere il foglio. Gli porti solo la matita. Che sia gialla però, mi raccomando. E gli porti pure uno di quei cestini che ho visto nel corridoio e glielo metta in un angolo della camera. Che sia ben visibile ed a portata di tiro. Gli servirà.-
A quelle parole l’infermiera, dopo aver ricordato lo strano comportamento dell’agente con quella strana sigaretta fra le dita, inquadrò con aria perplessa anche la figura di quello appena arrivato, rielaborò più volte l’assurda pretesa del paziente rinsavito, dopo di che si allontanò ripetendosi più volte la stessa domanda: -Roba da matti! Una matita gialla ed un cestino! Mi domando e dico io, ma cosa se ne fa di un cestino se non ha niente da buttare e di una matita se non ha niente su cui scrivere? Tutti matti questi poliziotti!-
La magrezza del viso di Leonardo era perfettamente proporzionata al resto del corpo. La carne e la muscolatura, che si avviluppavano avidamente intorno alle ossa delle gambe e delle braccia, sembravano degli strati di cellofan arrotolati più volte su se stessi, mentre gli zigomi facciali apparivano quelli di un pugile suonato sul cui volto si era divertito, e molto anche, il campione olimpico dei pesi massimi.
-Santa pippa, Leo. Hai una cera da spavento. Ti assicuro che avevi un colorito migliore mentre eri nel mondo dei sogni. Sembri appena uscito da Auschwitz.- poi dopo un attimo di pausa, fattosi ancora più serio, proseguì -Hai cominciato a ricordare?-
Il primo sorriso di Leonardo sembrò accentuare ancora di più lo sporto degli zigomi rispetto al profilo del suo viso.
-Dì pure a Nocera di tornare in Commissariato, Nicola. Non serve che stia qui anche lui. Ormai non serve più. Ehm, … sbaglio o ti ha chiamato Capo quando sei arrivato?-
-Sono solo reggente. Durante la tua assenza dovevano pur nominare qualcuno! Solitamente nei momenti peggiori si fanno le scelte migliori. Nel mio caso però deve essere accaduto esattamente il contrario. Cosa vuoi, la classica eccezione che conferma la regola! La peggior scelta che potessero fare l’hanno fatta e così hanno scelto il sottoscritto. La legge di Murphy con me c’è andata a nozze!-
-Non potevano fare scelta migliore, invece. Comunque ora fallo pure rientrare. Qui ormai non serve più. Inoltre l’ho visto attraverso la porta semiaperta che si è appena acceso una sigaretta. Per carità, digli di spegnerla subito e di andare via.-
-Non è una sigaretta vera. È elettronica! Ora vanno di moda. Nei mesi in cui eri nel mondo dei sogni hanno spiccato il volo. Lo Stato sta cercando di tassarle e stai tranquillo che appena tutti si saranno abituati a quelle, qualcuno con la scusa di far tornare i conti ci metterà sopra una bella accisa …- poi, temporeggiando un po’, aggiunse -E comunque, … anche volendo, … in ogni caso l’agente Nocera a casa non ci può andare.-
-E perché non può farlo?-
-E’ di piantone. Appena smonterà, fra meno di un’ora, sarà il turno dell’agente Balduzzi.-
-Di piantone? E chi sta piantonando?-
Silenzio. Un prolungato silenzio. Poi il fulmine a ciel sereno.
-Te! Sta piantonando te, Leo! Su ordine della Procura.-
-E perché? Qualcuno vuole uccidermi? C’è qualcuno che ce l’ha con me? Per la morte del Bacci? Ho la mente ancora un po’ confusa. Mi devi scusare, Nicola. C’è qualcosa che puoi aiutarmi a ricordare?-
-Le cose sono un po’ diverse da quello che pensi, Leo.-
-Spiegati meglio, Nicola.-
-Ecco, … vedi, … insomma ...-
-Cazzo, Nicola! Allora? Cos’è che devi dirmi? Avanti, parla!- imperversò Leonardo agitando le dita scheletriche.
Nicola ormai non riusciva più a contenere il misto di felicità e tristezza che aveva pervaso il suo animo in quelle ultime concitate ore. Felicità per tutte quelle onde che il verde oceano degli occhi ravvivati di Leonardo gli cospargeva nuovamente nel cuore. Tristezza per quello che invece aveva il dovere di comunicargli. Alla fine prevalse un mesto abbassamento dello sguardo che giocò a fare rimpiattino fra le fughe delle piastrelle in marmo del pavimento.
-Sei in arresto!- ancora una piccola pausa e poi, dopo aver contato fino a dieci, snocciolò anche tutto il resto -Sei in arresto, Leo. Sei accusato di aver ucciso il signor Giancarlo Bacci, il quale ha solo risposto al fuoco dopo che tu lo avevi aperto per primo. Omicidio, Leo! Per la Matrilloni, e non solo per lei, si tratta di omicidio volontario. Ecco perché l’agente Nocera deve piantonarti. L’unica cosa che la Procura ci ha concesso è che a farlo fossero gli uomini del tuo Commissariato.-
La matita gialla che nel frattempo l’infermiera gli aveva gentilmente portato nel mezzo del discorso con Nicola si spezzò sotto la morsa di due misere braccia ancora prive di muscolatura, ma intrecciate di nervi tesi all’inverosimile, ed un secondo dopo i due monconi erano già volati nel cestino appena posizionato ai piedi del letto nelle sue nuove veci di cimitero delle matite gialle spezzate
, per l’occasione momentaneamente trasferito in una saletta dell’Ospedale Giovanni Michelucci di Sarzana.
Qualche istante dopo, senza che fosse minimamente programmato, l’avvocato Meneguzzi, il legale che da qualche anno, su disposizione della Questura, curava i procedimenti penali in cui malauguratamente incorrevano gli agenti del Circondario del Levante durante l’espletamento del loro servizio, entrò nella camera di degenza del Commissario, portandosi appresso la sua classica valigetta in pelle nera consumata all’inverosimile che sembrava un tutt’uno con il colore dei suoi capelli unti e bisunti.
-Lei è in un gran brutto guaio, Commissario Giannetti. A conti fatti le conveniva continuare a dormire beati sogni ancora per qualche mese, sa? Almeno fino a quando le acque non si fossero un po’ calmate. E che diamine, in fondo che fretta c’era? Mica è poi così bello questo mondo ultimamente! Lo sa che ora, visto che è del tutto cosciente e pienamente capace di intendere e di volere, nulla potrà più impedire il proseguo del procedimento avviato a suo carico?-
Lo sguardo smarrito di Leonardo cercò quello di Elena. Ma i suoi occhi, all’unisono con quelli di Nicola, rimasero incollati sulle fughe delle mattonelle del pavimento della camera di degenza, persi lungo la loro prospettiva infinita, silenziosi e refrattari come non lo erano mai stati. Solo allora Leonardo si rese conto di essere tornato alla vita in un mondo povero di certezze, arido di affetti e pieno di solitudine. Ma il peggio, suo malgrado, era ancora di là da venire.
Capitolo 7
DA UN DIARIO - UN RICORDO RISALENTE A 14 ANNI PRIMA
Era il 25 luglio del 2000, ero a PARIGI, in una sala d’aspetto dell’Aeroporto Charles de Gaulle. Erano circa le 14 e 45 del pomeriggio e l’aria di Parigi era calda e umida ed io, finalmente, avevo smesso di cercare. Finalmente lo avevo trovato.
"Erano anni che lo cercavo. Quello sguardo ho provato a dipingerlo sul volto di molti. Poi, finalmente, la maschera ha trovato la forma giusta. Il suo volto. I suoi occhi. Erano anni che li cercavo. Ora, infine, li ho trovati. Sono giorni che lo seguo. E’ molto anziano. Vola spesso nei cieli, mentre io sono anni che precipito nel solito abisso. Lui ha continuato a volare mentre io a precipitare. Che sproporzione fra il suo volare ed il mio lento inesorabile precipitare!
Ho una rivoltella nelle tasche, ormai è vecchia, quasi come lui, e sembrava destinata a restare per sempre nella giacca. Poco fa, prima di entrare in aeroporto, l’ho anche sfiorato. Ho cercato invano di aspirare il suo odore. Vanamente. Quel che si dice è vero. Non ha odore l’odio. Era appena sceso da un taxi ed una moltitudine di persone con bagaglio a mano lo aveva subito inghiottito. E’ facile farsi inghiottire dalla folla, più difficile è uscirne. Dopo un po’ è come essere una goccia in un oceano e per separarti da esso puoi solo evaporare. O sublimare. Ma per evaporare serve la luce del sole. Tuttavia la sua luce mi è stata nascosta. Per sublimare, invece, è necessaria una pressione di altri corpi celesti. Ma il mio precipizio è su questa terra. E’ per questo che io resto in questo oceano. E quando questo accade, si diventa parte di un altro sistema. Diverso nella materia, ma uguale nella forma astratta. Sei comunque una moltitudine e singolarmente non sei nessuno. E’ esattamente quello che sono io. Quello che è il mio destino da quando ho cominciato a precipitare, mio malgrado. In quella moltitudine infinita, singolarmente l’ho scontrato. Nel farlo gli è caduto il cappello. La vecchiaia su di me incombe. Su di lui, invece, è padrona assoluta.
-Mi scusi.- ho sillabato. Avrà certamente compreso il mio accento italiano.
-Non si preoccupi. Non è niente.- mi ha risposto.
Si, lo ha compreso, ma non ha capito chi sono. Eppure sono gli stessi occhi che molti anni prima lo avevano implorato. Offuscati. Innocenti. Inconsapevoli. Piangendo. I suoi, invece, per vivere e per ricordare non hanno versato lacrime. I miei si. Moltissime. Impossibile farlo da entrambe le parti. Da una parte si muore. Dall’altra è meglio non ricordare. Capita però, seppur di rado, che la morte prenda altre strade. Si dice il destino. Così la morte deve aver visto il mio corpo adagiato su altri. Corpi già suoi. Ma all’ultimo si è voltata. Ha deviato. Ha fatto finta di niente. La vita no. La vita è una linea dritta. Non devia mai. Ed allora si sopravvive ed il ricordo fa lo stesso. Insieme ad essa. Indissolubile. E col tempo si fa pesante. E’ il prezzo da pagare.
L’ho scontrato apposta. Gli è caduto il cappello.
-Mi scusi.-
No. Non ha capito chi sono. Da dove vengo. Né dove sto andando e che lo sto cercando.
-Non si preoccupi. Non è niente.-
Potevo sparare. Avevo la mano in tasca e l’indice teso sul grilletto, ma non l’ho premuto. Non c’è proporzione fra quello che ha fatto e la morte che contavo di riservargli. Il niente in mezzo alla folla. Sarebbe stato un niente. Un corpo inerme con la gente che di colpo si sarebbe allontanata da lui. Come una goccia che cade su una superficie d’acqua ed origina cerchi concentrici. Il terrore allontana. Salvo alcuni casi. Come il mio lento precipitare. Sarebbe stato un corpo inerme, niente di più. Insignificante. Inutile. Mentre io avrei comunque continuato a precipitare. Inesorabilmente. Stavolta per sempre.
-Una distrazione, mi scusi. Aspetti che le raccolgo il cappello.- ho chiesto scusa.
-Grazie, molto gentile. Anche lei ha origini italiane?- mi ha domandato.
-Di adozione. In realtà sono di Pisino. Istria. Quando era ancora italiana. Ci siamo già incontrati tanti anni fa, a Cernovizza, di fronte all’inghiottitoio.- ho risposto con occhi freddi, raggelando i suoi.
Ora ha capito. Ora si che ha capito. Non prende il cappello dalla mia mano. Ritrae la sua. Di scatto. Resta immobile. Di ghiaccio. Sulle sue rughe scorre il sudore di tutta una vita. Che poi evapora. Sembra asciugarsi. Non sa cosa fare. Non parla. Gli tremano le labbra. Ha notato la mia mano destra infilata nella giacca ed un evidente rigonfiamento appena sotto la tasca, come quando si impugna un’arma. Ha capito che sta per morire. Intanto io continuo, a voce bassa. Non c’è fretta.
-Avevo sette anni. Solo sette. Ero in fila. Eravamo tutti in fila. Forse cento. Un uomo ed una bambina, un bambino ed una donna. Un vecchio e poi di nuovo un bambino ed un uomo. E così via. Nessuna logica. Nessuna differenza. Solo una sequenza. Dei numeri. Tutti uno dietro all’altro verso l’abisso. Dove siamo stati gettati senza pietà. E’ da allora che sto precipitando.-
Lui ascolta. Resta immobile. Le sue labbra continuano a tremare. E’ un vecchio. Ma non basta. I rumori intorno a noi si amalgamano in una eco incessante di una sirena dal tono crescente ed assordante. Sa che non deve dire niente ed invece prova a parlare. Dapprima balbetta, poi tossisce ed infine gioca la sua ultima carta.
-Eseguivo degli ordini. Solo degli ordini. Lei non può capire cosa significhi essere obbligati ad eseguire degli ordini.-
Ha ragione. Non posso saperlo. Né allora né ora e forse non lo saprò mai. Non si ha idea di cosa sia