Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Il colore del dubbio
Il colore del dubbio
Il colore del dubbio
Ebook281 pages3 hours

Il colore del dubbio

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Anno del Signore 1760. Al largo delle coste berbere vele armate della Serenissima effettuano una rappresaglia contro alcune barche di pescatori. Si salva solo il giovanissimo Abram che viene affidato in custodia perpetua all’Abate di san Michele, un convento della laguna veneziana. Malvoluto e osteggiato dalla maggioranza dei monaci, il ragazzo trova un protettore nell’anziano frate Egidio che si adopera per fargli superare l’odio verso i cristiani. La morte del suo protettore getta Abram in una profonda crisi che supererà anche grazie all’amore per i libri. Affascinato dalla personalità del musulmano il custode del monastero decide di utilizzarlo come messo e di lì a poco lo incarica, insieme a Ferdinando, un ragazzo che ha scelto di rifugiarsi in convento per sfuggire a una relazione che poteva costargli la vita, di una missione pericolosa che li porterà a intraprendere un avventuroso viaggio fra i monti all’inseguimento del priore di Santa Maria di Follina accusato di essere fuggito da quel Monastero dopo avervi sottratto alcune opere d’arte. Fra disavventure e turbamenti, le vite di inseguiti e inseguitori si incrociano in prossimità di Cortina. Tutti loro sono chiamati a fare i conti con il proprio passato e le proprie inquietudini.

Nelso Soldan ha frequentato il corso di laurea in filosofia all’Università di Venezia.

Dopo avere lavorato per qualche anno come giornalista, entra nella Pubblica Amministrazione in qualità di referente per le relazioni con il mondo giovanile. Si è successivamente occupato della direzione di una S.p.A., e in seguito di Pubbliche Relazioni. Dal 2008 lavora come consulente L.P.

Vive a Conegliano (Tv).

Il colore del dubbio è la sua prima prova narrativa.
LanguageItaliano
Release dateOct 1, 2014
ISBN9788863965841
Il colore del dubbio

Related to Il colore del dubbio

Related ebooks

General Fiction For You

View More

Related articles

Reviews for Il colore del dubbio

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Il colore del dubbio - Nelso Soldan

    L'Autore

    I

    Acque di Barberia. Inizio primavera del 1760

    Il marinaio smise di cercare la costa colpito dallo sfrangiarsi di alte nubi biancastre

    Aria in quota, disse indicandole al secondo. Buona per dare un supplemento di spinta ai mercantili, aggiunse, poco convinto.

    Guardò l’uomo alzare al cielo due occhi annoiati e tornò a scrutare l’orizzonte. Un sole basso iniziò a trafiggere la bruma e per qualche istante il mare davanti a loro brillò come l’oro. Il marinaio vi distolse lo sguardo e prese a incamminarsi in direzione della poppa. All’altezza della randa si sporse dall’impavesata: la seconda corvetta procedeva a poco meno di un quarto di miglio. Gli sembrò che scarrocciasse leggermente, come se il vento avesse preso a rinforzare da settentrione. Cercò la conferma del secondo, ma giratosi, si accorse che era sparito. Si lasciò andare a un’imprecazione, contrariato dal dover governare un equipaggio di greci e albanesi spesso indisciplinati, la maggior parte profughi. Le cose non andavano meglio sulla fregata che apriva la rotta ai bastimenti, nonostante vi si trovasse il sovrintendente, un giovane di buona famiglia non ancora intaccato dai tarli della nobiltà veneziana.

    Avrebbero fatto scalo a Messina prima di procedere verso la città dogale, ma prima… Allungò uno sguardo preoccupato sopra la curva del Mediterraneo, dove le confuse sagome dei navigli, dai quali si erano staccati, baluginavano metalliche. Avevano atteso il primo grigiore del giorno per lasciare il convoglio e puntare verso la costa. Pensò preoccupato al sovrintendente, certamente in quel momento si trovava sul ponte, a seguire sul cannocchiale le due vele che si allontanavano. Lo immaginò immerso nel medesimo turbamento che gli aveva notato alla partenza, e che una volta giunti ad Alessandria si era accresciuto con l’effetto di aumentargli a dismisura sul volto l’età ancora giovane. C’era un buon motivo d’altronde. Cercò di scacciare quel molesto pensiero e si volse a ispezionare la porzione di mare intorno: fino a quel momento nessun naviglio ostile li aveva intercettati, ciononostante non si sentiva tranquillo, non più, dopo aver conosciuto l’ordine del Comando Veneto. Il sovrintendente gliel’aveva comunicato una volta ultimato lo stivaggio nel porto di Alessandria, giusto prima di salpare per il ritorno.

    L’aveva fatto di malavoglia, considerandolo un’enorme stupidità.

    Mi trova del tutto concorde, si rammaricò a mezza voce ritirandosi bruscamente dall’impavesata. Osservò il grembo del velaccio: quei ferzi di lino si gonfiavano, finalmente. Scosse il capo, erano tanti quei giorni di mare, davvero troppi, per soddisfare le economie gravate dalla scorta e dal navigare raggruppati. Pensò al Congresso Veneto che insisteva a proteggere in quel modo i carichi dai corsari, avvantaggiando i commercianti stranieri che usando navigli più veloci arrivavano prima ai porti. A complicare le cose ci mancava solamente quell’assurdità della rappresaglia: Roba da vigliacchi, giudicò. Restava il fatto che in quella seconda metà del secolo XVIII, le insegne di San Marco erano ancora considerate una sfida dai musulmani del Nord Africa, ai quali la marina non perdeva occasione di portare rappresaglia.

    Misurò i passi. In lontananza riusciva a distinguere la sommità calva di un hammada roccioso: fluttuava sopra una nebbia sporca, in certi punti filiforme. In breve tempo l’aria di tramontana l’avrebbe sciolta. Vi soffermò lo sguardo fino a quando si delineò il litorale, una sottile falce di rena bianca alle cui spalle le fronde dei palmizi oscillavano nella brezza di una stagione ancora primitiva. Ordinò di lascare: avrebbe atteso la seconda corvetta prima di dirigersi verso di esso.

    Il mare ha i brividi e non vuole mollare la copertina, esclamò con una risatina il piccolo Mujazim mentre fissava l’estremità della rete sul gancio. Si assicurò che l’invito rimanesse aperto e si girò verso il nonno: era stato lui a dirgli quella cosa della copertina la prima volta che gli capitò di vedere la nebbia aleggiare sull’acqua. Quella mattina aveva pianto pensando che quella cosa appiccicaticcia avrebbe intristito per sempre il mare del nonno; invece, al levare del sole l’aveva vista alzarsi e volare via. Ora non gli faceva più paura, quel fumo era come i brutti sogni che sparivano con la luce del giorno appena si aprivano gli occhi: Gli occhi sono come il sole, aveva deciso, perchè mettono la luce sulle cose.

    Notò che il nonno era occupato a gridare qualcosa al manovratore: probabilmente non lo aveva sentito. Ormai non l’avrebbe disturbato per dirgli della copertina: rischiarava, e il mare se la sarebbe tolta in fretta.

    A un tratto gli sembrò che l’acqua si trasformasse in un firmamento di stelline luccicanti. Il mare del nonno era l’unico posto dove si potevano vedere le stelline di giorno, e lui le vedeva ogni mattina o quasi. Quando c’era il brutto tempo no, ma anche nel cielo se c’era brutto tempo non si vedevano le stelline; col brutto tempo mare e cielo sembravano una cosa sola, il mare era il cielo e il cielo era il mare. Però nel cielo non si poteva andare, ma nel mare sì, anche dentro, come suo cugino Abram che adesso era dentro il mare. Era bravo Abram, ripuliva le nasse dalle aragoste e metteva le esche respirando l’aria dal foro di una canna, perché l’acqua non era come l’aria, non si poteva respirare. Il mare era il mare, e il cielo era il cie…

    Allertato da un guizzo, smise di filosofare e raccolto un arpione dal fondale lo puntò contro la superficie. Jacob, intrigato dal fare del nipote, strizzò l’occhio al genero e iniziò a scrutare dentro l’acqua. Cominciò a indicare al ragazzino immaginarie prede di straordinaria misura, divertendosi a farlo correre da un capo all’altro dell’imbarcazione. D’un tratto fu costretto a cercare l’equilibrio; alzato lo sguardo, lo fissò sorpreso sulla sagoma appena uscita dalla velatura. Anche i pescatori delle altre barche si erano accorti di quella inquietante presenza e osservavano ammutoliti la nave; la videro virare leggermente, e a tutti mancò il fiato. La manovra aveva fatto apparire la prua di una seconda corvetta: più veloce, si accostava all’altra levando il ribollire rabbioso dell’acqua.

    Il vecchio sentì sussultare nel petto, poi si rincuorò: non puntavano a loro. Avevano infatti curvato, scostandosi l’una dall’altra. Ora si trovavano a un centinaio di bracciate, posizionate alla destra e alla sinistra del gruppetto di barche. Non fece in tempo a riprendere il respiro che le vide rallentare: erano ormai a un tiro di lancia. Non sapeva che fare; pensò di gridare agli altri di tuffarsi, ma esitò, fatalmente attratto dal felino che sventolava sui pennoni. Lo salutò timidamente, quindi con foga, incoraggiato dalle risate che sentiva giungere dai legni, e dopo di lui gli altri, tutti a gesticolare festosi.

    Il bimbo puntò l’arpione contro quell’immagine ferina che montava le acque e coll’urlo glielo mosse contro, mimando il propiziatorio che vedeva danzare intorno al fuoco del villaggio.

    E fuoco chiamò il marinaio, che sotto al leone aveva raccolto la sfida. Fuoco ordinò la seconda vela, a rendere del tutto innocuo il ferro di quell’ingenuo pescatore. 

    II

    Abram si stropicciò gli occhi: era riemerso in un mare sconosciuto, diverso da quello atteso. Un odore acre gli pizzicava le narici e tutt’intorno erano sparsi frammenti d’ogni genere. Alcuni sprigionavano bagliori sinistri, altri eruttavano fumaioli che ammorbavano l’aria: cos’era quel posto e dov’erano il mare e la barca del nonno? Lo colse improvvisamente il sospetto di essere finito nell’inferno cristiano, quell’aldilà spaventoso di cui gli aveva parlato Jacob e che lo aveva tanto impressionato. Sentì paura: Io non sono cristiano, non sono cristiano, si ripeté lasciando andare la canna. Chiuse gli occhi, sperando di riaprirli sul mare di sempre.

    Non sono cristiano, protestò infine.

    Lui non era un infedele di quella religione, perché allora il nonno non era ancora venuto a portarlo via? Si costrinse a pensare: doveva andarsene, fuggire. Chiuse un’ultima volta gli occhi e cercò di spingersi in profondità, ma per l’affanno non gli riuscì di conservare l’aria e dovette riemergere in fretta. Davanti a lui, due torsi scuri sembravano abbracciarsi all’oceano: dalle carni lacerate trasudava un sangue rosato, simile a quello che colava dal dorso squarciato dei tonni arpionati dai pescatori. Alla sua sinistra, un corpo minuto pareva cullarsi nel mare; era mutilato di un braccio e dal moncherino scaturivano deboli fiotti di sangue, come di fonte esaurita.

    Incapace di distogliersi, continuò a fissare le pulsioni di quel cuore che non si rassegnava; non si rendeva conto di cosa fosse accaduto, non lo capì nemmeno quando sentì echeggiare le grasse risate dei marinai: era certo che provenissero dai diavoli dei cristiani.

    Non molto lontano intanto qualcosa avanzava schiaffeggiando l’acqua. Fu raggiunto dalla scialuppa e come gli furono chiare le figure degli uomini a bordo, la sua coscienza si risvegliò. Si sentì perduto, ripensò ai corpi che il mare si stava ingoiando e nuotò come un disperato fino al più vicino: quando girò il volto straziato del cuginetto, urlò, inorridito.

    Dalla scialuppa uno di quei demoni lo colpì con un remo; fu tirato dentro la barca. Trattenuto sul fondo, qualcuno gli passò una cima intorno alle caviglie; provò a liberarsi, ma quello dovette premere con maggior forza perché si senti bloccare del tutto. Schiacciato sul fondale, la faccia immersa in una pozza d’acqua, credeva di dover morire soffocato. Improvvisamente si sentì sollevare via: cercò disperatamente di aggrapparsi ai bordi, ma si ritrovò a brancolare nel vuoto, a testa in giù e con la faccia a un palmo da una muraglia di legno. Gli strattoni presero a susseguirsi, e a ogni tiro la muraglia pareva sfilare verso il basso: Dentro al mare, pensò, mi stanno trascinando dentro al mare.

    Mani robuste lo issarono a bordo. Frastornato e con la testa che gli pesava un accidente, guardò intorno, e realizzò di trovarsi sulla sommità di uno scafo: trovò la forza di girarsi verso il basso, e finalmente la vide.

    Giaceva quasi del tutto sommersa, parzialmente coperta da un lembo di vela a sghimbescio; la stoffa era lacerata in più punti, ma si leggeva ugualmente la scritta.

    Al Fûrgân, Al Fûrgân gridò cercando di svincolarsi dalla presa. Al Fûrgân, ripeté un’ultima volta prima di essere scaraventato sul ponte come fosse un sacco di cipolle.

    Aveva aiutato il nonno a dipingere il nome della barca proprio lì, lungo il lato maggiore della vela: Il Discriminante, uno dei tanti appellativi del Libro Sacro. Significa l’aiuto per distinguere fra il bene e il male, gli aveva detto Jacob guidandogli la mano sulla traccia da colorare.

    Fece per alzarsi, ma qualcunogli piantò un ginocchio sulla schiena: Sei peggio di un’anguilla, accidenti a te, imprecò questi, girandogli un capo della corda intorno ai polsi.

    Abram tentò di girarsi sul fianco dimenandosi e spingendo sulle reni.

    Stai fermo figlio d’un cane, lasciami fissare la corda, gli intimò il fante pestando sulle vertebre.

    Non fosse sufficiente, gli piazzerò una murena a succhiarglielo, si accompagnò con una strizzatina d’occhio il secondo.

    Scoppiarono a ridere; Abram sentì allentare la pressione e decise di approfittarne: si girò di colpo facendo ruzzolare l’uomo e tiratosi in piedi si precipitò verso il bordo dello scafo. Stava per spiccare il salto quando si sentì strappare all’indietro: urlò dal dolore. Disteso sul tavolato, non sentiva più le braccia; incastrate sotto la schiena, non gli riusciva di muoverle e pensò che si fossero spezzate.

    Il fante lo raggiunse. Con la mano ancora stretta sull’altro capo della fune lo colpì sulla testa, brutalmente, come avrebbe fatto con un adulto.

    Fu trascinato sul ponte e legato all’albero. Stordito, gli pareva che qualcuno gli avesse scavato dentro le ascelle, ma sentiva ancora più forte il dolore di aver perduto le persone più care. Cercò di fissare nella mente i luoghi che sentiva allontanarsi e pianse, sconsolatamente. Udì lo scafo beccheggiare alcune volte, poi più nulla.

    Quando riprese i sensi era ormai notte. Una luna filante, attraversata da masse cupe, spariva e riappariva nell’oceano fitto del cielo.

    Gli sembrò di avvertire qualcosa di umido sui piedi, quindi una sorta di scalpiccio, poi solamente il frangere ritmico dell’acqua contro la chiglia. Passarono interminabili minuti; a volte gli sembrava di scorgere una sagoma muoversi sul fondo, in prossimità del bompresso, dove cigolava un lume. Allora la inseguiva, inquieto, finché le palpebre gli cedevano. Più in là, smise di cercarla, e lasciò che il buio calasse definitivamente.

    Si risvegliò all’improvviso con la sensazione di non essere solo. Guardò in trance in direzione della prora: la luce spariva e riappariva a intermittenze irregolari, come se ogni tanto qualcosa si frapponesse fra lui e quella sorgente. Cercò di mettere a fuoco la debole aurea che ne marcava il contorno: Si avvicina, constatò. Trattenne il respiro: un fiatare greve si faceva spazio fra i tonfi del suo cuore. Crebbe d’intensità fino a quando lo sentì sulla pelle: deglutì e strizzò le palpebre cercando di evocare la figura del nonno, ma in luogo del volto familiare si delineò l’immagine di un mostro. Trasalì: si era appena sentito toccare nelle parti intime.

    Dopo ci fu solamente il buio.

    A un certo momento gli parve di udire la voce del nonno. Lo chiamava, ma come da lontano. Cercò di urlargli che lui era lì, che non se ne andasse, ma si sentì uscire una specie di lamento roco, indefinito. Si mise ad ascoltare: gli riusciva di udire unicamente i propri denti battere per il freddo. La voce era scomparsa; tremò, febbricitante, fino a quando lo vinse la spossatezza.

    Passò del tempo. Qualcuno gli tirò dell’acqua in faccia. Ne avvertì lo schiaffo insolente ed ebbe un sussulto: sulle labbra pareva la stessa acqua che incocciava quando si tuffava dalla barca, ma non era il mare quello che aveva davanti a sé.

    Il marinaio si accertò che fosse cosciente. Imprecò qualcosa che lui non fu in grado di comprendere, poi se ne tornò via.

    Sentiva una sete terribile; gli ardeva la gola e un dolore acuto lo tormentava all’altezza delle costole. Cercò di muoversi per allentare la corda e udì finalmente la propria voce accompagnarsi al dolore.

    Urlò tutto il fiato che gli era rimasto.

    Spentasi l’eco, gli parve di essere rimasto il solo sulla nave; tutt’intorno il buio dipingeva fantasmi nella sua mente e lo colse la paura di rivedersi davanti l’essere che aveva ideato tutto quel male: l’avrebbe visto stavolta, irsuto e innaturalmente ridente come una enorme iena del deserto, la bocca zeppa di denti aguzzi. Si sarebbe avvicinato a lui come l’avvoltoio si accosta alla carogna, con il collo proteso e le nere ali raccolte all’indietro.

    Rabbrividì: in fondo era riapparsa la luce. Stavolta si trattava di una vera e propria fiamma, e si muoveva rapidamente nella sua direzione. Seguitò a fissarla fino a quando la vide ardere vicina; avvertì il calore sulla pelle e pensò che il mostro fosse tornato per finirlo. Si sentì bagnare dalla propria urina e girò il volto.

    La bestia grugnì, rabbiosa, e il dolore lo trafisse come una spada. 

    III

    Sottocoperta il marinaio sussultò, svegliato dal grido che aveva dell’inumano. Chiamò il secondo prima ancora di scendere dalla branda: Che diavolo sta succedendo? domandò appena lo vide mettere dentro la testa. Sembrò esitare: sull’attenti, aveva l’aria di uno appena buttato giù dal letto.

    Non so, di preciso, signore. Se vi riferite a quella specie di verso…

    "E a cos’altro se no!, verso, lo avete chiamato, dov’eravate, per dio."

    Pareva venire dal ponte, rispose quello, imbarazzato.

    Lo squadrò di brutto: Chi c’è sopracoperta, o meglio chi ci dovrebbe stare lassù, oltre al mio cane?

    La guardia di turno, la vedetta e… il ragazzino, quel moro che abbiamo fatto prigioniero ieri.

    Datemi la lanterna che avete in mano!

    Scansatolo, salì deciso alla botola. Uscito sul ponte, alzò la fiamma: tutto era tranquillo. Troppo. Si diresse verso il prigioniero, subito seguito dal secondo. Accostatosi, gli sollevò il capo. Sentì che respirava appena e affannosamente. Colpito da un odore nauseabondo, diresse la luce sul corpo. Gli uscì una smorfia di disgusto, il ventre pareva carne messa a sfrigolare; ancora fumigante di resina, emetteva un fetore che ammorbava l’aria. Comprese immediatamente che qualcuno doveva aver spinto una torcia contro il corpo del ragazzo; il fuoco aveva morso la carne tenera, lacerandola in profondità.

    Chi è il figlio di troia che ha fatto questo! Grandissimo idiota per la madre di dio.

    Si riparò la bocca mettendosi a osservare gli effetti dell’ustione: al posto dell’ombelico si era raggrumata una massa sanguinolenta e tutt’intorno innumerevoli vescicole si allargavano sui tessuti piagati. Notò che una consunzione era ancora in atto, anche se modesta; non sapendo come arrestarla, si guardò bene dall’istinto di spargervi dell’acqua. Si girò di scatto verso il secondo: Voi… Chiamatemi subito il cerusico! Buttatelo giù dal letto se necessario.

    Ordinò di slegare il prigioniero e lo fece sistemare sopra alcuni sacchi di iuta. Arrivò il medico, poco più di un veterinario, buono a ricucire ferite o a tamponare emorragie, ma non di aggiustare le viscere compromesse di Abram, a suo dire destinato a una dolorosa agonia per l’infezione che gli sarebbe sopravvenuta.

    Qualcuno fra i presenti suggerì che tanto valeva buttarlo ai pesci. I fanti di mare sghignazzarono, badando di non farsi sentire dal marinaio che aveva i gradi del comando. Pareva alquanto turbato infatti.

    Portatelo di sotto, ordinò invece questi, e fate piano.

    È solamente un ragazzino, si disse mentre lo portavano via: gli guardò un’ultima volta il ventre devastato e sentì crescere il disappunto per l’artefice di quella crudeltà.

    Vincendo con le minacce le reticenze, il marinaio venne a conoscere in fretta l’autore di quell’accanimento. Chiamato a rapporto l’uomo di guardia - un esule albanese in forza da poco - lo fece mettere in un primo momento agli arresti, ma temendo complicazioni con il governatore ne ordinò successivamente il rilascio. Alle prime luci dell’alba fece sistemare Abram su un palanchino. Fatto calare nella scialuppa, fu trasportato sulla fregata.

    Sulla cannoniera lo curò un vero chirurgo; avvezzo a gestire situazioni estreme di combattimento, lo scrupoloso medico gli ricucì con cura le carni, medicandole fino al giorno che constatò cessato il pericolo di infezioni.

    Quanto all’Albanese, una volta giunto al comando della flotta il rapporto del capitano, fu licenziato dalla marina per il disonore arrecato da quel comportamento ingiustificato.

    IV

    Abram venne affrancato dal Magistrato dell’Armar. Consegnato in custodia perpetua all’Abate di San Michele, un isolotto della laguna veneziana, questi lo accolse nel convento destinandolo ai lavori di fatica.

    Durante i primi anni, la sua sorte fu presa a cuore da frate Egidio, l’ortolano. Il ragazzo passava buona parte delle giornate con lui, occupandosi dell’orto. Talvolta lo accompagnava al mercato di Murano, remando in compagnia del frate che col tempo gli insegnò a leggere e scrivere, e in seguito anche a fare i conti. Egidio fu l’unico a usargli la disinteressata cortesia dei buoni sentimenti; dagli altri conventuali la sua presenza era appena tollerata, risultò facile per loro comandargli quelle incombenze che nessuno avrebbe mai preso in considerazione, pronti ad aggiungerne di nuove agli attimi che Abram, impratichendosi, guadagnava al riposo. Non solo, le sue origini africane nella testa di certuni lo facevano più nativo di bestia che umano, ragione per la quale lo evitavano, scostanti, talvolta segnandosi di nascosto.

    Quando frate Egidio era occupato altrove, il ragazzo era uso starsene da solo. Si cibava degli avanzi che trovava nelle pentole, consumandoli nella piccola stalla del convento dove con suo grande piacere gli era permesso stare. A volte, specialmente d’inverno, il frate gli portava qualche pietanza calda o un dolcetto prelevato di nascosto, felice di vederlo crescere in forze: era infatti di costituzione robusta, e superava già in altezza la maggior parte dei conventuali.

    Lavorava di lena, prima di cadere addormentato nel giaciglio che si era ricavato in un angolo riparato del fienile dove conservava i pochi effetti personali, primi fra tutti i preziosi testi donatigli dall’ortolano.

    Odiava il freddo. Uno di quei rari inverni nei quali la laguna diventava ghiaccio e le piante si rivestivano della galaverna, progettò di fuggire. Egidio gli aveva parlato dei contrabbandieri che profittando del solidificarsi del mare si arrischiavano carichi di tabacco fino a Murano. L’aveva sentito dire che usavano chiedere asilo al convento, prima di affrontare il ritorno. Si sarebbe unito a loro.

    Si staccò dal pagliericcio. La parte superiore del fabbricato era destinata a ricovero delle granaglie ma ospitava anche i cumuli della fienagione e alcune balle di paglia: addossate al muro,

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1