L'amore si impara
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Book preview
L'amore si impara - Roberta Di Pascasio
Strindberg
L’amore
È una notte buia questa, i lampioni fanno fatica a illuminare le strade, schiacciate da un colore cupo che rende tutto informe. Sono sotto casa tua, di fronte al portone, ho già citofonato due volte. Piove e dentro la mia macchina i vetri sono appannati, ogni tanto devo accendere il motore per riscaldarmi. Sono qui da ore, non so neanche se tornerai a casa questa sera e comunque sono settimane che non rispondi al telefono. Così prendo carta e penna e ti scrivo. Alberto è rimasto a dormire a casa di un amico, sono sola. Lo so, ti stupisci, quasi ti vedo, hai un’espressione ironica sul viso, diresti Tu che non hai mai voluto impegni e doveri, devi riuscire a ritagliarti una serata libera…
La tua ironia mi colpisce ma non fa più male. Ti capisco. Sono sempre stata lontana da qualsiasi forma di dipendenza o attaccamento a qualcuno, una che pensava solo al lavoro e alla sua libertà, che quando incontrava le sue amiche di scuola, ingrassate, ingrigite dalla fatica, con figli urlanti attaccati alle gonne, tirava un sospiro di sollievo perché quello no, mai, sacrificare la vita per gli altri, per carità. Dici che ormai sono cambiata, dov’è la tua dignità adesso, mi chiedi guardandomi fisso, senza delicatezza. La mia dignità, certo. Perché ho sopportato di venire licenziata dall’azienda a cui ho dedicato tanti anni e ho trovato lavoro come commessa al supermercato della mia amica. Una laureata in filosofia che fa la commessa dici, e fai un ghigno crudele. Le tue parole grondano risentimento mentre poggi la tua spesa sul nastro. Lo fai apposta a venire a fare la spesa qui, vuoi mettermi a disagio, scuotermi per farmi tornare a essere quella con cui ti divertivi senza pensare al domani, con cui partivi senza meta, a cui non promettere mai nulla. E a me andava bene così, non avevo aspettative, vivevo alla giornata. Inorridivo di fronte al vissero per sempre felici, al bando i sentimenti stucchevoli, godiamoci la vita senza paletti, i progetti sono lacci intorno al collo dicevo, e tu ridevi soddisfatto.
È mezzanotte ormai e un’Audi grigia parcheggia davanti a me, è tua, la riconosco. Scende una ragazza bionda vestita di scuro e corre sotto la pensilina del tuo palazzo, da lontano non riesco a vederla bene, la pioggia sfuma i contorni, tu scendi con calma dalla macchina e la raggiungi. Ti vedo, stai ridendo, prima di aprire il portone ti giri e la sposti sotto la pioggia, la baci, lei finge di scansarti e ride, tu metti le mani sotto il suo cappotto, quelle mani senza amore me le sento addosso, sono avide, spingono, si insinuano, mani grandi che vogliono soddisfare piccoli desideri, hanno la durata di una notte, una settimana, un mese. È una candela che si consuma. Inesorabile. Come fai ad avere già la voglia di toccare un’altra donna. E chiedi a me conto della dignità. È vero che ho accettato un lavoro che tu trovi degradante, ma sai perché ho dovuto farlo. E perché sono stata licenziata. Io che per anni ho dedicato ogni pensiero e passione alla mia azienda, al mio ruolo di responsabile delle risorse umane. Risorse umane. Mi occupavo di persone e non ne capivo niente di emozioni, di esigenze, di necessità. Licenziavo, trasferivo, come in una partita a scacchi in cui muovere pedine che non erano persone, cavallo, re, regina, per me erano tutti uguali, di nessuno mi interessava. Li ho mai ascoltati o guardati negli occhi? Adesso il dialogo che ho con le persone è buongiorno e buonasera, quanto costa questo prodotto, mi siedo e passo i prodotti, si sente bip e vado avanti. Tutto qui. Eppure adesso mi basta così poco per capire, uno sguardo, un sorriso, il modo in cui mi porgono i soldi. Il lavoro è solo un mezzo, mi serve per pagare la fisioterapista di Alberto, per farlo studiare. Arrivo a fine mese con fatica, annoto ogni spesa, centellino le sigarette, le scarpe con i tacchi, i vestiti firmati, le creme Dior, tutto il superfluo che ho sempre considerato indispensabile. Ora mi sento utile.
Prima invece? Prima dell’incidente, voglio dire. Libertà e soldi. E basta. Prima della morte di mio fratello e mia cognata la mia vita era lieve, una piuma leggera che svolazzava senza meta. Ho saputo della loro morte due giorni dopo, io e te eravamo in Versilia, ricordi? Avevo spento il cellulare perché tutto quello che mi interessava eravamo noi, le nostre cene di pesce, gli aperitivi al tramonto, bere fino a stordirsi nei locali affacciati sul mare, fumare erba a letto prima di fare l’amore. Contavamo solo io e la mia noncuranza. Hanno atteso il mio ritorno per il funerale. Non ho visto mio fratello neanche per l’ultima volta, avevano già chiuso la cassa e l’unica cosa che ho potuto fare è stata poggiare la mia mano sul legno levigato e leggere la striscia di raso che attraversava le rose bianche: mamma papà Elisa. Alberto aveva sempre chiesto di me in quei giorni. Io? Non sono mai stata una zia presente, attenta, amorevole, eppure mi chiamava, chiedeva di stare con me. Voleva raccontarmi com’era stato rimanere per più di un’ora intrappolato nella macchina ribaltata e chiamare, chiamare di continuo i genitori che non rispondevano. L’ho portato a casa, ho dovuto ristrutturare gli spazi tanto da renderla agevole per un ragazzino in sedia a rotelle, ho iniziato a chiedere permessi, a rifiutare trasferte. Che altro potevo fare. Quando sono tornata in ufficio dopo una settimana di ferie mi hanno presentato il conto. Licenziamento. All’inizio ho pensato che il mondo si fosse incrinato, una crepa qua, una là, e dopo un po’ sarebbe crollato. All’inizio. Ma poi, quando sono tornata a casa, lui mi ha accolto con un sorriso. Troverai una soluzione, questo ha detto. Io l’ho trovata con te, ha detto ancora. E ha pianto. Il suo mondo quante crepe aveva?
La sera vuole parlare del padre e della madre. Teme che il tempo passi e cancelli ogni loro traccia. Aiutami a ricordarli, questo mi ripete. E io ogni giorno gli racconto un aneddoto di mio fratello. Ne ho meno di mia cognata, a volte costruisco un ricordo basandomi solo su qualcosa che mi raccontò lei o che di lei mi hanno detto i suoi genitori. Ogni tanto vengono a trovarlo. Sono anziani, escono di casa raramente. Però mi chiamano tutti i giorni. La nonna di Alberto a volte piange al telefono e mi chiede cosa può fare. Non mi serve nulla le dico, la rassicuro. È lui che aiuta me. Quando vado in camera la mattina a svegliarlo mi sorride sempre. Io lo so perché lo fa. Vuole convincermi che è sereno e che sta bene con me. Il suo sorriso è un uncino, a volte mi sfiora, mi accarezza, altre mi graffia, mi infilza e tira a sé.
Ha sempre paura che io non torni. Quando sente le chiavi infilate nel portone, si fa trovare lì vicino. So che è una fase. Adesso è giusto che dipenda da me. Non fatico. Non lo sento sulle spalle. Il suo peso è lieve.
Ecco, il portone si apre e la donna di prima esce in strada, un taxi l’aspetta. Tu sarai già sotto la doccia, pago e senza pensieri. Sapevo che non l’avresti fatta dormire da te, fare uscire una donna da casa tua alle tre di notte, col freddo, la pioggia, è tipico, quante volte sono andata via anch’io perché tu preferivi dormire solo? E io ero d’accordo. Preferivo il mio letto comodo, svegliarmi da sola e non con il respiro di qualcuno vicino, con qualcuno che mi tira le coperte, mi piaceva prepararmi il caffè e sorseggiarlo nel balcone della cucina, e non aver nessuno con cui condividerlo, a cui preparare la colazione, con cui parlare. Adesso quando mi sveglio non vedo l’ora di guardare il viso di mio nipote, di preparargli il latte con i corn flakes o le fette biscottate con la marmellata ai lamponi, la sua preferita. Aspetto che mi racconti i suoi sogni. Di incubi ne ha sempre meno.
La donna si ferma d’un tratto e si volta, guarda verso la mia macchina. Resta ferma, con la portiera del taxi aperta e la pioggia che le picchietta i capelli. Si abbassa e dice qualcosa al tassista, poi si incammina, viene verso di me. Apre lo sportello. E tu? Esclama, e ride sfacciata. Ora la riconosco. Che fai qui, mi chiede, incurante della pioggia che le riga il viso e forma strisce nere di trucco sbavato. Il sarcasmo le increspa le labbra in un ghigno che pare un sorriso bloccato sul nascere, a metà. Ciao Alice, e la voce esce fuori roca. Sono talmente scioccata che non trovo altre parole, sono ferme in gola, non vanno né su né giù. Come la sorpresa, l’amarezza. Un sasso nel petto. La tua amica di una vita, la tua vicina di casa quando eri un bambino, la tua compagna di sbronze all’università, una sorella per me hai sempre detto, spesso è uscita con noi, quante volte andavate a bere una birra in un locale mentre io ero fuori per lavoro, quante volte ho cucinato per lei la sera. Se volesse vederti ti chiamerebbe non trovi? O lo spii per farti del male? La sua cattiveria è come uno sputo in faccia, un alito amaro che mi arriva alle narici. La guardo. Il vento spruzza di acqua il mio sedile. Le parole non vengono