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Il Ritorno
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Il Ritorno

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About this ebook

Uno spaccato d’Italia all’epoca fascista, vista attraverso gli occhi, a volte sognanti a volte disillusi di Anna, unica figlia femmina di una famiglia patriarcale contadina. Un padre padrone violento, una madre rassegnata e remissiva e sette fratelli che si spartiscono una vita di fatica e povertà. Nella solitudine della sua adolescenza, Anna trova conforto nelle poesie e nell’amicizia con Emanuele, il figlio del maestro. Per entrambi, l’affetto presto si trasforma in un sentimento più profondo, che però ha storia breve. Emanuele si trasferisce in città per studiare all’università e Anna si ritrova ancora una volta sola e senza nemmeno il coraggio di sognare una vita diversa. Per fuggire ad un matrimonio indesiderato, Anna viene mandata in città a far da serva in una famiglia benestante. Giunta a Torino, per lei comincia una nuova vita. Stringe un legame d’affetto con la cuoca, Pandora, nella quale ritrova quei gesti d’amore materno che le sono spesso mancati. Diventa amica con la figlia dei padroni di casa, Giulia, una ventenne ribelle, membro dell’associazione giovanile clandestina contro il fascio e soprattutto, s’innamora del padrone di casa, professore di letteratura, amante della musica classica e del blues. Proprio grazie a Giulia, Anna riesce ad ottenere lezioni private gratuite, avendo finalmente libero accesso all’istruzione che tanto la affascina e che da sempre le è stata negata. L’occasione le regalerà momenti unici di un amore impossibile e tormentato. In seguito alle azioni sovversive del marito, Pandora deve fuggire dalla città, per evitare le ripercussioni del regime. In sua vece, arriva Nunzia, la nuova cuoca. Anna, dapprima scettica nei riguardi della donna, si dovrà poi ricredere e proprio con lei vivrà eventi che daranno una svolta decisiva alla propria esistenza. Costretta a tornare al paese di campagna dal quale è partita e ripudiata dal padre, va ad abitare con Ines, una vecchia amica della nonna, che le dà ospitalità e amicizia. Emanuele, ormai diventato il farmacista del paese, la corteggia e le chiede di sposarlo. Quando la vita della donna sembra finalmente prendere la piega da lei tanto voluta, il destino ancora una volta mescola le carte, lasciandola sola ed incerta di fronte alla scelta.
LanguageItaliano
Release dateSep 6, 2015
ISBN9786050401417
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    Il Ritorno - Roberta Locatelli

    UNO

    I polsi poggiati al tavolo e le mani giunte in una preghiera non voluta. Dalla finestra, giunge un taglio di luce del tardo pomeriggio.

    Respira rapida, impaziente di nulla, portando gli occhi in giro alla ricerca di un qualcosa sul quale fermarsi a riposare. Sono occhi tristi, dello stesso colore del cielo invernale che sta di fuori.

    Vorrebbe non esser lei e vestire la vita di un’altra persona. Vuotare la mente dai suoi pensieri guasti, avere pace.

    L’improvviso richiamo alla porta le dà spavento.

    Un bussare deciso, tre colpi.

    Si alza in fretta, il cuore veloce, le dita svelte a raccogliere i capelli.

    Apre lentamente.

    E’ il figlio del maestro. 

    I

    "Eravamo in ritardo, con le faccende da sbrigare e tutto il resto. Lo sguardo duro di mio padre era posato su di me sempre in malo modo, ogni mattina d’ogni santo giorno.

    Tirai mio fratello, strattonandolo. Quello già frignava di suo, che a scuola non ci voleva andare.

    Gli zoccoli che portavamo addosso tritavano il fango secco e ghiacciato e i rimasugli di foglie stecchite. I piedi erano duri e freddi alla stessa maniera di quella terra invernale. Provai a muovere le dita e gli occhi mi si bagnarono.

    - Fermati! –

    - Cosa vuoi? –

    - Non ci voglio andare a scuola. –

    Tirai più forte, cattiva.

    Lo vidi da lontano. Era l’Emanuele, il figlio del maestro e stava uscendo di casa. Tendendo bene le orecchie, potevo sentire il cigolio famigliare del suo cancello verde, come ogni mattina.

    Affrettai il passo, tirando ancora quel fratello pieno di moccio al naso.

    - Ciao! –

    Mi accorsi di aver urlato senza fiato e subito me ne vergognai. Lui non ci fece caso, forse. Rallentò il passo.

    - Ciao. –

    - Siamo in ritardo. –

    Alzò le spalle. - Siamo sempre in ritardo, tu e io. Mio padre è partito da un pezzo.-

    Quel tu e io mi fece un giro dentro lo stomaco, ribaltandolo.

    Si chinò, prese un sasso e lo lanciò lontano. Gli piaceva tirare pietre e a me piaceva guardarlo mentre lo faceva.

    Mio fratello sgusciò via dalla mia mano e si accucciò a terra, molle come una lumaca.

    - Non ci voglio andare! –

    Mi venne la rabbia in un mezzo secondo.

    Lo afferrai per il bavero di quella specie di cappotto che portava e lo tirai su, di forza. Si mise a strillare ancora più forte, che sembrava lo stessi ammazzando.

    L’Ema si avvicinò. Tirò fuori un legnetto di liquirizia e lo diede a mio fratello.

    Bastò quello per sistemare la faccenda.

    - Grazie. – feci, sorridendo con tutto.

    Anche lui sorrise e riattaccò a tirar pietre, allungando il passo.

    Ripresi la strada col cuore leggero. Ero felice. Mi sarei seduta sul banco duro della scuola accanto a mio fratello. Avrei dovuto esser grata a quel bambino lagnoso, visto che ero lì solo per lui, che di paura ne aveva tanta. Con i miei dodici anni sarei dovuta stare nei campi o con le bestie da un pezzo."

    "Mi piaceva imparare e invidiavo chi, come l’Ema, poteva studiare come Dio comanda.

    Io ero semplice arredo di mio fratello, un’appendice senza possibilità di nulla. Non avevo quaderni e nemmeno pennino e calamaio. Quelli erano di mio fratello che faceva macchie grandi come mele. Ero brava e gli insegnavo bene. Il pennino s’accomodava tra le mie dita come se quello fosse il suo posto da sempre. Mi piacevano le forme delle lettere, le curve e tutto il resto.

    Ero pazza per le poesie, quando il suono delle parole diventava musica nella mia testa.

    Se il maestro spiegava ai più grandi, tendevo le orecchie. Tutto diventava silenzio e le lezioni di quell’uomo secco e curvo come un punto di domanda, mi arrivavano docili, facili da capire.

    Imparavo rubando parole."

    "Avevo un albero. Non so di chi fosse in verità, ma nessuno, quanto me, lo aveva scalato e carezzato per così tante volte, quindi era mio. Ci stavo da Dio là sopra. Ripensavo alle parole nuove imparate a scuola, acchiappate al volo come si prendono farfalle e le rigiravo in bocca, arrotolando la lingua.

    Ricordo quel giorno che il maestro aveva letto a voce alta una poesia del Pascoli. L’avevo imparata in un niente, senza il minimo sforzo. Mi dava piacere snocciolarla veloce, liberando le rime. Da sopra il mio albero, la ripetevo all’infinito.

    L’Ema a volte passava di lì, forse per caso. Buttava il naso per aria, tra i rami.

    - Ah, ci sei! –

    Nient’altro.

    Poi saliva veloce, in quattro salti e si sedeva sul ramo di fronte. Posava leggero lo sguardo sul mio, come per sbaglio.

    - Ma come fai? Io non ci riesco a mettermi in testa tutte quelle parole lì. –

    Lo aiutavo, con il cuore che batteva male e mi tirava via aria.

    Amiche non ne avevo, erano tutte diverse da me. Di tempo per giocare ce n’era sempre poco e quel poco io lo passavo sopra la mia quercia."

    "Non avevo fatto il lavoro per bene alla stalla, quel giorno. M’ero persa dietro a un vecchio nido di rondini caduto dal sottotetto, con la voglia di far niente addosso, respirando insieme al fiato mansueto delle vacche.

    L’Ercole, mio padre, se n’era accorto subito e mi era arrivato alle spalle in silenzio, come un ladro. Mi aveva alzato per i capelli, stringendo in quella mano gigante, la mia coda striminzita di puledra ribelle.

    Avevo cacciato un urlo da spaccare i timpani e, appena posati i piedi a terra, ero scappata alla quercia. Solo lì, abbracciata al mio tronco, ero riuscita a far tacere le grida e le bestemmie che ancora mi tuonavano dentro.

    Quella volta, tra i rami ci trovai un libretto con le poesie del Pascoli. Le mani mi tremarono nello sfogliare quelle pagine profumate e sottili. Il cuore ancora a spingere sopra il normale.

    Quello era il mio albero. Solo l’Ema lo poteva sapere."

    "I fogli s’incollarono alla mia pancia. Era lì che lo tenevo, il mio libretto del Pascoli, tra la pelle e la stoffa smollata della maglia. Respiravano con me.

    Solo alla sera, quando la solitudine mi avvolgeva come una fodera, lo tiravo fuori e leggevo le parole più con la mente che con gli occhi.

    Era buio alla notte, soprattutto d’inverno. Tanto buio che se aprivo la bocca mi sembrava di mangiarlo tutto quel nero. Ed era freddo. Al mattino spostavo con le dita il vapore ghiacciato ai vetri delle finestre.

    Il mio libretto stava sempre lì, tra pelle e stoffa."

    "Poi mi venne la febbre e non c’era più silenzio. Le voci mi arrivavano pesanti, lontane. Voci della mamma e di mio fratello. Nessun ’altro, ma per me, era meglio così.

    Era una febbre che non se ne voleva più andare, ma il dottore non lo chiamarono.

    - E’ forte, anche se è una femmina. Quella guarisce da sé. –

    Così disse mio padre una sera, l’unica volta che cacciò il naso dentro la stanza.

    Infatti, la febbre, dopo giorni che sembravano mai finire, se ne andò, portandosi dietro carne e sudore.

    Smagrita com’ero, i vestiti mi si attaccavano addosso a fatica. Quel mattino, me li misi addosso di fretta, umida di debolezza. Il buio ancora ristagnava dentro e fuori casa, ma di sonno non ne avevo più.

    Mio padre era al tavolo della cucina e, appena mi vide, fece un mezzo sorriso storto, che a me non fece dispiacere.

    Solo avvicinandomi, vidi il mio libretto. D’istinto, mi strinsi la pancia ad occhi spalancati. Il Pascoli non stava più tra pelle e stoffa. Era vicino alla scodella dell’Ercole e lui ci tamburava sopra con le sue dita enormi. Se lo faceva apposta questo non lo so dire. Tante volte faceva cose senza il senso di farle.

    Restai immobile. Tanti pensieri e nessuno.

    Poi, i passi pesanti da bambino scalzo si fecero strada, suono di talloni che fanno eco al pavimento. Con le sue dita corte, scorticate dal freddo, sfilò il libretto da sotto la mano pesante dell’Ercole.

    - E’ di scuola! – disse, con voce stridula.

    Mio padre fece sì con la testa, con lo sguardo di chi pensa di sapere. Ci aggiunse pure un sorriso.

    Per davvero lo pensava, il mio fratellino, che fosse di scuola. Era troppo credere ad un gesto di coraggio. Eroico, del resto, non lo era mai stato.

    Dalla sua cartella di cartone, tirai fuori il mio Pascoli, che fin troppo aveva penato lontano dalla mia pancia sgonfia."

    DUE

    La lama di luce è posata sulle sue spalle. Emanuele Nizzardi, farmacista. Spaesato.

    Anna cerca di tornare al presente, cerca un inizio.

    - Fa freddo. –

    Lui alza lo sguardo e pensa che è sempre una donna molto bella. Bella in un modo tutto suo, da riempire la stanza con la sola sua presenza.

    - Non mi aspettavo che tu venissi. Non so nemmeno se è il caso… Sei sposato? -

    Emanuele si muove sulla sedia, slitta con la stoffa sul legno lucido.

    - Storie di poco conto. Sì, ho avuto storie di poco conto. –

    - Di me lo sai? –

    Per un momento pensa di mentire. Non vorrebbe sapere, in effetti.

    Annuisce però.

    Lei passa la mano sul tavolo per lisciarlo. S’inchioda sull’umido del palmo.

    - Non è facile. – dice Anna. Vorrebbe disperarsi un po’. Liberarsi, alzare il coperchio, evaporare.

    Lui annuisce ancora e un po’ si rilassa.

    - Mio padre sta poco bene, ha la gotta. –

    - Mi dispiace. – Le è uscito anche se non lo pensa.

    - Cercano un sostituto. –

    Stavolta è lei ad annuire. Così, tanto per far capire che sta seguendo.

    - Ha fatto il tuo nome. Sa che hai studiato, in città. –

    Lei annuisce ancora, con forza.

    - Ha pensato a me? –

    - Sì, gli sembri adatta. –

    - Hai pensato a me? –

    - Sì, per tanto tempo. –

    Non le piace la risposta. Tutto troppo difficile, ora.

    Emanuele si muove ancora sulla sedia, a disagio. Vorrebbe riprendersi le parole che ha gettato come dadi sul tavolo.

    - Te la senti di sostituire mio padre? –

    Ora va meglio anche per lei. Stanno in superficie, senza rimestare sul fondo. E’ così che vuole.

    - Non saprei … Certo, un lavoro mi serve. Ma, insegnare … –

    - Hai imparato bene in città? – La piega che dà alle parole non è quella che vorrebbe.

    Anna s’alza di scatto, trascina la sedia. Le piace quel rumore improvviso che fa trasalire l’altro. Pianta gli occhi dentro a quelli di lui.

    - Accetto. –

    - Bene. Ci vediamo domani. –

    - Domani? Di già? –

    Muove solo il capo, un mezzo giro a sinistra. Un inchino mal fatto, che sta a dire così è se lo vuoi.

    Lei sorride per concludere. Si è guastato qualcosa, ma non le importa.

    Si salutano che lui già scende le scale.

    II

    "Era primavera. Quella dei miei sedici anni.

    I miei pensieri avevano preso una piega nuova. Mi sentivo come un materasso girato a prender aria, a mostrare un lato di me che prima era schiacciato al buio, sulle assi di un letto.

    Lo sguardo di mio padre non era cambiato, diverso era il mio modo di subirlo.

    Mio fratello era sempre un cacasotto, ma a scuola con lui non ci potevo più andare. Si aggiustava da solo, tra una bacchettata sulle mani e un brutto voto. L’Ercole lo voleva studiato. L’avvocato o il dottore, uno di quelli che sa il fatto suo.

    - Femmina, voglio che il Giovanni diventi uno che conta. Ci va a scuola sino a che campa ‘sto figlio. –

    Era quello che pensava mio padre. Lo diceva a voce grossa, sbattendo una bestemmia qua e là.

    Io, con la mia età buona da marito, dovevo darmi da fare, insieme ai miei fratelli. Anche questo aveva detto.

    Erano sei i miei fratelli, escluso il più piccolo. Tutti a lavorare nei campi o alle stalle.

    Alla mamma era spiaciuto qualcosa. Non so se il mio nuovo modo di stare o le parole di mio padre. Forse contava in una vita migliore per me. Meglio della sua, che, a quarant’anni passati da poco, era stanca e vecchia e con la voglia di niente."

    "Mia madre aveva sfornato figli uno dopo l’altro, con la stessa velocità che si può avere nello sgranare il rosario. Che poi, da noi, non si pregava. Non come nelle altre cascine, che alla sera stavano tutti insieme alle stalle, a borbottare parole sante.

    E così, i nomi dei miei fratelli, sputati fuori come noccioli, erano dal Primo al Sesto. Solo al piccolo avevano dato un nome come si deve. Erano sempre stati uniti i miei sei fratelli, e, fra tutti, si facevano coraggio. Per le botte dell’Ercole soprattutto, quando il bicchiere era di troppo. In tre mesi, se n’erano sposati cinque e, quello rimasto solo, ne aveva fatto una malattia. Per me, non c’era più tanto con la testa. Un giorno, s’era preso i suoi quattro stracci e s’era messo in cammino. A cercar lavoro ci disse, che lì da noi si sentiva di troppo. Due di loro, il Primo e il Quarto, si erano portati le mogli a vivere da noi, che poveri lo eravamo già di nostro. Gli altri fratelli se n’erano andati lontano, con le mogli, via da quella famiglia tutta spigoli e fame.

    L’Ercole aveva messo la corona sulla testa. Comandava su tutti e a suon di sberle. Le mie cognate avevano presto imparato a conoscerlo, che quando batteva quel pugno enorme sul tavolo della cucina, faceva tremare anche i muri."

    "Avevo sedici anni e mia madre era ancora gravida. Ancora una volta. La pancia grossa stonava con il resto del corpo, secco.

    Quella mattina era talmente stanca, che non si riusciva a reggere in piedi.

    - Lascia e vai a coricarti. – le dissi. La pena mi rodeva dentro, rabbiosa.

    Fece no con la testa e sprofondò i suoi occhi nocciola dentro le occhiaie. Trascinando i piedi, se ne andò alle stalle.

    Rigirai la verza tra le mani. Con quelle foglie morbide e rugose, me la rigirai per un po’ sui palmi. Ci giocai. Poi iniziai a sfogliarla. Minestra per pranzo e polenta per cena, era quello che, da un pezzo, si mangiava da noi.

    Di terra nostra ne avevamo qualcosa, tanta a mezzadria. Poi, avevamo le bestie: sette vacche, una mula magra da far pietà, conigli e galline. Eppure eravamo più poveri di altri.

    Una notte che non dormivo, avevo sentito rientrare a casa i miei fratelli con mio padre. Arrivavano dall’osteria con quel bicchiere in più e le teste confuse, a non sentir ragione.

    - Che i soldi guadagnati, te li nascondi. Lo sappiamo tutti, anche la mamma, che un giorno ci freghi a tutti quanti e te ne vai a fartela bene da qualche parte. -

    Con un pugno in faccia, l’Ercole aveva spedito uno dei cinque per lungo, steso a terra. A suon di bestemmie.

    Forse, pensavo io, eravamo poveri perché il buon Dio s’era stufato di quella casa senza parole benedette."

    TRE

    Il cielo è bianco come latte, gonfio e soffice. Nell’aria gira quel dolce profumo di neve in arrivo.

    Non è facile per Anna, stamattina.

    Si è infilata nell’abito marrone, morbido sul davanti e ha calzato il cappellino di velluto verde, giocando un po’ con i nastri sul collo. Ha indossato il cappotto e si è messa in cammino. La strada è la stessa di allora, quando trascinava suo fratello col moccio al naso.

    Ha incrociato due persone. E’ felice anche per il sorriso storto del postino. L’altra, una faccia senza nome, le ha preso le misure ed ha guidato quel suo didietro enorme dentro la bottega.

    Per Anna non è facile e la colpa è anche del prete, Don Salvo. Glielo ha detto la sua padrona di casa. Alla messa della domenica mette in guardia il don, che dove il demonio ha lasciato un marchio, è meglio star distanti. Le pesano le parole della gente e come pietre, sono quelle lanciate all’aria da un santo pulpito.

    Il cancello verde cigola ancora. Emanuele è lì che l’aspetta. Anna vorrebbe affondare tra le sue braccia. L’istinto malsano di un momento difficile.

    - Ciao. – E’ contento, ma non lo dà a vedere.

    - Non fa freddo, stamattina. –

    - No. Vedrai che oggi nevica. -

    Ancora a galla, a nuotare in superficie.

    - Entra un momento, che mio padre ti vuole parlare. –

    Lo stomaco le fa un mezzo giro. Entrare in quella casa dalla porta d’ingresso, come una vera ospite, rende le cose difficili.

    Percorrono il vialetto in pietra. Sulla destra, il cespo d’ortensie e, poco distante, a sinistra, una betulla. Così lo ricorda Anna e le sembra di vederle, ora, quelle grandi corolle rosa, immobili nel buio della sera e il tronco bianco e morbido come velluto, a farle strada sul retro della casa.

    Entrano, Anna per prima.

    Nell’ingresso, odore di tabacco e cera per mobili.

    - Vieni. E’ in salotto. –

    Il maestro è davanti al caminetto, seduto in poltrona con le gambe sollevate.

    Le sembra diverso fuori da una cattedra, quasi indifeso.

    - Buongiorno, Anna. –

    - Buongiorno, signor maestro. –

    Anna fa un breve inchino.

    All’altro esce uno sbuffo d’aria, una specie di risata.

    - Non sono più il tuo insegnante. –

    Sorride.

    - Non lo siete mai stato. –

    Sorride pure lei.

    L’uomo muove la testa, approva. Poi, si fa serio, per venire al dunque.

    - Siediti. –

    Siede, ma solo poggiata sul bordo della sedia imbottita. Le gambe sono un fascio di nervi.

    - Non voglio fare giri di parole. Ieri si è riunito il consiglio scolastico. Gentaglia. –

    Emanuele apre la bocca per dire, ma poi la richiude, senza una parola.

    - Nessuno di loro voleva che fossi tu ad insegnare durante la mia assenza. Il perché lo sai da te. –

    Anna abbassa la testa. Lo sa il perché?

    Le gambe si rilasciano ed affonda nel cuscino, pesante.

    - Quello con i soldi sono io però ed ho deciso che sarai tu a farlo. –

    - Grazie. –

    Non saprebbe dire altro.

    - Se hai qualche dubbio o ti serve qualche informazione sugli studenti o sul programma, vieni pure da me. Da qui non mi muovo. –

    Spinge lo sguardo al piede gonfio.

    Anna comprende d’essere congedata. Si alza, sorride, fa ancora un inchino.

    Il maestro porta alla bocca una sigaretta spenta, senza accenderla.

    Emanuele guida la donna fuori da lì. Non vede l’ora.

    Si lasciano sul confine del cancello verde.

    - Ti accompagnerei a scuola, ma devo aprire la farmacia. –

    Anna fa una mossa di testa, civettuola, senza intento. E’ felice.

    Muove la mano per saluto, mentre lui si volta.

    - Emanuele! –

    Si gira, sorpreso.

    - Perché ha scelto me? –

    - Dice che in classe eri la più brava. –

    Anna riceve un sorriso che le scalda il cuore.

    I passi che la portano alla scuola sono leggeri, quasi di danza.

    Davanti al vecchio edificio la stanno aspettando.

    Le femmine a fare gruppo, i capelli tirati nelle trecce e le gonne a campana. Al suo arrivo, si girano tutte insieme, come una sola faccia.

    I maschi corrono sparpagliati dietro ad una palla di stracci. Le fronti umide, condensate nel freddo dei prati. Non si accorgono di lei.

    Anna con un sorriso a senso unico, tira la corda della campanella all’ingresso ed entra a scuola.

    Ora li ha davanti, ognuno nel suo banco. Volti di bambini in piedi fin dall’alba.

    - Sono Anna Presti e sostituisco il maestro. –

    Qualche faccia è sorpresa, qualcun’altra già pronta e preparata a suon di giudizi dalla gente di casa.

    Anna non si sente pronta, ha paura di cominciare.

    - Ora farò l’appello. Quando sentite pronunciare il vostro nome, vi alzate e mi dite l’età. – dice, dando peso alle parole, a disagio.

    - Angeli Giovanni.-

    Si alza, dall’ultima fila, un adolescente magro e curvo. Si gratta la faccia, ondeggia. Il tono di voce con alti e bassi s’impenna con un: – Tredici? –

    Forse si chiede cosa ci fa ancora tra i banchi, pensa Anna. E’ inverno, ma all’arrivo della luce e del sole, l’Angeli sarà un altro paio di braccia nei campi.

    - Aliberti Greta. –

    Si alza come per fare un piacere. Boccoli e stoffa pulita.

    - Dodici. Mia madre chiede quando torna il maestro. –

    Anna non vuole cogliere nient’altro che la domanda.

    - Presto. Ora, siedi. –

    E così via, sino a Zanti Elena, otto anni, tanto timida da non alzare nemmeno la testa.

    Il primo momento è passato, il ghiaccio quasi rotto.

    Le piace essere su quella sedia, le dita che corrono sulle righe del registro.

    Vuole cominciare con una poesia di Ungaretti:

    Silenzio

    III

    "Per mamma era arrivato il momento.

    Ero in ansia. C’era da chiamare qualcuno. Una di quelle mammane pronte a tirar fuori, seme o creatura, sempre pronte.

    Presi lo scialle, me lo gettai sulle spalle e corsi in paese.

    Lei misurava la cucina a piccoli passi, tutta in tensione, come la pelle sulla sua pancia enorme. Da sola. Gli uomini erano in giro, un bicchiere in osteria prima di cena. Il piccolo a far finta di studiare nella mia stanza. Le mie cognate a pulire alla scuola e al municipio che, dopo i lavori nei campi, anche quello toccava fare.

    Io, di corsa nell’aria pulita della sera. Profumo d’erba giovane nei fossi e una prima stella in cielo.

    Bussai alla porta di fretta. Palmo e nocche, due richiami di chi non può aspettare.

    Quella mi aprì svogliata. La Olga, un bambino in braccio e l’altro attaccato alle sottane.

    - Che c’è? –

    - Mia madre deve comprare! –

    - Quando sono iniziati i dolori? –

    - Non so, da tanto. Venite subito, vi prego. –

    Forse le feci pena, fatto sta che mollò i due bambini alla più grande, che mi guardava spaventata dietro le spalle della madre e mi seguì.

    Camminava lenta, ben attenta a non inciampare nel buio della sera. Io ero in subbuglio, ombre scure di brutti presentimenti mi riempivano la testa e una tenerezza fastidiosa mi correva su e giù per lo stomaco. Per mia madre, donna sola.

    Ad un certo punto, la presi per mano e iniziai a correre. L’altra si lasciò trascinare, sollevando polvere e parole.

    Rallentai solo nel cortile di casa.

    Nella cucina, solo ingombro di uomini.

    - E la mamma? – chiesi spaesata.

    - Nella stalla. – disse il Quarto.

    - Disturbava, qui dentro. – Era l’Ercole a parlare. Gli avrei sputato addosso.

    Se ne accorse mio fratello, che mi guidò verso l’uscita.

    - E’ più tranquilla nella stalla. – disse, per tirarsi fuori.

    Ero rabbiosa e in pena.

    La Olga disse una sola cosa: -Uomini. –

    Aprii il portone del fienile lentamente, con la paura di trovarci dietro qualcosa di spaventoso: l’uomo nero, un fantasma, la morte.

    - Mamma?-

    Come mi uscì quella voce non mia, non lo saprei dire.

    Era stesa sulla paglia a spingere e sbuffare come posseduta da una forza sconosciuta. M’impressionai a vederla così, potente e coraggiosa come mai lo era stata.

    La Olga sollevò le maniche della camicia e si accovacciò tra le gambe di mia madre.

    - La testa è già qui. –

    Alla mamma erano passate le spinte e si tirò su con i gomiti. Sfatta.

    - Ormai ci sei. –

    Diede un ultimo sfiato, paonazza.

    Mi avvicinai un po’. Il cuore mi galoppava in gola e lo spingevo giù a suon di saliva.

    Lo vidi uscire, un fagotto lucido e bagnato, sparato fuori come la pallottola di un fucile.

    Due colpi di stoffa col grembiule dell’Olga e il neonato cominciò a piangere. La donna mi chiamò e me lo lasciò tra le braccia. Piccola creatura scura di sforzo, una femmina.

    Le lacrime rotolarono giù, dalla mia faccia ai suoi capelli scuri. Battezzata dalla mia felicità."

    "- Non respira bene. Chissà se supera la notte… –

    Alzai la faccia, spaventata. Di chi parlava?

    Buttai uno sguardo ansioso alla mamma, stesa sulla paglia umida. Tirò su la testa per vedere quello che era uscito dal suo sforzo.

    Le posai la bambina sul petto.

    - La chiamiamo Vanessa. Eh, mamma? –

    Fece di sì con la testa. Gli occhi pesanti di sonno.

    - La portiamo in casa? – chiese la Olga.

    - Sì, nella mia stanza. –

    Presi la neonata e la fasciai nello scialle. Già pensavo al dopo, all’acqua da metter sulla stufa per lavarla.

    L’ostetrica, senza sforzo, tirò su la mamma, che pesava niente.

    Entrammo in cucina.

    Mio padre alzò lo sguardo e così i miei fratelli. Erano tutti attorno al tavolo, anche le mie cognate.

    - E’ una femmina. – disse la Olga.

    Sapeva che solo quello interessava all’Ercole. Infatti, lui fece uno sbuffo d’aria e riprese a mangiare.

    Gli altri si alzarono a guardare la bambina.

    - Non sta bene. – disse la Vita, mia cognata. – Ho già visto neonati messi così, ma mica ce

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